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II. LE FATTISPECIE SOGGETTIVE DI PERICOLOSITÀ: STORIA ED

2. Presupposti oggettivi

2.5. I redditi derivanti da evasione fiscale

La giurisprudenza tradizionale e consolidata ha abitualmente escluso la facoltà del proposto di dimostrare la sperequazione tra capacità patrimoniale e valore del bene utilizzando redditi non dichiarati a fini fiscali, trattandosi di redditi illeciti209.

Altra parte della giurisprudenza, invece, ha distinto a seconda che i redditi non dichiarati ai fini fiscali siano prodotto di attività lecita, in tal caso ritenendoli idonei a giustificare la proporzione. Ciò sulla scorta della alternatività che la legge pone tra dichiarazione fiscale e attività economica svolta, identificando così due autonome e distinte fonti di giustificazione. Sicché, se l’attività economica svolta è lecita, ancorché non vengano dichiarati i redditi da essa prodotti, sarebbe comunque possibile per il proposto farvi ricorso per giustificare la disponibilità di certi cespiti. L’istituto, infatti, non mira a sanzionare le dichiarazioni fiscali infedeli bensì ad espropriare i patrimoni illeciti210.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione, in tempi recenti, sono state così chiamate a dirimere il conflitto sulla dibattuta ammissibilità dei redditi non dichiarati al fisco tra quelle poste patrimoniali che, adeguatamente allegate dal proposto, sono in grado di giustificare la sproporzione esistente tra i suoi averi e il

209 Ex multis, Cass. pen., sez. VI, 5 febbraio 1990, n. 265, in Ced, rv. 183641; Cass. pen. sez. V, 10

novembre 1993, n. 3561, in Ced, rv. 196461; Cass. pen., sez. I, 15 gennaio 1996, n. 148, in Ced, rv. 204036; Cass. pen, sez. VI, 23 gennaio 1998, n. 258, in Ced, rv. 210834; Cass. pen., sez. II, 26 gennaio 1998, n. 705, in Ced, rv. 211435; Cass. pen., sez. I, 2 luglio 1998, n. 3964, in Ced, rv. 211329; Cass. pen., sez. VI, 22 marzo 1999, n. 950, in Ced, rv. 214507. Peraltro, lo stesso evasore fiscale è potenzialmente destinatario di misure di prevenzione, in quanto sussumibile nelle categorie di pericolosità di cui agli artt. 1, lett. a) e b), e 4, lett. c), del Codice antimafia.

210 Tale interpretazione è maturata, dapprima, rispetto alla diversa confisca “allargata” di cui al D.L.

n. 306/1992, art. 12-sexies (Cass. pen., sez. VI, 31 maggio 2011, n. 29926, in Ced., rv. 250505) e, successivamente, è stata mutuata dalla giurisprudenza di legittimità nella materia delle misure di prevenzione, attraverso l’enunciazione del seguente principio di diritto: “In tema di misure di prevenzione patrimoniali, poiché le disposizioni sulla confisca mirano a colpire i proventi di attività criminose e non a sanzionare la condotta di infedele dichiarazione dei redditi, il proposto può allegare, al fine di giustificare la sproporzione tra i beni posseduti ed il reddito da lui dichiarato ovvero l'attività economica dallo stesso svolta, guadagni derivanti da attività legittime ma non dichiarati a fini fiscali” (Cass. pen., sez. VI, 24 ottobre 2012, n. 44512, in Cass. pen. 2014, 10, p. 3448).

reddito dichiarato o l’attività economica svolta, evitando così l’applicazione della confisca211.

In particolare, il Supremo Collegio nella sua più autorevole composizione, con la sentenza n. 33451 del 2014, ha rilevato come l’orientamento favorevole sia di fatto maturato nella giurisprudenza di legittimità relativamente alla diversa confisca, c.d. “allargata”, di cui all’art. 12-sexies, D.L. n. 306/1992 (convertito dalla legge n. 356/1992)212. E, muovendo dall’asserita diversità di ratio legis e da una solo parziale coincidenza del tenore letterale del citato art. 12-sexies rispetto all’art. 24 del Codice antimafia, disciplinante la confisca di prevenzione, conclude per la non sovrapponibilità delle fattispecie. Ne consegue l’inestensibilità dell’interpretazione proposta per la confisca “allargata” alla confisca di prevenzione213.

Più dettagliatamente, nella prospettiva delle Sezioni unite, la confisca di prevenzione suppone un giudizio di pericolosità, che prescinde dall’accertamento della responsabilità penale del proposto, mentre la confisca allargata è subordinata alla condanna per alcuni specifici delitti. Da ciò discenderebbe una diversità funzionale irriducibile ad unità. In questo senso, la confisca preventiva è misura di prevenzione diretta a sottrarre alla disponibilità del preposto tutti i beni che siano frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego, impedendo che tali beni siano utilizzati per realizzare ulteriori vantaggi (non necessariamente reati) e che il funzionamento del sistema economico legale sia contaminato da accumuli di ricchezza irregolari. Diversamente, la confisca “allargata” di cui all’art. 12-sexies è una misura di sicurezza atipica che, attraverso l’ablazione del patrimonio di cui la legge presume l’origine illecita in ragione della sproporzione tra il valore dei beni

211 Del riferito dibattito interpretativo rendono efficacemente conto, in occasione dell’ordinanza di

rimessione della questione alle Sezioni unite, A.M.MAUGERI, La confisca allargata: dalla lotta alla

mafia alla lotta all’evasione fiscale?, in www.penalecontemporaneo.it, 9 marzo 2014; F.MENDITTO,

La rilevanza dei redditi da evasione fiscale nella confisca di prevenzione e nella confisca “allargata”, in www.penalecontemporaneo.it, 9 marzo 2014.

212 La confisca “allargata” è tradizionalmente qualificata in termini di misura di sicurezza “atipica”,

che prevede, in seguito a condanna (ovvero ad applicazione della pena su richiesta) per i reati specificamente contemplati, la confisca dei beni di valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte ovvero all’attività economica. Per una ricognizione dell’istituto, cfr. E.SQUILLACI, La confisca “allargata” quale fronte avanzato di neutralizzazione dell’allarme

criminalità, in Dir. pen. proc., 2009, p. 1525.

e i redditi dichiarati o l’attività economica svolta dal condannato per alcuni delitti di particolare gravità, mira principalmente a impedire la commissione di nuovi reati.

Inoltre, dal punto di vista della formulazione delle due fattispecie, le Sezioni unite osservano che la confisca “allargata”, come quella di prevenzione, è legata alla non giustificabilità della provenienza delle utilità e alla sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o alla propria attività economica, mentre soltanto quella di prevenzione aggiunge un requisito diverso e alternativo al primo, cioè la riconducibilità dei beni al frutto di attività illecite o al reimpiego delle stesse.

La diversità di ratio e di struttura normativa, secondo le Sezioni unite, vale a giustificare compiutamente i diversi orientamenti seguiti dalla giurisprudenza in punto di (ir)rilevanza dei proventi dell’evasione fiscale. Sicché, che si possa tenere conto dei redditi derivanti da attività lecita, sebbene sottratti al fisco, è conforme al tenore letterale dell’art. 12-sexies, che pone come termine di paragone della sproporzione dei beni, alternativamente, il “reddito dichiarato” ovvero la “propria attività economica”, consentendo di tenere conto, attraverso la seconda locuzione, dei redditi derivanti da attività lecita, ancorché sottratti all’erario, perché comunque riferibili all’attività economica espletata dal soggetto.

Parimenti coerente con la struttura normativa dell’art. 24 del Codice antimafia è che dei redditi evasi non possa tenersi conto ai fini della giustificazione della sproporzione, poiché ai fini della confisca di prevenzione rileva anche il fatto che i beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. E, nell’ottica del Supremo Collegio, l’evasione fiscale integra ex se attività illecita (contra

legem), anche qualora non integri reato.

Tuttavia, come suggerito da una parte della dottrina, è necessario fare ordine tra i presupposti applicativi della misura di prevenzione patrimoniale ed evitare commistioni pretorie contrarie alla lettera della legge, a pena di violazione dell’insuperabile limite costituito dal principio di legalità. Infatti, nella prassi applicativa, come precedentemente ricordato, la sproporzione del bene rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica è spesso considerata ex se indice sintomatico della derivazione illecita del bene214.

Di tale vizio logico, che riduce a unità i due requisiti della confisca di prevenzione, descritti invece dalla legge come alternativi, sembrano essere affette le stesse citate Sezioni Unite. In questo senso, si sostiene l’impossibilità di giustificare la sproporzione tra beni e assetto patrimoniale (primo requisito della confisca) adducendo somme evase, ma a tale conclusione si perviene sussumendo dette somme tra il frutto o il reimpiego di attività illecite (secondo e alternativo requisito), quale sarebbe l’evasione fiscale stessa. Conseguenza di tale commistione della parte con il tutto è una potenziale estensione dell’oggetto della confisca preventiva oltre il perimetro assegnatole dalla legge. Infatti, per effetto della mancata giustificazione della sproporzione dei beni nella disponibilità del proposto con i redditi dichiarati o l’attività economica svolta, vengono sottoposti all’ablazione patrimoniale gli stessi cespiti patrimoniali risultati ingiustificatamente incongruenti. Viceversa, in conseguenza della derivazione da attività illecita, confiscabili dovrebbero essere esclusivamente tale frutto e il relativo reimpiego. E non è affatto scontato che tali due entità debbano coincidere, né coincidente è il relativo riparto dell’onere probatorio215.

Appare allora irragionevole, in quanto violativo del parametro di cui all’art. 3 Cost., che impone di trattare in modo analogo fattispecie omogenee, affermare che in ipotesi di confisca “allargata” ex art. 12-sexies sia possibile giustificare la sproporzione con redditi derivanti da attività lecita, ancorché sottratti al fisco, e negare tale possibilità per la confisca di prevenzione, considerando automaticamente illecita l’identica attività. Ciò, quanto meno, argomentando sulla scorta della difforme formulazione delle disposizioni richiamate, poiché, come si è detto, la illiceità dell’attività, ai fini della confisca del relativo frutto o reimpiego, costituisce presupposto autonomo della sola confisca di prevenzione, certo suscettibile di essere soddisfatto indipendentemente, ma che non dovrebbe essere trasfuso interpretativamente al diverso e autonomo presupposto della sproporzione, a pena di circolarità del ragionamento. Piuttosto, sarebbe stato più coerente affermare che, costituendo l’evasione fiscale attività ex se illecita, i relativi proventi

215 Infatti, mentre la giustificazione della sproporzione è addossata al proposto attraverso adeguata e

puntuale allegazione, la prova che si tratti di beni frutto di attività illecita o reimpiego di essa grava sull’accusa.

e il loro riutilizzo soddisfano autonomamente il secondo requisito della confisca di prevenzione, addossandone l’onere probatorio relativo ad an e, soprattutto,

quantum in capo all’accusa216.

Per di più, se si considera che per applicare la confisca “allargata” non occorre accertare l’esistenza di un rapporto di pertinenzialità del bene da confiscare con uno dei reati per i quali è prevista e che la stessa va disposta per la sola esistenza di sproporzione tra il valore dei beni ed il reddito dichiarato o i proventi dell’attività economica del condannato, si apprezza come l’origine illecita del bene si presuma

iuris tantum per il solo fatto della ingiustificata sproporzione217. Quindi, non appare ragionevole affermare che l’evasione fiscale sia intrinsecamente illecita (anche al di fuori dei casi in cui costituisca reato) rispetto alla confisca di prevenzione e, al contempo, possa essere utilizzata per rendere conto della sproporzione valoriale della confisca “allargata”, fondante una presunzione di illecita provenienza dei cespiti. L’antinomia violativa del principio di non contraddizione è manifesta, laddove la medesima attività evasiva, da un lato, venga considerata intrinsecamente illecita e, ciononostante, dall’altro lato, venga ammessa a giustificare una non illiceità218.

Peraltro, se la ratio delle due confische è comunque quella di colpire gli illeciti accumuli di ricchezza, seppure in momenti diversi (ante delictum quella di prevenzione, post delictum quella “allargata”), appare il riflesso di un inutile rigore repressivo la loro strumentalizzazione per sanzionare la condotta di infedele dichiarazione dei redditi, che si colloca in un momento successivo rispetto a quello della produzione del reddito, per la quale soccorrono specifiche previsioni in materia tributaria219. Doppiamente inutile, se non deleterio, alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza sovranazionale in punto di ne bis in idem e illeciti tributari220.

216 Cfr. A.QUATTROCCHI, La sproporzione dei beni nella confisca di prevenzione tra evasione

fiscale e pericolosità sociale, in Giur. it., 2015, 3, pp. 710 ss.

217 Cfr. Cass. pen. sez. un., 17 dicembre 2003, n. 920, in Dir. pen. proc, 2004, 3, p. 277. 218 A.QUATTROCCHI, La sproporzione dei beni nella confisca di prevenzione, cit.

219 In questo senso, Cass. pen., sez. VI, 1 giugno 2012, n. 21265, in Ced, rv. 252855; Cass. pen., sez.

VI, 31 maggio 2011, n. 29926, in Ced, rv. 250505; Cass. pen., sez. VI, 28 novembre 2012, n. 49876, in Ced, rv. 253956.

220 Per una ricognizione del tema, con particolare riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU

Un ulteriore profilo di opinabilità sancito dalle Sezioni Unite attiene al condono fiscale. A tale riguardo, si suole affermare apoditticamente il principio di diritto secondo cui il condono fiscale e, in particolare, quello c.d. “tombale”221, non incide sull’interpretazione negazionista che spoglia di rilievo probatorio le somme evase ai fini della giustificazione della sproporzione nella confisca di prevenzione. In questa prospettiva, dunque, non rileverebbe che, a seguito del perfezionamento dell’iter amministrativo del condono, le somme di cui all’evasione fiscale entrino a far parte legittimamente del patrimonio del proposto, atteso che l’illiceità originaria

sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta? (a margine

della sentenza Grande Stevens della Corte EDU), in www.penalecontemporaneo.it, 30 giugno 2014; G.M.FLICK, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema

europeo, in www.penalecontemporaneo.it, 14 settembre 2014; Relazione n. 35/2014, a cura

dell’Ufficio del Massimario, recante «Considerazioni sul principio del ne bis in idem nella recente giurisprudenza europea: la sentenza 4 marzo 2014, EDU Grande Stevens c. Italia», reperibile sul sito ufficiale della Corte di cassazione. Tuttavia, con specifico riguardo alle ricadute della sentenza Grande Stevens nonché della decisione Varvara sul sistema delle misure di prevenzione, occorre richiamare un recente arresto della giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., sez. VI, 16 luglio 2014, n. 32715, in Ced, rv. 261444, che ha ritenuto inapplicabile il principio del divieto di bis in idem tra procedimento penale e procedimento di prevenzione. A tale esito si è pervenuti evidenziando che il presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione non è un “illecito”, ma una “condizione” generale di pericolosità, la quale è desumibile non solo da singoli fatti illeciti, ma da un più ampio quadro di abitudini di vita, rapporti e frequentazioni. In tal modo, preludendo alle motivazioni delle Sezioni Unite sulla natura giuridica della confisca di prevenzione, depositate il 5 febbraio 2015, la Suprema corte ha affermato che non possa attribuirsi natura sanzionatoria alle misure di prevenzione patrimoniali, non essendo soddisfatti i tre criteri individuati dalla Corte EDU nel caso Engel per la riqualificazione in termini penalistici delle sanzioni nazionali (la qualificazione del diritto interno, la natura e la severità della sanzione). La valutazione di pericolosità sociale del proposto, dunque, sfuggirebbe alla logica del ne bis in idem elaborata dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale, difettando, sul piano della classificazione legale e formale dell’illecito, la comparazione tra illecito penale e amministrativo (propria dei casi Grande Stevens e Varvara): ciò in quanto il presupposto della misura di prevenzione non è un “illecito” di qualsivoglia natura, quanto una “condizione”. Nonostante il solido impianto argomentativo della pronuncia richiamata, non può comunque tacersi come esso si imperni eminentemente sul presupposto soggettivo della prevenzione patrimoniale (la pericolosità), per inferirne l’inadeguatezza a fungere da parametro nello scrutinio di una inammissibile duplicazione del trattamento sanzionatorio. Ebbene, alla luce della non più necessaria attualità della pericolosità sociale al momento applicativo della misura preventiva patrimoniale, maggiore attenzione avrebbe potuto essere dedicata, piuttosto, al presupposto oggettivo della confisca antimafia, nonché agli effetti di ablazione patrimoniale da essa sortiti, questi sì a concreto rischio di violazione del ne bis in idem. In argomento, cfr. F.BRIZZI,Sentenza Grande Stevens e processo di prevenzione: prime indicazioni del Giudice di legittimità, in Arch. pen. (web), 3, 2014.

221 Di tale tipologia di condono si rinvengono paradigmatici esempi nell’art. 34 della L. n. 413/1991

del comportamento con cui quest’ultimo le aveva conseguite continuerebbe a dispiegare i propri effetti ai fini della confisca222.

In altri termini, si sostiene che l’adesione del proposto al condono fiscale non escluderebbe di per sé la provenienza illecita del patrimonio, potendo oltre tutto consistere tale illiceità (che non necessariamente deve avere rilievo penale) proprio nell’evasione fiscale, né eliderebbe ex post la “illiceità originaria”. Poiché il giudizio di proporzionalità deve essere compiuto fra la consistenza patrimoniale dell’interessato ed i suoi profitti leciti, il condono fiscale non avrebbe alcuna incidenza in termini giustificativi dell’eventuale sproporzione fra patrimonio e reddito dichiarato o attività economica svolta223

.

Tali conclusioni, tuttavia, peccano di genericità e non tengono conto della specifica casistica in cui l’attività generatrice del reddito abbia originariamente natura lecita. Si allude al caso in cui non solo l’attività svolta sia consentita dall’ordinamento, ma sia stata avviata con denaro lecito. Dall’esistenza di un’attività economica lecita, anche nella fase dell’avvio, derivano, infatti, redditi “geneticamente” leciti. Solo laddove essi non vengano successivamente dichiarati ai fini fiscali e assoggettati alla relativa legislazione tributaria si può affermare che essi divengano illeciti, non già nella loro interezza, bensì nella sola “quota-parte” che si sarebbe dovuta versare all’erario224

. A rigore, dunque, si dovrebbe ritenere possibile per il proposto giustificare la provenienza dei beni nella sua disponibilità attraverso l’allegazione di redditi derivanti da attività (originariamente) lecita e fiscalmente non dichiarati, ma al netto delle somme che si sarebbero dovute versare al tesoro dello stato e previo puntuale adempimento del relativo onere di allegazione.

A ciò si aggiungono certamente le problematicità di fornire una giustificazione siffatta laddove l’importo sottratto al fisco sia poi reinvestito nell’attività economica svolta, con la difficoltà di scorporare i proventi illeciti da quelli leciti. Circostanza, questa, che ha indotto le più volte citate Sezioni unite ad affermare che, nel caso di evasione fiscale ripetuta nel tempo, si attua

222 Cass. pen, sez. II, 6 maggio 1999, n. 2181, in Ced, rv. 213853.

223 Così Cass. pen., sez. II, 28 settembre 2011, n. 36913, in Ced, rv. 251151.

inevitabilmente un reimpiego delle utilità illecite nel circuito economico dell’evasore, con conseguente confusione di proventi leciti e illeciti. Sicché, “al di là dell’impossibilità pratica di accertare la concreta distinzione in caso di lunghi periodi, è del tutto evidente, per legge economica, che le attività lecite non sarebbero state le stesse (con quei volumi e con quei profitti) ove vi fosse stato l’impiego di capitali minori (solo quelli leciti): dunque l’inquinamento, per definizione e per legge logico-economica, non può non essere omnipervasivo e travolgente”.

Cionondimeno, è proprio per fare fronte a circostanze di questo tenore che i condoni “tombali” sono stati introdotti, in disparte dalle possibili considerazioni di opportunità circa una scelta di politica-legislativa siffatta. Non a caso, già la denominazione con cui ci si riferisce a tali istituti è di ciò paradigmatico: con essi si intende collocare una pietra tombale a sigillo di un passato fiscale poco chiaro225

. Perciò, pur accogliendo la tesi secondo cui il condono fiscale non elimina l’originaria provenienza delittuosa del denaro nel suo momento genetico, essa non potrebbe estendersi all’ipotesi, precedentemente descritta, in cui le fonti di produzione del patrimonio siano originariamente lecite. Pertanto, perfezionatosi il condono ed estinguendosi la pretesa punitiva dell’ordinamento nei confronti della condotta evasiva, di cui viene per tale via purgato il disvalore, non si rinvengono ragioni ostative all’ingresso delle somme non dichiarate nel legittimo patrimonio del proposto, che potranno così essere addotte da questi a giustificazione della sproporzione valoriale ai fini della confisca.

Gioverebbe, quindi, sostituire all’orientamento granitico manifestato dalla giurisprudenza di legittimità un più prudente atteggiamento differenziante. In forza di questo, si dovrebbero discernere le attività originariamente lecite da quelle che

225 A titolo esemplificativo, si prendano in considerazione gli effetti sortiti dal condono di cui all’art.

9 della L. n. 289/2002, attesa l’impossibilità di svolgere un discorso dotato di generalità, stante la variabilità e non unicità degli statuti giuridici dei condoni ad oggi avvicendatisi. In particolare, il perfezionamento della procedura prevista dall’articolo citato, comporta, con riferimento ai settori impositivi presi in considerazione: a) la preclusione, nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario; b) l’estinzione delle sanzioni amministrative tributarie, ivi comprese quelle accessorie; c) l’esclusione della punibilità per la maggior parte dei reati tributari, per alcuni reati previsti dal codice penale e per i reati societari, quando tali reati siano stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria.

non lo sono e fare discendere da questo spartiacque un diverso trattamento. Nel primo caso, l’effetto legittimante del condono dovrebbe lato sensu retroagire fino a incontrare l’originario momento di avvio dell’attività intrapresa lecitamente, restituendo a una dimensione di generale liceità il patrimonio prodotto. Nel secondo