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La responsabilità penale del provider come responsabilità concorsuale omissiva con specifico riferimento al reato d

LA RESPONSABILITA’ PENALE DEL PROVIDER.

3. La responsabilità penale dell’Internet Service Provider (ISP)

3.4. La responsabilità penale del provider come responsabilità concorsuale omissiva con specifico riferimento al reato d

diffamazione.

Nella dinamica criminosa, l’internet service provider svolge il ruolo di intermediario, nel senso che esso mette a disposizione piattaforme e strumenti digitali mediante i quali l’utente può realizzare dei fatti di reato. Ben si comprende, allora, come l’alternativa all’estensione analogica dell’art. 57 c.p. al provider al fine di poterne configurare una responsabilità penale, consista nel ricorrere alla figura del concorso omissivo: si stratta ora di analizzare, dunque, la possibile rilevanza penale della condotta del provider secondo lo schema sinergico dell’art. 110 c.p. unito all’art. 40 c.p.

Il punto di partenza è indubbiamente rappresentato dall’art. 17 del d. lgs. 70/2003 che sancisce l’esclusione in capo ai provider di qualunque obbligo di controllo preventivo rispetto ai contenuti

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immessi online dagli utenti, prevedendo al contempo, tuttavia, una serie di prescrizioni a carico dello stesso provider orientate a garantire la collaborazione con l’autorità giudiziaria o amministrativa64: l’eventuale imposizione di un obbligo di controllo preventivo in capo ai provider, infatti, oltre a richiedere meccanismi impraticabili sul piano tecnico, graverebbe il provider di interventi eccessivamente onerosi, in contrasto con l’idea ispiratrice della direttiva sul commercio elettronico e le dinamiche che caratterizzano la società e l’economia odierne.

Più discussa è, invece, la configurabilità di una responsabilità penale in capo al provider di un obbligo di controllo successivo sui contenuti pubblicati: alla base di siffatta interpretazione vi sarebbe l’art. 16 del d.lgs. 70/2003 il quale stabilisce la responsabilità dell’hosting provider nel caso in cui questi, pur essendo effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sulla propria piattaforma, abbia omesso di rimuoverlo.

Sul piano giurisprudenziale, per molto tempo è prevalso l’orientamento, il cui leading case di riferimento è senz’altro costituito dalla vicenda giudiziaria che ha visto coinvolti Google Italia e l’associazione Vividown65, che negava la rilevanza penale della condotta omissiva del provider66. In tale occasione la Suprema Corte, avallando l’interpretazione del Tribunale di Milano, era giunta alla conclusione per la quale non fosse configurabile in capo all’ISP alcuna posizione di garanzia sulla base del fatto che nessuna disposizione

64 Cfr. G. P.ACCINNI, Profili, cit., p. 3.

65 Il fatto risale alla pubblicazione su Google Video del filmato di un ragazzo disabile vittima di un episodio di bullismo da parte dei compagni di classe. Il filmato è rimasto su video.google.it alcuni giorni, visitato da un numero altissimo di utenti, prima che il

provider, ovverosia Google, lo rimuovesse.

66 Cfr. N.DE LUCA,E.TUCCI, Il caso Google/Vivi Down e la responsabilità dell'internet service

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«prevede che vi sia in capo al provider, sia esso anche un hosting provider, un obbligo generale di sorveglianza dei dati immessi da terzi sul sito da lui gestito»67. Nello specifico, valorizzando il dato normativo degli artt. 16 e 17 del d. lgs. 70/2003, si è affermato che le limitazioni di responsabilità ivi previste a favore del provider sono applicabili nel caso di specie poiché «il provider si è limitato a fornire ospitalità ai video inseriti dagli utenti, senza fornire alcun contributo alla determinazione del contenuto dei video stessi»68.

Il quadro interpretativo complessivo delineato dalla Cassazione con la sentenza Google c. Vividown è, dunque, il seguente. In primo luogo, non è possibile attribuire all'host provider un obbligo di impedire i reati commessi dagli utenti, data la mancanza di una norma che fondi l'obbligo giuridico. In secondo luogo, le attività compiute dall'host provider sui contenuti caricati dagli utenti non fanno venir meno le limitazioni di responsabilità previste dagli artt. 16 e 17, purché tali attività non si traducano in un intervento sul contenuto degli stessi e non determinino la loro conoscenza. Infine, solo dal momento dell’effettiva conoscenza dell'illiceità dei contenuti pubblicati dagli utenti può ipotizzarsi una responsabilità del provider69.

In seguito, con la sentenza Maffeis n. 54496/2016, la Cassazione penale, superando l’orientamento precedente, ritenne sussistente la responsabilità penale in capo al rappresentate legale di una società gerente il sito agenziacalcio.it a titolo di concorso nel reato di diffamazione: a fondamento di tale giudizio veniva data rilevanza alla

67Cass. pen., Sez. III, 17 dicembre 2013, n. 5107.

68 Ibidem.

69 Cfr. A.INGRASSIA, La sentenza della Cassazione sul caso Google, in Dir. pen. cont., 6 febbraio 2014.

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circostanza per la quale il provider avesse consapevolmente mantenuto sul proprio sito il contenuto diffamatorio pur avendone avuto conoscenza mediante una e-mail. Tale revirement giurisprudenziale ha sollevato numerose e diverse critiche: alcuni evidenziano come tale soluzione disincentiverebbe l’attività e i servizi forniti dal provider, traducendosi in un ostacolo alla creazione di spazi di discussione online a scopi non lucrativi70; altri, invece, sostengono che non sia prospettabile in capo al provider un vero e proprio obbligo giuridico di impedimento, trattandosi, dunque, di un mero caso di connivenza71.

La critica più convincente, avanzata dalla migliore dottrina, prende le mosse dalla constatazione per la quale l’obbligo di impedimento, che fonda il giudizio di responsabilità concorsuale, verrebbe ad esistenza in un momento successivo a quello della consumazione del reato che è finalizzato ad impedire. L’inammissibilità della responsabilità penale dell’internet service provider per i reati commessi dai propri utenti, appurata l’assenza di un obbligo di controllo preventivo, deriverebbe, dunque, dal fatto che uno dei requisiti del concorso omissivo è proprio il collegamento causale tra l’azione omessa doverosa e la commissione del reato da parte di altri soggetti. In altri termini, ciò che manca ai fini dell’integrazione della fattispecie data dall’unione dell’art. 110 c.p. con l’art. 40, II comma c.p. è rappresentato dal fatto che la mancata rimozione successiva del contenuto illecito da parte del provider non impedisce la commissione di un reato in realtà già consumato. Nel caso specifico della diffamazione, infatti, oggetto della sentenza in esame, si è dinnanzi ad un reato istantaneo che si consuma nel momento esatto

70 Cfr. Corte d’Appello di Milano, sent. n. 29/2015.

71Cfr. S.CORSI, Revenge Porn: analisi sulla ragionevolezza di un intervento legislativo, in Ciberlaws, disponibile al link https://www.cyberlaws.it/2019/revenge-porn-analisi-

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in cui il contenuto lesivo viene pubblicato online per cui l’obbligo di rimozione in capo al provider viene ad esistenza nella fase temporale post-consumazione72.

Al fine di superare quest’obiezione sulla configurabilità di un’ipotesi di concorso, parte della dottrina ha ipotizzato la figura della pluralità di reati, «integrati dalla ripetuta trasmissione del dato e riuniti in continuazione»73; costruzione questa che, tuttavia, sembra collidere con la realtà fenomenologica, dal momento che risulta difficile configurare un’azione umana ripetuta nel tempo quando è il sistema informatico a determinare questi effetti di permanenza e continuazione74. Altri ancora hanno ipotizzato che con la condotta di mantenimento del contenuto illecito sulla propria piattaforma, successiva all’acquisizione dell’effettiva sua conoscenza, il gestore del sito internet «di fatto fa proprio – quello stesso contenuto – e si rende anch’egli colpevole del reato di diffamazione»75. Altri, infine, hanno

72 Cfr. BPANATTONI, I riflessi penali del perdurare nel tempo dei contenuti illeciti nel

cyberspace, in Sitema Penale, 5, 2020, p. 315. C.CURRELI, La controversa responsabilità, cit.,

p. 1648 s.; A.INGRASSIA, Responsabilità penale degli internet service provider: attualità e

prospettive, in Dir. pen. proc., 2017, 12, p. 1621 ss. Critici sul contenuto della sentenza

qui in esame anche A.MANNA e M.DI FLORIO, i quali, in Riservatezza e diritto alla privacy: in particolare la responsabilità per omissionem dell’internet provider, in Cadoppi A.,

Canestrari S., Manna A., Papa M. (a cura di), Cybercrime, Milano, 2019, p. 909 ss., si soffermano nello specifico su due criticità della pronuncia. Essi sottolineano come in primo luogo rimanga una “vaghezza” in relazione alla fonte dell’eventuale obbligo di impedimento degli effetti dell’altrui reato individuato dalla Corte, non essendo de jure

condito individuabile; in secondo luogo, come non sembri ricavabile un necessario

approfondimento sul grado di intensità dell’elemento soggettivo del provider, che sembra poter essere solo potenziale anziché “qualificato”, ossia subordinato alla ricezione di un relativo ordine di rimozione del contenuto illecito da parte delle autorità.

73 C.CURRELI, La controversa responsabilità del gestore di un sito web, in caso di diffamazione

commessa da terzi, in Resp. civ. e prev., 2017, n. 5, p. 1648 ss.

74 Per un’analisi più approfondita v. infra cap. III. Cfr. BPANATTONI, I riflessi penali del

perdurare nel tempo dei contenuti illeciti nel cyberspace, in Sitema Penale, 5, 2020, p. 315; C.

CURRELI, La controversa responsabilità, cit.

75 V.PEZZELLA, Diffamazione sui social network: il gestore del sito deve rimuovere i contenuti?, in “Web & Tech”, 15 marzo 2017.

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richiamato il concetto di «illecito permanente, essendovi una permanente ritrasmissione del dato, senza la possibilità del danneggiato d’impedirla, sicché la legge richiede al provider un intervento diretto per impedire la continuativa consumazione del reato». Secondo quest’ultima impostazione, nel momento in cui il provider venga a conoscenza del fatto che attraverso il proprio server si sta realizzando un comportamento lesivo permanente, «egli concorre nel fatto altrui se non interrompe la visibilità del messaggio illecito, rimuovendo il dato informatico in questione o bloccando l’accesso allo stesso»76.