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RAPPORTO TRA PROCEDIMENTO PENALE E GIUDIZIO DISCIPLINARE

Ai sensi dell’art. 44, D.P.R. n. 221/50: “Fuori dei casi di radiazione, previsti dall’art. 42, il sanitario a carico del quale abbia avuto luogo procedimento penale è posto a giudizio disciplinare per il medesimo fatto imputatogli, purché egli non sia stato prosciolto per la non sussistenza del fatto o per non averlo commesso”. In altre parole, vi è l’obbligatorio intervento da parte dell’Ordine, con le delibere conseguenti, allorquando un iscritto si trovi ad essere direttamente coinvolto in un procedimento penale. Su tale relazione si svolgeranno alcune riflessioni e valutazioni con particolare riferimento alle possibili interferenze di dei due giudizi.

Autonomia della decisione disciplinare

L’organo di disciplina ha piena facoltà di porre a base del proprio convincimento le risultanze emerse in sede penale, rendendole oggetto di autonoma valutazione sotto il profilo disciplinare (Cass., sez. III civ., 1° ottobre 2004, n. 19658). In applicazione di tale orientamento, l’Ordine può far proprie le risultanze del procedimento penale di primo grado dandone adeguata motivazione nel provvedimento sanzionatorio (cfr. sul punto CCEPS, dec.

nn. 22 e 23 del 2 febbraio 2015), tanto più quando i suddetti fatti, sui quali sono fondati gli addebiti contestati, sono cristallizzati dal passaggio in giudicato della sentenza penale e risultano, pertanto, tali da garantire la certezza del diritto a tutela dell’interessato, fermo restando il permanere dell’autonomia di giudizio da parte dell’Ordine. Nell’ambito della decisione assunta in sede disciplinare, non rileva il percorso logico argomentativo e deduttivo compiuto dalla autorità giudiziaria penale, in quanto la verifica disposta sotto il profilo disciplinare assume, a parametri di valutazione, criteri diversi dalla violazione dell’ordine sociale, prendendo in considerazione il prestigio della professione medica, il decoro della medesima e il comportamento del sanitario deontologicamente orientato al primario interesse della salute del paziente, scevro da interferenze relative all’illegittimo perseguimento di interessi personali. Va altresì considerato che, in relazione alla natura del bene tutelato in ambito disciplinare, quale è, come detto, il decoro della professione e l’integrità morale della categoria, è sufficiente l’esistenza di un solo caso comprovato, peraltro connotato da particolare gravità, atto a palesare la sussistenza di un comportamento deontologicamente scorretto, per giustificare l’irrogazione della massima sanzione.

Non costituisce reiterazione del medesimo procedimento il giudizio disciplinare avente ad oggetto la medesima condotta già valutata nel giudizio penale in virtù del principio di autonomia che caratterizza i due procedimenti. Diversa è la ratio sottesa ai due accertamenti, diversi sono i parametri assunti alla base delle rispettive valutazioni. In particolare, i due procedimenti sono tra loro strutturalmente indipendenti – caratteristica, questa, che influisce sull’autonomia anche dei rispettivi provvedimenti da essi scaturenti – in quanto trovano fondamento su due ratio sostanzialmente diverse: l’una, quella del procedimento penale, mirante alla repressione di condotte contrarie al vivere civile che integrino una fattispecie considerata reato per l’ordinamento giuridico; l’altra, inerente al procedimento disciplinare, che tutela il prestigio e il decoro di una categoria di professionisti attraverso una serie di regole deontologiche, fondate piuttosto su principi di correttezza e irreprensibilità della condotta dei relativi componenti. Differente è il presupposto (violazione di regole professionali e deontologiche, anziché penali) e parimenti diverso è l’interesse tutelato, ragion per cui non è dato ravvisare alcuna violazione del principio di irripetibilità del medesimo giudizio.

Il Presidente procede all’archiviazione della pratica nel caso di sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunziata ai sensi dell’art. 653, primo comma, C.p.p., come modificato dalla legge n. 97 del 2001. La norma prevede, infatti, che la sentenza di assoluzione “ha efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare davanti alle pubbliche autorità, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso”. La modifica all’art. 653 c.p.p., peraltro, va interpretata in collegamento con gli artt. 129 e 530 C.p.p. che distinguono l’ipotesi di assoluzione perché il fatto non costituisce reato da quella dell’assoluzione, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Nel caso “perché il fatto non costituisce reato” al giudice disciplinare viene preclusa ogni azione, mentre nell’ipotesi “perché il fatto non previsto dalla legge come reato” il Presidente deve procedere all’istruttoria preliminare in quanto l’atto potrebbe essere suscettibile di apprezzamento disciplinare19.

Il Presidente è tenuto, altresì, a iniziare l’istruttoria preliminare nell’ipotesi in cui l’iscritto sia stato prosciolto con decreto di archiviazione da parte del GIP. Il decreto di archiviazione della denunzia, infatti, non ha natura giurisdizionale ed è sempre suscettibile di essere revocato dall’organo che lo ha emesso. Inoltre, stante il principio di autonomia della

19 RAIMONDI F.,RAIMONDI L., Il procedimento disciplinare nelle professioni sanitarie, cit., 50.

valutazione disciplinare rispetto a quella effettuata dal giudice penale, nulla impedisce all’Ordine professionale l’apprezzamento positivo della condotta dell’iscritto, ove siano stati lesi i principi della deontologia. Un comportamento che non ha rilevanza penale, infatti, può essere apprezzato in sede disciplinare se concretizza un fatto disdicevole al decoro della professione.

La Cassazione civile che a Sezioni Unite ha precisato: “L’art. 42 del DPR n. 221/1950, è illegittimo e pertanto, essendo privo dell’efficacia formale della legge, va disapplicato da parte del giudice, prevedendo la radiazione di diritto dall’Albo del professionista che abbia riportato condanne penali, sia che tale sanzione venga fatta discendere dalla condanna per reati genericamente indicati con riferimento alla generica pena edittale comminata, sia che essa venga collegata a specifici titoli di reato per i quali la condanna stessa sia stata pronunciata, in violazione del principio generale dell’ordinamento che vieta l’irrogazione automatica di siffatte sanzioni, senza l’apertura e lo svolgimento del preventivo procedimento disciplinare (quale sede propria per la indispensabile valutazione dei fatti e della correlata gradualità sanzionatoria)” (Cass. Civ., SS. UU. n. 9228/1990). Pertanto, appare chiarito, in via definitiva, che non è legittima una irrogazione de plano di sanzioni disciplinari che prescinda dall’instaurarsi di un procedimento disciplinare. Ciò, evidentemente, per impedire un automatismo che richiederebbe di non tenere nel debito conto elementi di giudizio i quali, in ambito disciplinare, possono qualificare in maniera diversa la medesima condotta che, invece, in sede penale può subire una valutazione differente. Viceversa, vi è da aggiungere che un medesimo fatto può avere una configurazione etico morale tale da condurre a una sanzione disciplinare anche più severa rispetto alla decisione del giudice penale. Conseguentemente, non è lecito affermare che, una volta instaurato il procedimento disciplinare, sussista una sorta di vincolo nella scelta della sanzione da irrogare. Infatti, se una norma di legge impone l’obbligo di irrogare una determinata sanzione all’esito di un procedimento disciplinare avente a oggetto un determinato reato, il principio dell’Ordinamento secondo cui non può sussistere una sanzione disciplinare rigida irrogata automaticamente sine judicio, verrebbe violato, dal momento che il procedimento, non avendo altro sbocco che la sanzione stabilita ex lege, diverrebbe una fictio giuridica in cui si prescinderebbe dalla ponderazione della gravità del fatto.

L’art. 3 del codice di procedura penale abrogato prevedeva, nei casi di contemporanea apertura, a carico del sanitario presunto colpevole, di un procedimento penale da parte dell’Autorità giudiziaria e di un procedimento disciplinare ad opera del competente Ordine, il cd. principio della pregiudizialità penale, ovvero l’obbligo della sospensione del procedimento disciplinare in attesa dell’esito definitivo del procedimento penale.

Il nuovo codice di procedura penale ha abolito tale obbligo di sospensione, introducendo il principio dell’autonomia dei giudizi, pertanto, l’azione disciplinare può essere instaurata senza dover attendere la conclusione dell’azione penale.

In alcuni casi, quindi, quando la criticità deontologica è palese e la prova della responsabilità del medico è conclamata (es. confessione nel corso del giudizio) è auspicabile che il procedimento disciplinare si svolga anche in pendenza di quello penale.

Negli altri casi, quando l’azione disciplinare si riferisce agli stessi addebiti contestati in sede penale, è preferibile deliberare l’apertura e la contestuale sospensione del procedimento disciplinare fino al passaggio in giudicato della sentenza penale ovvero in caso di inesperibilità avverso quel provvedimento di alcun mezzo di gravame.

In tal modo si eviterebbero diversità di giudizio, come potrebbe succedere qualora un iscritto venisse condannato in sede disciplinare e successivamente assolto con formula piena dal giudice penale perché́ il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso (v. art.

653 c.p.p. modificato dall’art. 1 della legge 97/2001), con il rischio di richieste di pretese risarcitorie da parte del sanitario nei confronti dell’Ordine che lo ha condannato.

Nel caso di azione penale conclusa con una sentenza di patteggiamento, ove il giudice applica una pena oggetto di una concorde richiesta delle parti senza entrare “ancora nel merito dei fatti” (applicazione della pena su richiesta delle parti), essendo la stessa equiparabile a una sentenza di condanna (art. 444 e seguenti, co. 1 bis, c.p.p.), le Commissioni ordinistiche dovranno valutare la rilevanza deontologica dei fatti, avendo piena discrezionalità̀ sia per una decisione di condanna che di assoluzione, basandosi sulle risultanze emerse in sede penale ed essenzialmente riferibili agli atti delle indagini preliminari, cui va attribuito carattere probatorio. (CCEPS dec. n.1/2003 e 62/2003).

In base a quanto disposto dall’art. 653, comma uno-bis, c.p.p., nonché alla luce del costante orientamento interpretativo della giurisprudenza, anche della CEEPS, “l’autorità

disciplinare è vincolata al giudicato penale per quanto concerne gli elementi di fatto e di diritto che sono stati presi in esame e sono serviti a formare il convincimento del magistrato penale”. Pertanto, all’organo di disciplina resta il libero apprezzamento dei fatti così come accertati dall’autorità giurisdizionale, al fine di valutarne le conseguenze sotto il profilo deontologico; al tempo stesso, non è affatto vietato che possa fondare le valutazioni che gli competono su quelle stesse risultanze, non essendo necessario che esse trovino diretto riscontro in sede disciplinare, ove esso le ritenga sufficienti. Ciò che rileva, ai fini della legittimità della decisione, è che l’organo di disciplina conduca il proprio ragionamento con criticità e autonomo apprezzamento, ben potendo limitarsi a correlare il rilievo dei fatti emersi ai principi di deontologia professionale. In altre parole, nel provvedimento disciplinare deve essere manifesto il percorso logico che conduca al convincimento di colpevolezza, consolidatosi sulla profonda dicotomia esistente tra buona fede e trasparenza e il coinvolgimento dell’inquisito in comportamenti contrari alle norme di etica professionale che trasmodano in illiceità della condotta (nn. 18 del 30 gennaio 2019 e 89 del 30 ottobre 2019).

Come statuito anche dalla Suprema Corte di Cassazione (Sez. III Civ., 9 maggio 2000, n.

5885), è infondato il gravame relativo alla carenza di motivazione del provvedimento impugnato se la decisione risulta adeguatamente motivata in re ipsa mediante rinvio ai fatti circostanziati menzionati nella sentenza definitiva di condanna, nonché attraverso l’indicazione delle norme deontologiche violate. Va disattesa la tesi di parte ricorrente sulla pretesa violazione dell’art. 47 DPR n. 221/1950 laddove l’Ordine risulti aver valutato autonomamente il profilo della rilevanza disciplinare della condotta posta in essere dal ricorrente; la sanzione così irrogata non può essere considerata quale mera conseguenza della sentenza penale di condanna, ma assume la valenza di una decisione scaturente da una autonoma valutazione dell’autorità̀ decidente (nn. 18 del 30 gennaio 2019 e 91 del 30 ottobre 2019).

Motivo di interesse e di confronto risulta la prescrizione e il giudizio disciplinare.20

L’art. 51 DPR 221/50 prevede che “l’azione disciplinare si prescrive in cinque anni”. La giurisprudenza è ormai univoca nell’individuare il giorno per la decorrenza dei termini a seconda che si tratti di violazione deontologica di carattere istantaneo (ossia si consuma e si

20 “Rapporto tra illecito penale ed illecito e disciplinare. Riflessi sulla prescrizione. La problematica pregiudiziale penale” V. TENORE, PALAMARA, MARZOCCHI, BURATTI, Milano 2012.

esaurisce nel momento in cui viene posto in essere) o continuato. Nella prima ipotesi l’azione disciplinare si prescrive in cinque anni dalla commissione del fatto. Nel secondo caso, il termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare inizia a decorrere dalla data di cessazione della condotta medesima.

Una volta aperto un procedimento disciplinare entro il tempo utile, inizia, in virtù della natura squisitamente amministrativa del procedimento, un nuovo periodo di prescrizione quinquennale a decorrere dalla data di apertura del procedimento.

Quanto alla decorrenza del termine di prescrizione, di cui al più volte citato art. 51, occorre distinguere il caso in cui il procedimento disciplinare abbia per oggetto la violazione dei peculiari doveri del professionista e, quindi, incide solo sui requisiti di probità, di decoro e di dirittura professionale, dall’ipotesi in cui tragga origine da fatti costituenti reato per i quali sia stata iniziata o esercitata azione penale.

In materia, caduta, con l’entrata in vigore del vigente codice di rito (del 1989), la c.d.

pregiudiziale penale (recata dall’art. 3 del codice di procedura penale) che prevedeva la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di procedimento penale, è stato introdotto il principio della piena autonomia dei giudizi, con la conseguenza dell’avvio o della prosecuzione del procedimento disciplinare anche quando, sui medesimi fatti, sia in corso un procedimento penale. È però poi intervenuta (con la legge n. 97/2001) la modifica normativa dell’art. 653 c.p.p. (che regola i rapporti — anche — tra giudicato penale e giudizio disciplinare), la quale ha ampliato, rispetto al precedente testo, l’efficacia del giudicato penale in sede disciplinare, prevedendola (oltre che per la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso) anche per le sentenze assolutorie «perché il fatto non costituisce illecito penale»21, e per le stesse sentenze di condanna (cui viene equiparata anche la sentenza irrevocabile di patteggiamento), la cui efficacia di giudicato vale quanto all’accertamento del fatto, alla illiceità penale dello stesso ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

In relazione a tale ultimo intervento normativo, ed in conseguenza dello stesso, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione (con sentenza 8 marzo 2006, n. 4893) si sono pronunciate nel senso che, se l’incolpazione disciplinare è riproduttiva degli stessi addebiti

21 Secondo diversi Autori tuttavia nel caso di sentenza di assoluzione perché il fatto, pur essendo stato accertato, non costituisce reato o nel caso di pronuncia di estinzione per intervenuta prescrizione, l’Ordine potrà giudicare la condotta del sanitario ai soli fini deontologici e disciplinari, sul rilievo che una stessa condotta, pur non costituendo reato, può ben violare diverse norme deontologiche. L’Ordine, d’altra parte, ha facoltà di perseguire disciplinarmente comportamenti che, se possono essere “consentiti” a tutti gli altri cittadini, potrebbero invece essere ritenuti dalla categoria medica offensivi del decoro professionale.

(«degli stessi fatti») contestati in sede penale, si determini un effetto preclusivo necessariamente più ampio di quanto prima accadesse quanto alla possibile prosecuzione del procedimento disciplinare. Esse scrivono che se ne impone la sospensione, «a mente dell’art.

295 c.p.c., in quanto dalla definizione del procedimento penale può dipendere, ai sensi del citato art. 653 c.p.p., quella del procedimento disciplinare».

Allo stato, pertanto, l’indicazione della Corte di Cassazione è nel senso che, se l’addebito disciplinare riguarda gli stessi fatti che sono oggetto del processo penale, il procedimento disciplinare deve essere sospeso in attesa dell’esito del giudizio penale.

Se non vi fosse la sospensione del giudizio pregiudicato si potrebbe giungere a una conclusione paradossale che potrebbe vedere l’incolpato condannato e assolto nello stesso tempo per opposte conclusioni sulla sussistenza del fatto.

Si ritiene tale sospensione necessaria, quindi, non può che esplicare effetti permanenti per tutta la durata del procedimento penale e il termine quinquennale di prescrizione inizierà a decorrere dalla data in cui la sentenza penale sia divenuta definitiva. Si parla, in questo caso, di interruzione della prescrizione ad effetti permanenti. Si propende, pertanto, per una sospensione “necessaria” piuttosto che per una sospensione “facoltativa”. In quest’ultimo caso varrebbe il principio di diritto, peraltro più volte enunciato in passato dalla Corte di Cassazione secondo cui, nel procedimento disciplinare amministrativo promosso dall’Ordine nei confronti di un iscritto, in applicazione della regola della necessità di una pronta definizione del procedimento il termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare è soggetto a “interruzione con effetti istantanei”, iniziando a decorrere dalla data di sospensione del procedimento disciplinare e non da quella in cui la sentenza penale sia divenuta definitiva. L’orientamento giurisprudenziale che nega il carattere permanente dell’interruzione si fonda sul fatto che la sospensione è necessaria solamente se ricorre il rapporto di pregiudizialità indicato dall’articolo 295 c.p.c. o se la sospensione sia prevista da un’altra specifica disposizione di legge e sempre a condizione che la sentenza penale esplichi efficacia di giudicato nell’altro giudizio ai sensi degli articoli 651, 652 e 654 del nuovo c.p.p. e “poiché l’efficacia del giudicato è limitata alla sola sentenza di assoluzione, nel procedimento disciplinare nessun effetto può esplicare una pronuncia di condanna; con la conseguenza che, non ricorrendo alcun rapporto di pregiudizialità nel senso lato sopra indicato, deve escludersi che possa farsi luogo alla sospensione necessaria del procedimento disciplinare in caso di contemporanea pendenza del processo penale” (Cassazione Sezioni Unite 14629/2003).

Tuttavia, occorre evidentemente fare applicazione in sede disciplinare del sopravvenuto orientamento giurisprudenziale, pur restando in attesa del suo consolidamento, anche per le correlate riflessioni quanto agli effetti della sospensione in questione sulla prescrizione dell’illecito disciplinare.

E sempre con riferimento ai tempi di prescrizione, occorre sottolineare che la Commissione Centrale con propria decisione ha affermato: “è parimenti infondata l’eccezione di improcedibilità dell’azione disciplinare per prescrizione, dovendosi far decorrere il quinquennio previsto dall’art. 51 del D.P.R. n. 221 del 1950, non dalla data di accadimento dei fatti oggetto del procedimento ma... (dalla) ... data in cui l’Ordine ha avuto conoscenza degli stessi...”. Tale impostazione appare funzionale alle esigenze ordinistiche, tenuto conto delle difficoltà, nella maggior parte dei casi, di acquisire la documentazione relativa alle sentenze di condanna divenute irrevocabili posto che, come noto, l’Autorità Giudiziaria non è obbligata, ai sensi di legge, a comunicare all’Ordine di appartenenza tali informazioni. A ciò si deve aggiungere che spesso il sanitario, sottoposto a procedimento penale, non comunica all’Ordine, anche se richiesto, le notizie relative a detto procedimento, tanto meno i provvedimenti di condanna divenuti irrevocabili. In conclusione e per quanto sopra esposto, si rappresenta l’opportunità che l’Ordine, anche ai fini cautelati vi e prudenziali, onde evitare possibili censure relative a estinzioni “facili” di procedimenti disciplinari, consideri quale termine di decorrenza della prescrizione quinquennale - nel caso in cui il procedimento disciplinare tragga origine da un provvedimento penale -la data in cui l’Ordine ha avuto conoscenza del provvedimento giudiziale che definisce irrevocabilmente il processo penale, vale a dire, di norma, dal giorno in cui ha avuto formale comunicazione o notizia della sentenza penale irrevocabile.22

È infondato il gravame con cui parte ricorrente deduce che la Corte di appello penale ha statuito in ordine all’avvenuta prescrizione del reato, così verificandosi l’insussistenza di un giudicato penale di condanna. Infatti, il giudizio disciplinare ha la finalità̀ di valutare la condotta dell’incolpato sotto un profilo deontologico (e, di conseguenza, può prescindere dagli esiti del procedimento penale) (n. 5 del 30 gennaio 2019).

Non può sostenersi che la mancata dichiarazione di inammissibilità del ricorso da parte della Corte di Cassazione vada interpretata come accoglimento del medesimo, essendo implicito che, qualora non fosse maturata la prescrizione, la sentenza d’appello sarebbe stata annullata

per un nuovo giudizio (l’annullamento della sentenza per prescrizione impedirebbe a qualsiasi altro organismo chiamato a giudicare sulle stesse accuse di rifarsi acriticamente a quanto contenuto nelle sentenze “coperte” da prescrizione, imponendo a chi giudica un’autonoma ricostruzione dei fatti ed una vera e propria istruzione processuale, essendo quindi illegittimo il provvedimento impugnato che, difettando di un’autonoma valutazione degli elementi di causa, abbia “acriticamente sposato” il contenuto della sentenza della Corte d’appello, poi annullata dalla Cassazione.

Detta tesi è, infatti, astratta e non suffragata da elementi di certezza, in quanto si limita ad ipotizzare quale sarebbe stata - secondo il ricorrente - la decisione del giudice penale sul merito della controversia nel caso in cui l’azione penale non fosse stata prescritta, come invece si è verificato. Appare evidente come non sia possibile ricavare dal descritto evento una ipotetica assoluzione del sanitario dalle gravi imputazioni penali a suo carico, le quali -

Detta tesi è, infatti, astratta e non suffragata da elementi di certezza, in quanto si limita ad ipotizzare quale sarebbe stata - secondo il ricorrente - la decisione del giudice penale sul merito della controversia nel caso in cui l’azione penale non fosse stata prescritta, come invece si è verificato. Appare evidente come non sia possibile ricavare dal descritto evento una ipotetica assoluzione del sanitario dalle gravi imputazioni penali a suo carico, le quali -

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