CAPITOLO IV: Donne rifugiate e richiedenti asilo: il fenomeno della tratta intercettato
4.8 Reti sociali e volontariato: perché non costituiscono una risorsa?
Nella letteratura citata precedentemente (Hunt, 2008; Vouyioukas e Liapi, 2013) il volontariato come occasione di ampliamento delle reti personali e di aggancio nell’ottica di un futuro inserimento lavorativo riveste un ruolo importante nei percorsi di accoglienza, soprattutto in un periodo storico in cui le risorse formali non sembrano essere sufficienti.
A volte per la Commissione può essere rilevante che la persona sia inserita nel contesto di vita e di comunità in cui abita e che dunque faccia volontariato con questo o con quest’altra associazione, può essere molto utile in quel momento lì anche perché poi è un’occasione per imparare l’italiano. All’inizio quando ho iniziato a lavorare (…) c’era una casa di cura per anziani, ne abbiamo mandata una a far volontariato e alla fine è stata assunta dalla famiglia, ha trovato lavoro, ha sistemato i documenti. Possono sicuramente essere agganci.
Tuttavia, soprattutto per chi si trova senza la prospettiva di un inserimento professionalizzante per le scarse conoscenze della lingua o per la responsabilità della cura dei figli, e ha l’urgenza di un guadagno economico, non viene visto come una risorsa. L’attività di volontariato di per sé può funzionare all’inizio come un aggancio, per delle persone che per le tempistiche, prive di documenti, rimangono a lungo all’interno di un CAS. Il volontariato perde appeal dopo poco tempo, perché comunque quello che viene cercato dagli ospiti è un lavoro o un sostegno economico per essere indipendenti, nelle donne vittime di tratta ma anche negli uomini vittime di sfruttamento sicuramente la ricerca del guadagno è primario. Il volontariato in cui uno impiega delle ore di lavoro senza ricevere un contributo diventa assolutamente problematica e molti non ne vedono il senso, ma anche perché ricevono delle pressioni, appunto per pagamento di soldi, al traffico, alle famiglie rimaste al paese di origine e quant’altro, e quindi non riescono ad aderire.
(Referente area distrettuale Cas di sette strutture)
Nuovamente, ritorna la dimensione dello sfruttamento sessuale e lavorativo esterno all’accoglienza ma fortemente collegato ad essa, che crea pressioni psicologiche e materiali per le quali la necessità primaria è una fonte di sostentamento economico nel breve termine.
Il volontariato non viene accettato, in rarissimi casi forse. Lo capisco pure. Da una parte il volontariato è un modo per potere apprender la lingua ma anche farsi conoscere. Da un volontariato può partire un tirocinio, uno stage, qualcosa, questo passaggio spesso le ragazze non lo capiscono.
(Operatrice presso due ex sprar e due cas)
Pare essere molto rilevante l’assenza di una progettualità e la dimensione prevalente del qui ed ora che le referenti ed operatrici di struttura percepiscono spesso dalle ospiti come legata al disinteresse verso la ricerca di opportunità nel territorio.
Non c’è un progetto a lungo termine e anche per loro a livello psicologico non riescono a vedersi tra due tre anni. Quando gli chiedi “questo corso non potrebbe esser utile per il tuo futuro” non lo vedono.
Questa mancanza di una prospettiva sul futuro non è casuale o da attribuire ad una carenza individuale, ma si collega da una parte alle criticità del percorso di accoglienza, alla lunga sosta nelle strutture di prima o di seconda accoglienza, nell’attesa, nella migliore delle ipotesi, del rilascio di un permesso di soggiorno. Questo ha un impatto, non solo nell’utenza, ma anche nel lavoro delle operatrici, come racconta bene:
Poi la lunghezza dei tempi, per prendere un permesso di soggiorno ci mettono anni e quindi non vedono la fine del progetto e quindi si accomodano pure loro così come mi accomodo io come operatrice. Loro pensano “si chissà quando mi daranno i documenti, quando uscirò da qua”.
(Operatrice presso due ex sprar e due cas)
Sicuramente il periodo molto lungo di attesa, che adesso per chi fa domanda ora si è molto accorciato, però per tutta quella fascia di persone che hanno aspettato due anni, che magari hanno avuto un diniego, e che adesso fanno il ricorso il tempo di attesa va ad incidere assolutamente negativamente, un po’ perché hanno anche l’impressione di essere sempre sospesi da quello che mi riferiscono, e anche se magari provano ad integrarsi, a costruire un percorso sul territorio hanno sempre l’impressione di non sapere quale sarà la risposta definitiva e non sapranno se rimanere o meno.
(Referente legale cas e siproimi)
Il senso di precarietà che avvolge questo periodo di sospensione sembra disincentivare in generale la ricerca e la creazione di reti sociali nel percorso delle donne richiedenti o rifugiate. In modo particolare poi, se per le donne accolte nelle strutture con minori a carico, la principale istituzione con la quale si interfacciano è il sistema scolastico, il quale tuttavia, non è un ambiente che genera relazioni sociali, soprattutto per le mamme che non parlano fluentemente l’italiano ma che utilizzano nella loro quotidianità come lingua veicolare l’inglese, come riportato anche precedentemente tra le principali strategie delle donne per superare i gap linguistici.
La difficoltà principale è la lingua, e questo si riscontra particolarmente con le nigeriane. Le mamme che non hanno una lingua veicolare, non potendo parlare inglese, potendo solo parlare in italiano, riescono ad interagire con le altre mamme, a parlare, ma anche tramite le figlie. I bambini traducono per le mamme e per i papà, loro andando a scuola ed essendo più giovani imparano prima la lingua.
Talvolta quando le reti sono presenti, sembrano essere connesse ad un circuito negativo. Come sottolinea Serughetti (2017) non deve stupire che appena arrivate in Italia le ragazze nigeriane spesso nella fase iniziale si affidino alla rete di sfruttamento. Abbatecola (2002) parla a tal proposito di “reti insidiose”, per quel tipo di sostegno che proviene dalle reti di origine e che non è necessariamente animato da sentimenti di solidarietà e aiuto.
Sempre più spesso donne sole con bambini son dentro la tratta e quindi il supporto nell’accudimento del bambino in realtà arriva dal giro degli sfruttatori, fa proprio parte del ricatto, nel senso, il “bambino è nostro”, dello sfruttatore, quindi lo teniamo noi, lo accudiamo noi, e tu vai a lavorare per noi, quindi quello che si vede è qualcuno che accudisce il bambino, ma per fare in modo che la donna vada a prostituirsi.
(Referente area distrettuale Cas 7 strutture)
La capacità di ampliare la propria rete di riferimento oltre quella della comunità di provenienza sembra contraddistinguere chi ha una provenienza socio-culturale più elevata e gli strumenti per avere un’idea più chiara e definita rispetto al percorso migratorio.
Di solito restano nel loro giro, ho avuto un’esperienza con un’iraniana, direttrice di una casa editrice, di buona famiglia con livello culturale alto, lei sì che è riuscita ad attivare una rete italiana che poi l’ha portata ad uscire dal progetto. Appena ha avuto i documenti è uscita, invece che andare in uno sprar si è trovata una casa per lei e la figlia. Se una ha un livello culturale medio-alto riesce molto prima ad uscire dalla propria rete stretta.
(Operatrice presso due ex sprar e cas)
Il capitale educativo e il background professionale sembrano avere un peso rilevante non solo nell’accesso lavorativo e di apprendimento linguistico, ma anche nel determinare l'agency nella messa a punto di strategie di riqualificazione; chi ha un livello di istruzione superiore, sembra maggiormente in grado di analizzare le condizioni socioeconomiche del paese ospitante e quindi più impegnato attivamente nei processi di ridefinizione. Infine, i piani di vita e le traiettorie delle donne migranti, le risorse attivate e utilizzate, le reti sociali istituite sia con la società di arrivo che con i connazionali o altri migranti, sono anche fattori che hanno effetti diversi e molteplici sulle strategie sviluppate per affrontare
e superare le difficoltà e le carenze in materia di politiche di integrazione e di riqualificazione (Vouyioukas e Liapi, 2013).