LE RELAZIONI TRA EGITTO E STATI UNITI NEL DECISIVO PERIODO 1980-
2.2 Ricognizione della situazione diplomatica tra l’Egitto e gli Stati Uniti dopo gli accordi.
La svolta filo-occidentale di Sadat, permise addirittura di aprire il dialogo con Israele, con cui venne conclusa una pace separata nel 1979 (accordi di Camp David) ottenendo nuovamente la sovranità sul Sinai. Questa mossa permise all'Egitto di raggiungere la posizione di alleato strategico regionale per gli Stati
60
Uniti, ma determinò anche l'ostracismo della Lega Araba nei confronti del Paese e la nascita di una forte opposizione interna islamica, che venne duramente repressa. Sadat aveva una grande capacità di mettere a suo agio gli interlocutori politici che si trovava di fronte. Trattò con consumata abilità i quattro presidenti americani che conobbe. Trattò Nixon da grande statista, Ford come l’incarnazione della buona volontà, Carter come un missionario troppo buono per questo mondo e Reagan come il leader benevolo di una rivoluzione popolare, facendo sottilmente appello all’immagine che ognuno aveva di sé e così conquistandosi la fiducia di tutti e quattro146.
Il tessere relazioni con l’altra parte del mondo non venne visto di buon occhio dall’intero mondo arabo. Sadat pagò con la vita questo "tradimento della causa araba", venendo assassinato dai fondamentalisti il 6 ottobre 1981.
Contemporaneamente all'omicidio venne scatenata un’insurrezione nel Nord dell’Egitto e fu soltanto grazie all’assistenza americana che le forze egiziane soffocarono la rivolta. In un clima di generale tensione l’acquisizione della presidenza da parte di Mubarak avvenne sotto l’egida dell’amministrazione Reagan, ed egli si impegnò per stringere con gli Stati Uniti relazioni più strette di quanto fece Sadat147.
Hosni Mubarak è comunque riuscito a mantenere gli impegni presi dal suo predecessore riuscendo insomma, a conservare l’alleanza con gli Stati Uniti. Questo avvenne però in termini diversi da quelli che Washington aveva preventivato.
Possiamo quindi affermare che il rapporto tra Egitto e Stati Uniti, nato su alcuni
146
La comunicazione politica di Kissinger, Rivista di studi internazionali, 2010
147David Frum, How Reagan’s Mideast Policy Won the Cold War, National Post. February 5th,
61
presupposti, si è subito evoluto secondo linee più vicine alla strategia egiziana, piuttosto che a quella americana.
I risultati finali, dopo un ventennio di presidenza Mubarak, sono stati positivi per entrambi i contraenti. Gli Stati Uniti hanno avuto nell’Egitto il perno attorno al quale ha ruotato la politica regionale, basata su quattro priorità. La prima, garantire il passaggio del petrolio dal Golfo Persico attraverso il canale di Suez. La seconda, proteggere la sicurezza di Israele. La terza, contenere paesi che – nell’area potessero rappresentare di volta in volta una minaccia per gli interessi americani (Iran e Iraq). E infine, per la prima metà del ventennio preso in esame, limitare l’Unione Sovietica, esportando la politica di contenimento in Medio
Oriente e Nord Africa.
Dal canto suo, anche il regime di Mubarak, ha ottenuto dalla perdurante alleanza con gli Stati Uniti più vantaggi che ripercussioni negative: da un lato, ha continuato a usare il suo ruolo di testa di ponte per usufruire del sostegno economico impegnato dagli americani nell’area, basilare per la stabilità interna del paese. Dall’altra, in una lettura solo apparentemente paradossale, ha sfruttato i canali privilegiati con gli americani per ripristinare e rafforzare col tempo il proprio ruolo all’interno del consesso arabo.
A conti fatti, dunque, si è trattato di un’alleanza segnata da una convenienza reciproca. Questo nonostante una variabile che gli Stati Uniti non avevano potuto mettere nel conto: Sadat si schierò decisamente con gli americani con i due atti principali della sua presidenza: il salto da una parte all’altra della cortina di ferro, e la pace con Israele. Al contempo gli Stati Uniti non avevano potuto mettere in conto che Sadat abbandonasse così presto, e in maniera così repentina e tragica, la
scena politica egiziana.
Assistettero, dunque, all’avvento di Mubarak con uno scetticismo dovuto a quello che era emerso negli incontri di quest’ultimo negli Usa da vicepresidente, prima dell’assassinio di Sadat. In quelle occasioni Mubarak aveva dato già prova di
62
essere molto diverso dal suo presidente. I timori principali, tra i politici e i tecnici americani, vertevano sul fatto che Mubarak “was seen as demanding, somewhat
abrasive and unbending”, come ha scritto Hermann Frederik Eilts148.
C’erano dubbi sulla reale intenzione di Mubarak di onorare la neonata pace con Israele e sulla possibilità che tornasse sul percorso tracciato da Gamal Abdel Nasser. Il timore degli Stati Uniti era quello del ritorno di una politica di nazionalismo dell’Egitto. Mubarak ha dovuto trovare una posizione mediana tra una società sempre meno sensibile all’influenza americana, e il rapporto speciale con Washington.
Superato il più difficile decennio della sua storia post-bellica, entrava in quello nuovo tra la fine del mandato di Carter, reso drammatico dalla vicenda degli ostaggi americani in Iran, e il nuovo avvio della presidenza di Reagan. Il Presidente americano aveva convinzioni forti, pensava in termini di scontro fra il bene o male, si disinteressava dei dettagli, per i dettagli si affidò a collaboratori di solida esperienza, al segretario di Stato George Shultz, al segretario al Tesoro James Baker.
Fu un presidente molto popolare, chiamato “il grande comunicatore”. La sua provenienza dal mondo dello spettacolo lo poneva agli antipodi rispetto al politico intellettuale di stampo europeo. La presenza scenica era palese nelle occasioni solenni, nelle quali si affidava soprattutto all'istinto e alle sue tecniche d'attore, alla simpatia del gesto, alla battuta veloce, all'americana che doveva interrompere e alleggerire qua e là la durata oratoria; al palpito convinto della voce sonora e suadente. Con i testi del discorso erano concepiti in modo da raggiungere non solo la mente ma anche l'animo degli ascoltatori149.
148 Herman F. E., Ideology and Power in the Middle East, Duke University Press, 1988, p. 65. 149
63
Era assai attento quando si trattava di tradurre proposte politiche in un linguaggio capace di attirare l'attenzione dell'opinione della popolazione150.
“ Abbiamo ogni diritto di fare sogni eroici ” proclamava Ronald Reagan entrando alla Casa Bianca. Una nuova America forte e prospera, liberata dalla sfiducia che egli imputava alla cultura liberale, era in primo luogo un programma economico. Fiducia e ottimismo, i tratti fondamentali del suo carattere e della cultura neoconservatrice, erano però anche le leve essenziali di una strategia internazionale che mirava a dissolvere ogni fatalistica rassegnazione alla potenza dello Stato sovietico: “ nessun arsenale […] è tanto potente quanto la volontà e il
coraggio morale delle donne e degli uomini liberi151”.
Il suo primo bersaglio era legato al tema della crociata anticomunista. L’anticomunismo aveva accompagnato tutta l’ascesa politica dell’ex governatore della California, il quale diventato presidente, non esitò a mobilitare il paese e invocò un antisovietismo.
Fin da subito, con l’arrivo alla Casa Bianca di Reagan, fu chiaro che la sua politica estera verso l’Unione Sovietica avrebbe subito una radicale revisione. La sua offensiva retorica si nutriva della convinzione di vivere alle soglie di una svolta epocale, che avrebbe deciso per le generazioni a venire se tutta l’umanità diverrà comunista o se il mondo intero riuscirà a essere libero. E mirava perciò a
150
A questo riguardo è molto importante la ricostruzione di Talbott di come gli americani siano arrivati a proporre la famosa opzione zero per i missili a raggio intermedio. Il concetto era nato in Europa nel 79: i socialisti italiani lo chiamavano “Clausola dissolvente”; la rimozione del missili sovietici avrebbe consentito il non dispiegamento degli euromissili Nato. A molte orecchie americane, però, l'opzione zero suonava male, con troppi toni europei, pacifisti e di sinistra. Il segretario di Stato Haig e uno dei suoi principiali assistenti, Burt, avevano ben altro in mente. Convinti che lo spirito vero della decisione del "79 era quello di arrivare comunque allo schieramento di un certo numero di Cruise e Pershing 2, essi erano per una proposta, che accomodasse tutto ciò con un minor numero di missili sovietici.
151
64
cambiare sia la dinamica, che la rappresentazione pubblica dell’antagonismo bipolare.
“ L’Occidente non conterrà il comunismo, lo trascenderà […] come un bizzarro
capitolo della storia umana di cui si stanno ormai scrivendo le ultime pagine152”.
Appare chiaro come fosse diventata oramai intollerabile l’esistenza stessa dell’Unione Sovietica, e come l’obbiettivo della politica estera di Washington non potesse che essere quello di ottenere in tempi più o meno lunghi, una generale ritirata dell’avversario. La strategia che doveva sostenere questa visione era di accrescere la forza degli Stati Uniti riconquistando un vantaggio strategico e diplomatico, e aggravare le difficoltà dell’URSS. Per questo avviarono un intenso programma di ampliamento e modernizzazione delle forze armate.
Come noto, l’amministrazione Carter si allontanò progressivamente dalla “human
rights policy” nel corso del suo mandato, distacco che culminò con l’adozione
della vecchia agenda della Guerra fredda. Probabilmente, questo radicale cambio di direzione, insieme alla mal gestita questione derivante dal sequestro degli ostaggi americani in Iran153, fu la concausa della sconfitta di Carter alle successive
elezioni presidenziali. Per molti studiosi gli ultimi anni di Carter segnarono una profonda controtendenza rispetto ai primi. La svolta antisovietica alla fine del suo
152Romero F., Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009.
p. 284.
153
La crisi degli ostaggi iniziò il 4 novembre 1979, quando alcune centinaia di studenti islamici e attivisti attaccarono l’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran, prendendo possesso dell’edificio con all’interno una sessantina di cittadini statunitensi che ci lavoravano. Il contesto era il pesante antiamericanismo presente in Iran durante la rivoluzione islamica iniziata alcuni mesi prima, con la fuga dello Scià dal paese nel gennaio di quell’anno. La liberazione degli ostaggi – ridotti a 52 – avvenne solo 444 giorni dopo, al termine di lunghi negoziati: il 20 gennaio 1981, nelle ore in cui Reagan giurava come nuovo presidente.
65
mandato stava a significare che quella seguita fino ad allora era stata una linea sbagliata e imprudente, quantomeno agli occhi dell’opinione pubblica.
Tale cambiamento nell’approccio alle problematiche internazionali condizionò significativamente anche il contributo che il percorso diplomatico avrebbe potuto dare nel campo dei diritti umani. Romero154 definisce tale insuccesso di Carter
come “il suo mesto destino politico”, ma anche altri studiosi concordano che la dualità di Carter inficiò la validità dei risultati, alcuni parziali, altri completi, da lui ottenuti, che furono in seguito esaltati dalla decisa politica di Reagan.
L’amministrazione Carter venne giudicata la principale responsabile di alcuni dei mali che avrebbero afflitto gli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta: la perdita della superiorità strategica e un progressivo deterioramento delle posizioni statunitensi in Medio Oriente, in Africa, in Asia e in America Latina. Benché l’opinione e la bibliografia sulla distensione fu condizionata e molto spesso elaborata dai suoi maggiori critici, dalla fine degli anni Ottanta sono stati pubblicati molti studi che hanno rivalutato l’operato di Carter, ne hanno evidenziato il carattere innovativo e, in generale, hanno contestato le accuse d’inettitudine e di mancanza di coerenza di fronte alla minaccia sovietica155
Negli anni erano stati avanzati giudizi molto negativi, come provano gli innumerevoli articoli e alcuni libri che hanno criticato Carter e i suoi collaboratori. L’amministrazione fu ripetutamente accusata di non essere stata capace di elaborare una politica univoca e risoluta che potesse rispondere adeguatamente
154Federico Romero scrittore e professore di Storia dell’America ,Università di Firenze.
155Gaddis Smith, Morality, Reason and Power: American Diplomacy in the Carter Years, New
York, Hill and Wang, 1986 Charles Jones, The Trusteeship Presidency: Jimmy Carter and the
United States Congress, Baton Rouge, Louisian State University Press,1988, Richard Thorntorn, The Carter’s Years: Toward a new Global Order, New York, Paragon House, 1991.
66
alla crisi economica ed energetica e alle sfide lanciate dall’Unione Sovietica nel campo degli armamenti strategici e nel Terzo Mondo.
L’idea che Carter non fosse stato in grado di sviluppare una strategia efficace e coerente nei confronti dell’URSS coinvolgeva in maniera diretta e indiretta anche la politica di distensione: l’indecisione dell’amministrazione avrebbe, infatti, consentito all’Unione Sovietica di muoversi più liberamente e di guadagnare vantaggi unilaterali al momento di negoziare. Alcuni studi imputano all’Amministrazione Carter una profonda mancanza di coerenza e una confusa gestione della politica di distensione ereditata da Nixon e Ford.
La distensione, cosi come in generale tutta la politica estera di Carter, si era dimostrata un fallimento poiché l’amministrazione non era stata contemporaneamente in grado di arginare e contenere l’Unione Sovietica. Secondo Gaddis, nell’ opera Strategies of Containment, il costante dibattito fra i falchi e le colombe nella Casa Bianca si risolse a favore dei primi solo all’inizio del 1980 quando l’invasione dell’Afghanistan non lasciò altra scelta al Presidente che rispondere in maniera decisa all’impiego dell’Armata Rossa al di fuori del blocco sovietico in Europa156.
È interessante come Kennan segnali, la teoria di una forte responsabilità statunitense nell’inasprimento delle relazioni Est-Ovest, tesi condivisa da altri autori, come Fred Halliday, che nei decenni successivi hanno introdotto nuovi temi nel dibattito e hanno contestato la teoria che l’Unione Sovietica avesse cercato di ottenere dei vantaggi unilaterali durante gli anni della distensione; al contrario, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto un atteggiamento costantemente aggressivo nei confronti dell’URSS, tentando di conquistare una più forte egemonia nel Terzo Mondo.
156Gaddis S., Strategies of Containment: A Critical Appraisal of American National Security,
67
Gli studiosi che si sono spinti nell'analisi delle connessioni tra domestic policy e politica estera, come Caldwell, sostengono, dunque, che il progetto di politica estera proposto da Nixon e Kissinger e in seguito ripreso da Jimmy Carter, fosse troppo articolato per un’opinione pubblica generalmente disinteressata e abituata ad un modello molto più semplice, quello del contenimento. Per questo motivo, quando l’atteggiamento sovietico apparve più minaccioso, il pubblico americano, non trovando una risposta abbastanza rassicurante nella strategia della distensione, preferì ritornare alle dinamiche che avevano caratterizzato la Guerra Fredda fino alla fine degli anni Sessanta. Tale evoluzione fu, secondo Caldwell, fortemente influenzata dalla promozione di una crescita della spesa militare e di una politica più aggressiva verso l’URSS propagandata da alcuni gruppi formati da esperti di politica estera o strategica, come il Committe on the Present Danger (CPD)157. La successiva perdita di consenso della distensione portò il Presidente Carter a rigettare tale politica e tornare, dopo l’invasione dell’Afghanistan, al containment. Reagan ed il suo staff, arrivarono alla Casa Bianca nel gennaio 1981 con due obbiettivi prioritari: il primo era quello di un forte programma di riarmo che colmasse il gap aperto negli anni Settanta con l’Unione Sovietica e ristabilisse il primato americano. L’altro era quello di smantellare lo Stato sociale, creato dalle presidenze democratiche dagli anni del New Deal158. Ma non era necessario solo colmare il divario, era necessario anche un margine di sicurezza, la superiorità militare, e a tale scopo Reagan proporrà lo sviluppo della SDI (Strategic Defense Initiative), cioè un sistema missilistico situato nello spazio attorno al pianeta allo scopo di intercettare i missili nemici prima che rientrassero nell’atmosfera e si dirigessero sul bersaglio.
157 Il Committe on the Present Danger fu fondato nel novembre del 1976 da alcuni esperti di
questioni strategiche e di politica estera come Paul Nitze e Eugene Rostow.
158
Da convinti conservatori quali erano, Reagan e i suoi consiglieri avevano dichiarato guerra allo stato sociale e sembravano pronti a usare l’accetta nei confronti di quella miriade di programmi che si erano accumulati durante le presidenze democratiche e che erano oramai arrivati a rappresentare più di un terzo della spesa del governo federale.
68
La strategia americana prevedeva che, avviato il programma di riarmo e lanciato il programma SDI, sarebbero stati ripresi i negoziati per la riduzione del potenziale missilistico che, da ambedue le parti, aveva raggiunto proporzioni tali per cui i due contendenti avrebbero potuto distruggersi a vicenda varie volte159.
La SDI rappresentava un ambizioso programma di difesa antibalistica, chiamato a fornire una sicurezza pressoché assoluta nei confronti dei missili offensivi nemici. Veniva in tal modo minacciato il ruolo dell’armamento missilistico, sino a quel momento determinante per la credibilità del deterrente nucleare, in quanto i vettori balistici non erano intercettabili da parte dei sistemi di difesa esistenti. Il timore che la SDI potesse rendere impenetrabile il territorio nordamericano, non solo aumentava la diffidenza dei partner europei della NATO, ma suscitava la ferma reazione della controparte sovietica, che accusava l’amministrazione americana di voler destabilizzare gli equilibri di potenza su cui si fondava la dissuasione della MAD (Mutual assured destruction)160.
Sul piano della politica interna, Reagan ereditava da Carter una situazione di bilancio difficile. Reagan aveva una sua politica economica nota come “supply side economics161”. Rivitalizzazione dell’economia fondata da un lato sul sostegno
159
Mammarella g., Destini incrociati, Europa e Stati Uniti 1900-2003, Roma, Laterza, 2005. P. 240
160 La MAD era la capacità di scoraggiare un attacco deliberato contro gli Stati Uniti od i loro
alleati, anche dopo aver subito un attacco a sorpresa, mantenendo costantemente una chiara capacità di infliggere all’aggressore o agli aggressori un livello inaccettabile di danni.
161Essa consisteva sostanzialmente nella riduzione delle tasse in misura tale da generare il
massimo gettito fiscale. La politica di bilancio fu quindi, nel complesso, espansiva, mentre la politica monetaria era restrittiva. Tale combinazione condusse ad un forte aumento del tasso d’interesse, sia monetario sia reale, ed ad un peggioramento del disavanzo pubblico. L’afflusso di capitali esteri attirati dall’alto tasso d’interesse determinò un dollaro forte fino alla prima metà del 1985, nonostante la progressiva crescita del deficit delle partite correnti dovuto anche all’apprezzamento del dollaro.
69
alle manovre compiute da Volcker alla Federal Reserve162. In estrema sintesi, la
politica di Reagan aumentò nettamente le disuguaglianze economiche, nonostante una ripresa dell’economia e dell’occupazione.
Un altro punto importante del programma di Reagan era il taglio della spesa sociale allo scopo di incrementare quello per la difesa, necessaria al successo del suo programma di riarmo e quindi della sua politica estera.
La guerra allo Stato sociale, oltre a riflettere le critiche degli americani ai programmi della Grande Società, in special modo a quelli a favore della minoranza nera, i cui costi stavano diventando proibitivi, si inscriveva nel quadro del neo-federalismo, che prevedeva una redistribuzione dei poteri dallo Stato federale agli Stati federati. È la crociata tipica della destra storica contro il “big government” che Reagan farà propria, secondo lo slogan “ Il governo non è la soluzione del problema, è esso stesso il problema163”. Sulla scia della crisi
economica causata dagli shock petroliferi, gli assunti neoliberisti ispirarono un nuovo discorso pubblico fortemente critico nei riguardi del cosiddetto welfare state «keynesiano», accusato di aver prodotto due tipi di «eccessi». Innanzitutto un eccesso di egualitarismo e di tassazione, con conseguenze deleterie in termini
162
Negli Usa Paul Volcker assumeva, nel luglio 1979, la guida della Federal Reserve e, nel giro di pochi mesi, modificava radicalmente la politica monetaria. Di lì in avanti la Fed avrebbe condotto la lotta all’inflazione senza alcun riguardo per le conseguenze (in particolare per la disoccupazione). e dall’altro sulla sua personale miscela di politiche finalizzate a contenere i sindacati, a deregolamentare l’industria, l’agricoltura e lo sfruttamento delle risorse, e a liberare le potenzialità della finanza a livello nazionale e sullo scenario mondiale come la detassazione delle società e dei redditi e dei patrimoni più alti, la cessione di beni pubblici a prezzi stracciati o a titolo gratuito, l’attacco al potere dei sindacati e ai diritti sindacali, con vari mezzi, per ottenere