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Capitolo 1 Definizione dell’oggetto di studio: di che cosa parliamo quando parliamo di revisione

1.4. Il metalinguaggio della revisione: ambito pratico

1.4.3 La revisione nel mondo editoriale

L’ultima prospettiva che si prenderà in esame per completare il quadro descrittivo sulla revisione è quella che interessa più da vicino l’oggetto della presente ricerca. Molte delle definizioni e delle accezioni illustrate finora si possono considerare generalizzabili e applicabili a più contesti professionali, tuttavia l’ambito editoriale – per la natura dei testi trattati, per le peculiarità del rapporto “interpretativo” con il testo, per le dinamiche professionali e commerciali del settore – presenta delle particolarità che non trovano sempre riscontro in quanto detto finora a proposito di revisione.

Seguendo la struttura espositiva fin qui adottata, verranno presentati i contributi terminologico- concettuali provenienti dalla pratica professionale della traduzione editoriale sia in ambito

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anglofono, sia in ambito italiano sottolineando, laddove possibile, eventuali confluenze o allontanamenti rispetto alle definizioni teoriche presentate nelle pagine precedenti. Partendo dalla fondamentale distinzione tra editing e revisione operata da Mossop (2001/2014) – ancora più cruciale in ambito editoriale – si è visto come l’autore approfondisca la descrizione dell’editing distinguendo fra “structural editing” e “stylistic editing”. In un utile documento promosso dal BCLT - British Centre for Literary Translation ‒ dal titolo Translation in Practice (Paul, 2009), si trovano definizioni ancora più specifiche del processo di revisione nell’editoria britannica, e ci si imbatte in interessanti commenti e riflessioni riguardo non solo alle procedure ma anche alle finalità delle diverse fasi della lavorazione del testo tradotto. In questo documento, si parla di “structural editing” di una traduzione come

looking at the overall approach, taking into consideration the foundation and infrastructure of the book, including its style, tempo, overall use of language, characterization and sequence of events. (p. 59)

Il “copyediting” prende invece in esame “individual words and sentences, punctuation and grammar, and points of inconsistency or inaccuracy” (ibid.). A prescindere dal tipo di lavoro sul testo sembra dunque che il ruolo dell’editor (si noti di nuovo l’uso controverso di questo termine anche per indicare una figura che si occupa di rivedere traduzioni) sia trattare il libro nella sua totalità e nel suo valore globale, e non solo in quanto traduzione. Il testo tradotto diventa un originale e di conseguenza l’editor si trova ad affrontare un duplice compito: intervenire su un testo in quanto traduzione e sullo stesso testo in quanto produzione nella lingua di arrivo. Si apre qui un discorso etico importante che varrebbe la pena approfondire, magari affrontandolo da prospettive diverse ma non necessariamente contrastanti, ovvero quella della traduzione e quella della produzione editoriale, e soprattutto con la collaborazione di interlocutori a rappresentare entrambe le parti. Pur non essendo questa la sede adeguata, si vuole tuttavia sottolineare che l’idea di trattare una traduzione come se fosse nata nella cultura di arrivo è quanto meno discutibile: se da un lato rappresenta una chiara volontà di andare incontro al lettore e alle sue aspettative linguistiche e culturali, dall’altro la si può interpretare altrettanto facilmente come espressione di un approccio etnocentrico e addomesticante che, nonostante incontri molti pareri contrari da parte dei traduttori, è largamente applicata nella pratica del mercato editoriale, come conferma questo contributo di Melaouah (2009) sulle bermaniane “tendenze deformanti”:

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ancora imperversano presso taluni traduttori e numerosi revisori editoriali con la nefasta propensione alla normalizzazione, secondo il discutibile principio per il quale massima autorità non è la lingua dell’autore ma un fantomatico italiano scorrevole buono per ogni stile e ogni stagione. (p. 91)

Un altro elemento che emerge dal documento è la costante altalena tra le buone intenzioni a livello teorico, e la loro traduzione nella pratica editoriale, perché si parla del bravo “copyeditor” come di colui/colei che

adjusts and tinkers unobtrusively to create the book that both author and translator envisaged. A good copyedit appears effortless and changes are normally such that they are not even recognized. Yet a copyeditor brings a fresh pair of eyes and will spot anomalies that translators may have missed on even a third or fourth reading. (ivi, p. 62)

In questa descrizione di profilo professionale si sottolinea dunque l’auspicabilità di un approccio non prevaricatore nei confronti del testo, piuttosto in contrasto con l’approccio addomesticante di cui appena sopra.

La tensione fra approccio straniante e addomesticante, tra adeguatezza e accettabilità sembra pervadere in profondità la pratica editoriale britannica. Sempre nello stesso documento, si legge infatti che

a copyeditor has to treat the voice of the translator as the voice of the author and try to make that voice consistent. […] (He/she) doesn’t try to rewrite a book in their own voice or over-correct language that may sound awkward for a good reason. (ivi, p. 63)

Ma anche che

the editor’s primary concern must be towards the quality of the work in English. […] The editor first and foremost must be a reader of English, and a person for whom the translation must read, in English, like an original work.”(ibid.)

Rispetto poi a uno dei tratti fondanti della revisione, presente in quasi tutte le definizioni fin qui illustrate, ovvero l’elemento comparativo, il documento fa intuire quanto invece, nella pratica editoriale britannica – ma non solo –, questo tratto non sia più fondante bensì discrezionale se non addirittura evitabile. Si legge infatti:

some people suggest that a copyeditor should read a translation line-by-line against the original book but this seems an extravagant and unnecessary effort. The copyeditor’s job is to ensure that the book works in its own right, rather than as a faithful translation. However, when things don’t seem to be

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working, it can be useful for an editor to check the original source text to see if there is an easy solution, or if an error has been made. (ivi, p. 64)

Il discorso sulla terminologia della revisione applicata alla pratica, come abbiamo visto già contraddittorio in lingua inglese, si complica ulteriormente quando vengono prese in esame altre realtà linguistiche, nel nostro caso quella italiana. Per una forma di “sudditanza terminologica” e sulla scia di mode linguistiche, l’editoria italiana fa ampio uso di termini inglesi in modo approssimativo, tanto che termini come “editor” ed “editing”, di cui ormai abbiamo ampiamente definito i confini semantici e i contesti d’uso, finiscono per assumere accezioni e significati variabili se non addirittura fuori contesto. Se infatti il termine “editing” viene usato in ambito anglo- americano per indicare il lavoro sul testo che non è traduzione o non viene trattato come tale, in italiano la parola viene usata come termine ombrello per indicare ciò che è lavoro sul testo originale, sul testo tradotto e sul testo in preparazione per la stampa, laddove invece esisterebbero termini in Italiano per indicare le diverse tipologie di attività, vale a dire redazione, revisione e correzione di bozze.

La stessa confusione terminologica riguarda i profili professionali: di nuovo, laddove in italiano si potrebbe e dovrebbe ricorrere a termini come direttore editoriale, caporedattore, redattore, e revisore per indicare rispettivamente la persona che si occupa di acquisire il testo e di decidere la linea editoriale, la persona che ha il compito di trovare un traduttore per il testo e di instaurare con lui/lei un rapporto professionale basato su fiducia e rispetto, la persona che interviene sulla traduzione già rivista per renderla conforme alle norme redazionali della casa editrice o di una collana e per apportare eventuali modifiche dettate da logiche commerciali, e infine la persona che esegue il controllo minuzioso e comparativo della traduzione con il testo originale e suggerisce o opera direttamente correzioni e miglioramenti, nella pratica viene molto frequentemente usato il termine “editor” per indicare tutte queste attività e competenze insieme le quali, pur concedendo ovviamente un margine di assimilazione, non sono sovrapponibili.

Ma come viene definita e descritta la revisione nell’ambito dell’editoria italiana? Oltre ai contributi riportati ai sottocapitoli precedenti, e non esistendo un documento affine per contenuti e intenti a quello sulla pratica della traduzione editoriale britannica, si vuole qui dare spazio alle voci dei diretti interessati, ovvero ai traduttori editoriali professionisti, e alla loro idea di revisione.

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La prima riflessione sulla revisione e relativa definizione viene da Testa (2013), “editor” e traduttrice dall’inglese, che descrive la fase di revisione quella in cui

si rende ottima una traduzione buona, o – nei casi migliori – pressoché perfetta una traduzione già ottima. È una fase, di fatto, antieconomica: perché, se affrontata con la dovuta cura, comporta un dispendio di tempo e risorse che con ogni probabilità non verrà effettivamente ripagato da un aumento cospicuo nelle vendite del titolo in questione; se la traduzione è brutta, buona, ottima o pressoché perfetta il lettore lo scopre comunque solo dopo aver comprato il volume […] (p. 59)

L’aspetto più interessante di questo contributo deriva proprio dal duplice ruolo della sua autrice a metà strada fra “committente” della traduzione e “traduttore”: se da un lato riconosce il peso economico che una revisione ha sui margini di guadagno già minimi di una casa editrice, dall’altro ne difende il valore migliorativo, purtroppo non sempre riconosciuto come tale dal pubblico dei lettori.

E di nuovo, sulla tensione fra aspetto migliorativo e redditività della revisione:

La revisione è, per l’appunto, una fase di confronto e di analisi critica in cui due teste pensanti, quella del traduttore e del revisore, si applicano alla risoluzione dello stesso problema linguistico, e in senso lato culturale: mi sembra evidente che il risultato di questa doppia applicazione sarà nella maggior parte dei casi un testo di arrivo oggettivamente migliore di quello che sarebbe venuto dallo sforzo mentale di una persona sola; “migliore” in senso che, ripeto, non è immediatamente quantificabile in termini di redditività economica per l’editore, ma che è comunque spesso percepibile dal lettore attento […] (ivi, pp. 59-60)

Tra le righe di cui sopra si intuisce che per Testa, la “buona” revisione è una revisione che prevede la collaborazione di traduttore e revisore ma che, per sua stessa ammissione, è spesso mancante nella pratica. Di questo e di altri aspetti della pratica professionale si discuterà diffusamente nella presentazione dei dati raccolti attraverso il sondaggio di cui al capitolo 3. Nello stesso capitolo verrà inoltre presentata una selezione di alcune delle risposte date dai partecipanti alla richiesta di fornire una propria definizione di revisione, a ideale completamento di questa sezione.