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Le relazioni nell’area in funzione dello sgretolamento della logica dei blocchi.

LE RELAZIONI TRA EGITTO E STATI UNITI NEL DECISIVO PERIODO 1980-

2.3 Le relazioni nell’area in funzione dello sgretolamento della logica dei blocchi.

La Guerra Fredda che indica una contrapposizione politica, ideologica e militare incominciata alla fine degli anni quaranta tra due blocchi internazionali, gli Stati Uniti e gli alleati della Nato da una parte, e il blocco comunista, l’URSS e i suoi alleati del Patto di Varsavia dall’altra. Tale contrapposizione conobbe diverse fasi, caratterizzate anche da grandi tensioni (crisi missilistica di Cuba, 1962) e guerre 'calde', come quelle in Corea (1950-53) e in Vietnam (conclusa nel 1975); non mancarono, comunque, lunghi periodi di relativa stabilità del quadro internazionale, che condussero nel corso degli anni Ottanta alla distensione nelle relazioni tra le due superpotenze. Un’ulteriore ambito che venne interessato dalla guerra fredda ( dopo la contrapposizione nel Terzo mondo e la competizione ideologica su scala globale) fu quello della corsa agli armamenti. L'amministrazione americana riaffermava la necessità che il Paese acquisisse una condizione di incontestata superiorità militare e riteneva che fosse il caso di predisporre delle risorse adeguate191. Rivendicava con orgoglio un eccezionalismo

tecnologico che avrebbe dovuto permettere agli Stati Uniti di dominare i teatri di guerra192.

L’amministrazione si dava quindi l’obbiettivo strategico di ostacolare l’espansione del controllo e della presenza militare sovietica nel mondo. Conseguentemente, sfruttare le crescenti vulnerabilità della loro area di influenza per indebolire il sistema sovietico di alleanze, costringendo l’URSS a subire il peso delle proprie

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Nel farlo riproponeva surrettiziamente le formule e le logiche di un keynesiano militare che fino ad allora aveva fatto raramente breccia nel mondo conservatore statunitense.

192 Del Pero M., Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011.Roma, Laterza, 2012. P.

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manchevolezze economiche. Era implicita la speranza americana di giungere a relazioni Est-Ovest completamente diverse alla fine del decennio193.

Il bipolarismo, ossia questo sistema fondato sulla contrapposizione dei due blocchi, paesi occidentali da un lato e paesi orientali dominati dai regimi comunisti dall'altro, si concluse simbolicamente con la caduta del muro di Berlino (1989) e lo scioglimento dell'URSS (1991).

Una panoramica sugli effetti della guerra fredda mostra come il Medioriente sia stato coinvolto nella dinamica che ne emana. La Guerra Fredda aveva stabilizzato alcuni regimi decolonizzati in quanto entrambi i blocchi avevano un evidente interesse a procurarsi alleati, clienti e satelliti. Nell’ultima parte dei mille giorni di Kennedy alla Casa Bianca si era aperto una fase di riflusso della politica americana verso il Medio Oriente194. Ciò porterà, nel giro di alcuni anni attraverso

una serie di lievi correzioni di rotta, il Medio Oriente ad assumere un ruolo principale nella politica estera americana. Per evitare il rischio di una polarizzazione del Medio Oriente, gli Stati Uniti intervengono con forniture militari dirette. Oltre a Israele alleato storico, già nel 1964 vengono forniti sedici aerei supersonici al Libano, altri erano stati consegnati all’Arabia Saudita. Un mese dopo fu la volta della Giordania a un’espansione delle forze armate, fu il Re Husein a chiedere aerei, ma da parte americana si cercò di dirottare la richiesta verso carri armati195. In quel periodo gli Stati Uniti restringevano

progressivamente i margini di iniziativa anche nei confronti dell’Egitto di Nasser. L’impegno programmatico americano verso il Medio Oriente si era via via spostato da disegni di ampia portata a obiettivi più modesti. Dall’obiettivo volto a modernizzare la società e a congelare le tensioni locali si era passati al mero tentativo di contenerle grazie a un dosaggio di varie modalità di intervento. Fu

193 Romero F., Storia della Guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009.

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194 Valdevit G., Stati Uniti e il Medio Oriente dal 1945 a ‘oggi, Roma, Carocci, 2005. P. 77 195 Ivi, p 78

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durante la guerra dei Sei giorni nel 1967, che a Washington si modificò lo scenario. Al centro non stavano più gli attori medio-orientali quanto le due superpotenze. Ancor prima dello scoppio delle ostilità il Dipartimento di Stato riconobbe che il problema da affrontare in Medio Oriente era di non consentire al nazionalismo arabo radicale, e dietro ad esso all’Unione Sovietica, di diventare le realtà dominanti nella regione196.

Anche se fu l’amministrazione Nixon a strutturare in termini organici il disegno avviato da Johnson, dopo la guerra dei Sei giorni, a Washington erano ormai consapevoli che la raffigurazione del Medio Oriente come realtà polarizzata nella quale gli Stati Uniti e Unione Sovietica si confrontavano attraverso i rispettivi procuratori. Fu proprio Nixon che formulò un grand design di politica estera. La sua concezione dominante era quella di balance of power fra Stati Uniti e Unione Sovietica, che non riguardava solo il controllo degli armamenti e alle materie di interesse diretto, ma rappresentava l’orizzonte entro il quale si doveva muovere la politica estera americana. Anche se non rappresentava la massima priorità per il Medio Oriente, aveva come obiettivo di ridurre la capacità di intervento sovietica. Fu proprio durante gli anni settanta che i sovietici vennero tagliati fuori dal Medio Oriente dopo l’espulsione dall’Egitto nel 1973 e la mediocre gestione della crisi dello Yom Kippur che favorì l’insediamento americano197.

Immediatamente dopo la guerra del Kippur ci fu un eccezionale coinvolgimento americano nel medio Oriente, testimoniato dalle frequenti missioni di Kissinger, che restava fedele alla diplomazia dei piccoli passi, e evitava programmaticamente le questioni più difficili segmentandole in modo da ottenere maggiori margini di manovra e ridurre contemporaneamente le resistenze. Per concludere, la tecnica negoziale adoperata da Kissinger ha portato gli Stati uniti in una posizione di centralità nel Medio Oriente.

196 Ivi, p 82 197

Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918-1999. Roma-Bari, Laterza, 2006. P.1235

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Anche l’amministrazione democratica retta da Jimmy Carter si pose in linea di continuità con la precedente amministrazione. Per altro verso Carter abbandonò la premessa di mantenere accuratamente bilanciati i rapporti fra Israele e i suoi vicini arabi soprattutto sotto il profilo militare. Per la prima volta vennero ceduti a paesi arabi armamenti di pari qualità rispetto a quelli che erano stati dati ad Israele. Grazie al ruolo cruciale di Carter e del Segretario di Stato Vance si arrivò ad un trattato di pace nel 1978 (accordi di Camp David).

Reagan fin dall’inizio della sua amministrazione vide dunque nel Medio Oriente un’area del confronto bipolare. A favorire l’espansione sovietica appaiono due nuovi soggetti, il terrorismo e l’integralismo islamico. In realtà, l’amministrazione Reagan non seguì un gran design, l’unico progetto concreto era quello volto a elevare il livello del confronto militare diretto con l’Unione Sovietica. L’amministrazione Reagan fondamentalmente reattiva nei confronti della minaccia sovietica e andò alla ricerca di procuratori locali insieme ai quali sviluppare una relazione in tema di sicurezza. La crisi in Libano nel 1982 indusse l’amministrazione Reagan a spostare il centro dell’iniziativa dalla questione palestinese a quella libanese. Nel gennaio 1983 il Dipartimento di Stato sostenne che un Libano pacificato offriva un contributo sostanziale alla sicurezza di Israele e rappresentava una sconfitta per gli interessi dell’Unione Sovietica e del radicalismo arabo198. Con questo obiettivo, nonostante le riserve dello Stato

Maggiore, l’amministrazione Reagan decise di collocare nel Libano un contingente di marines e si impegnava a rimuovere la presenza militare israeliana e siriana dal Libano. Perciò il Libano diventava un test importante nella determinazione e della capacità americane di affrontare l’Unione sovietica attraverso i suoi procuratori locali.

L’Unione Sovietica uscita dalla fase della distensione stava rendendo inservibile la strategia seguita per quasi vent’anni. Ad ulteriore conferma di quanto fosse fosca

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la prospettiva futura per Mosca, bisogna considerare come l’invasione dell’Afghanistan abbia invischiato l’URSS in una guerra costosa, perdente e terribilmente gravosa sotto il profilo diplomatico: oltre alla reazione occidentale, le sanzioni americane e le ostilità cinese, una mozione di condanna all’Assemblea generale dell’ Onu199 palesava l’isolamento di Mosca anche nel Terzo Mondo.

Le difficoltà di Mosca crescevano con l’andare del tempo. L’influenza internazionale dell’ideologia comunista, e la sua stessa rilevanza come cultura della trasformazione politica, non godevano più dell’appeal del decennio precedente.

Che fosse un periodo di importanti rivolgimenti geopolitici divenne ancor più lampante nel maggio 1988, quando Reagan si recò in visita a Mosca. Nonostante gli Stati Uniti continuasse a procrastinare sugli accordi e i documenti congiunti proposti dal Cremlino, le relazioni diplomatiche erano abbastanza distese. Nel medesimo periodo il Presidente americano si profuse in azioni ed atteggiamenti impensabili fino a pochi anni prima : incontrò dei dissidenti, invocò la libertà di culto per i cittadini sovietici e parlò del valore della libertà e dell’economia di mercato proprio sotto una statua di Lenin, all’Università di Mosca, ricevendo un’ovazione dal pubblico200

.

Dopo il 1989 taluni analisti conservatori e gli apologeti del reaganismo avevano tracciato una linea di diretta causalità tra quelle scelte e il crollo dell’URSS. Reagan avrebbe scientificamente mirato a provocare il collasso economico dell’URSS per vincere la guerra fredda senza esporsi sul piano degli armamenti. Ad ulteriore conferma di un modus operandi di questo tipo stanno le parole dello stesso consigliere per la sicurezza nazionale di Reagan che ha chiarito come si puntasse a trovare i punti deboli nella struttura sovietica per aggravarne le

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Organizzazione delle Nazioni Unite fondate nel 1945 per favorire la soluzione dei conflitti internazionali, mantenere la pace e promuovere il rispetto per i diritti umani, ecc.

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debolezze, in modo da costringere il Cremlino a mutare i propri comportamenti internazionali.

Come affermato da Romero l’amministrazione Reagan non perseguì tanto la “vittoria” nella guerra fredda quanto un’alterazione della sua dinamica che fosse funzionale alla rottura dello “stallo” 201 in cui si trovavano i due paesi sul piano

della contrapposizione geopolitica.

Reagan era riuscito a dare risposte almeno parziali a quella crisi di consenso interno che condizionava la politica estera degli Stati Uniti dalla fine degli anni Settanta. Era questo la premessa necessaria per quel rilancio dell’egemonia statunitense invano cercato da Nixon, Ford e Carter. E con Reagan questa egemonia fu di fatto ripensata, rimodulata e riaffermata. Rispetto alla logica dei blocchi qualcosa si era mosso: nel corso degli anni Ottanta gli Stati Uniti rioccuparono la scena internazionale, seppur in una condizione di superiorità assoluta e relativa non comparabile a quella dei primi anni della Guerra Fredda. La Guerra Fredda non veniva trascesa dalla nuova collaborazione bipolare, ma terminava con un collasso e la successiva implosione di una delle due parti. Nella sfida per l’egemonia globale, uno dei grandi modelli universalistici si rivelava perdente. Il terreno di scontro era stato il XX secolo da cui la Russia era uscita sconfitta.

Assieme al modello sovietico entrava in crisi anche la rete di rapporti che era stata costituita. Rimaneva in vita, invece, un’ alleanza diplomatica statunitense, affatto ortodossa per la sua natura e vieppiù deterritorializzata. Una sfera d'influenza, quella americana le cui componenti fondamentali rimanevano la forza militare, la logica di mercato, la riconquista del primato tecnologico e un rinnovato dinamismo economico. Si trattava di un modello capace di sopravvivere alla difficile transizione postindustriale e di rilanciare la sua vocazione progressiva e

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universalistica, nonchè di superare, quella crisi di egemonia che aveva dovuto affrontare vent’anni prima.

Rispetto alle scelte fatte dal Presidente Reagan, non tutto il fronte interno sembrava seguirlo pedissequamente. I neoconservatori non lesinarono pubbliche critiche per le politiche medio-orientali di Reagan basate, a loro dire, su vecchie logiche geopolitiche, simboleggiate dal legame sempre più stretto con l’Arabia Saudita, e non su un impegno forte a difendere Israele e a occidentalizzare e modernizzare la regione202.

In ultimo, la cospicua eredità che Reagan affidava al suo successore George Bush al momento di lasciare nel gennaio 1989 la Casa Bianca era la mancanza di un competitor per gli interessi americani in Medio Oriente. L’amministrazione Bush si impegno nel portare a termine la guerra fredda. Per quanto riguarda il Medio Oriente respinse l’idea che ricadeva sugli Stati Uniti l’impegno di forgiare la trattativa di pace, sottolineando i limiti dell’iniziativa americana.

Anche il National Security Council, all’inizio del 1989, sottolineava infatti i limiti della centralità americana nel Medio Oriente, avvertendo che il tempo non era maturo per una nuova e ampia iniziativa diplomatica203.

Il collasso dell’Urss nel dicembre 1991, in aggiunta alla rimozione di ogni rimanente timore occidentale per gli effetti della rivalità sovietica sullo scenario mediorientale, fornì una nuova arena per la diplomazia statunitense e per un coordinamento con gli alleati regionali. Si registrò un cambiamento geopolitico più specifico, con un ridotto ruolo nella regione da parte della Russia.

La fine della rivalità con l’Unione Sovietica e l’apparente mancanza di altri Stati disposti a sfidare con decisione la sua politica mediorientale diedero agli Stati Uniti il vantaggio senza precedenti dell’unipolarità. Questo significò che

202

Del Pero M., Libertà e impero… op., cit., p. 388

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Washington fu in grado di decidere con più attenzione ai suoi interessi primari in Medioriente. Oltre che sul petrolio del Golfo nei primi anni novanta la politica statunitense nella regione si focalizzò sul contesto arabo israeliano. Le iniziative assunte nel 1991 dall’amministrazione americana che condussero alla Conferenza di Madrid nel novembre 1991 sembrarono non portare risultati concreti. Vista la preoccupazione e l’instabilità di lungo periodo della regione, il presidente Bush e il Segretario di Stato Baker decisero nel 1991-92, di promuovere più attivamente il processo di pace arabo israeliano.

L’evolvere della situazione nel Medio Oriente confermava che il controllo degli Stati Uniti era divenuto necessario. Per risolvere la crisi del Golfo Persico l’amministrazione Bush senior, nel rispetto delle dichiarazioni del Presidente circa il nuovo ordine mondiale ed il ritorno ad un multilateralismo univoco, si appellò alle Nazioni Unite e promosse la costituzione di una vasta coalizione militare. Ciò, di fronte alla comunità internazionale, avrebbe conferito legalità e legittimità all’intervento armato e natura multilaterale e consensuale all’azione contro, venne dichiarato, Saddam Hussein, non contro il popolo iracheno.

La crisi del Golfo lasciò senza appoggi gli alleati dell’Unione Sovietica, e in particolare la Siria e la Libia204 . La crisi del Golfo 1990-1991 certamente offrì

agli Stati Uniti nuove possibilità nella regione, derivate dall’unipolarità.

In alcune aree la fine della Guerra Fredda sembrò condurre a una riduzione significativa delle tensioni. La guerra tra Iran e Iraq terminò nel 1988, anche la dirigenza dell’OLP accettò una soluzione fondata su due Stati. L’Arabia Saudita continuava ad avere buoni rapporti con gli Stati Uniti, forte delle sue risorse petrolifere, dominava economicamente tutta l’area, condizionando le mosse degli

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altri Stati minori e governando il regime dei prezzi di petrolio, d’intesa con le grandi multinazionali205.

In ultimo, la fine della guerra fredda ha anche favorito ciò che prima era considerato impossibile, vale a dire un accordo fra Israele e i Paesi Arabi. La possibilità di una giusta e risoluzione del conflitto era stata delineata da decenni. L’OLP accettò lo Stato israeliano nella sua dichiarazione di Algeri nel novembre 1988, e la soluzione finale della disputa sarà indicata dagli accordi di Oslo nel 1993206. Gli accordi senza dubbio offrirono un quadro generale suscettibile di

condurre a una pace permanente. L’Iran migliorò le sue relazioni con il mondo arabo, ma continuò a opporsi a ogni tipo di presenza statunitense nella regione. Nel contesto post Guerra Fredda le modificazioni dell’equilibrio internazionale fra le maggiori potenze esterne furono associate a sviluppi nelle politiche degli Stati regionali, tra cui l'Egitto. L’ormai antica rivalità e alcune certezze strategiche caratteristiche della Guerra Fredda scomparivano, delineando un nuovo quadro, dal punto di vista diplomatico pieno di sfide ma anche di potenziali profitti. Gli Stati Uniti per buona parte dei decenni precedenti hanno monopolizzato l’attività diplomatica nella regione avendo in mano , come il presidente egiziano Sadat affermò un giorno “ il novantanove per cento delle carte”207.

All'interno del mondo arabo, l’Egitto manteneva la sua linea filo-americana. Allo stesso tempo il lungo isolamento dell’Egitto dal mondo arabo in seguito agli accordi di Camp David, si concluse nel 1989 con il ritorno della Lega Araba208 al

Cairo il suo quartier generale originario.

205 Ivi., 1357

206 Halliday F., Il Medio Oriente. Potenza,.., op., cit., p. 218 207 Halliday F., Il Medio Oriente..op, cit, p. 202

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La Lega Araba è un’associazione internazionale che comprende molti Stati Arabi, costituita il 22 marzo 1945 a Il Cairo e finalizzata al consolidamento in ogni campo delle mutue relazioni. Ai sette Paesi fondatori (Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Siria, Yemen) si aggiunsero in seguito: Libia (1953), Sudan (1956), Tunisia e Marocco (1958), Kuwait (1961), Algeria (1962), Bahrain, Qatar, Oman e Emirati Arabi Uniti (1971), Mauritania (1973), Somalia (1974), Autorità

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Per quanto riguarda i rapporti inter-arabi, anche il ruolo e la funzione dell’Egitto per la strategia americana cambiarono in modo molto evidente. E’ in questo contesto, invece, che Mubarak ha rivestito in tutto e per tutto, senza ambiguità il ruolo di prezioso alleato degli Stati Uniti nella regione.

Il 14 settembre 1990 George H W Bush chiese al Congresso un trasferimento del debito egiziano dalla Banca di Finanziamento federale del Dipartimento del Tesoro al Dipartimento della Difesa e di cancellare il debito. Il presidente Bush si congratulò con l'Egitto per la partecipazione a Desert Schield contro l'invasione irachena del Kuwait e alleggerì l 'Egitto del peso di ripagare parte del suo debito. La cancellazione del debito militare dell'Egitto verso gli Usa avvenne tramite la legge del 5 novembre 1990209.

Fu evidente tutta l’operazione intrapresa da Mubarak prima, durante e dopo la guerra del Golfo del 1991, che ha rappresentato l’occasione per il presidente egiziano di esprimere al massimo anche la sua strategia ambivalente verso gli Stati Uniti. Una politica che, spesso durante la sua presidenza, gli ha permesso di ottenere un ruolo significativo nei diversi tavoli diplomatici.

Nazionale Palestinese (1976), Gibuti (1977), Comore (1993). Sono membri osservatori il Brasile (2002), l'Eritrea (dal 2003), il Venezuela (dal 2006) e l'India (dal 2007). La Siria è sospesa dal 2011 a causa della guerra civile

209 Congressional Research Service, The Library of Congress, Egypt-United States Relations,

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