• Non ci sono risultati.

Anna Maria Tamburri

(Ho chiesto a Giovanni se posso ancora chiamarlo con il diminutivo abituale tra noi fin da piccoli; la sua risposta non chiede commenti: «Ti ringrazio con affetto di chiamarmi “Giovannino”: ci fa tornare ad un caro tempo che è stato, ma rimane sempre nel nostro cuore e nei nostri sentimenti [...] ed io ancora colleziono soldatini»).

I Re Magi

Libro carissimo per la dedica affettuosa alla mia famiglia e per l’argomento.

Verdazzurro con in alto la Stella a forma di croce. 1996: Dante C. aveva qual-che anno in più di quelli qual-che ho io adesso; a nessuno dei due l’età ha rapito lo stupore per il leggendario, per il mistero. Nella premessa una serie di “per-ché?”, segno di una mente ancora vivacissima, a ribadire quella curiosità, che è la caratteristica fondante dell’uomo secondo un altro Dante, un pochino più noto, e su cui il nostro teneva affascinanti lezioni.

Dal Dante C. più intimo, riservato fluisce la dolcezza dell’immaginazio-ne, delle supposizioni, dei sogni che vengono dal passato. Improvviso il lampo giocoso dell’autoironia: forse dipende da un «precoce processo simpaticamen-te arsimpaticamen-teriosclerotico» o forse dal non essere ancora maturato nella razionalità.

Sembra di vederlo con lo sguardo ammiccante e un sorriso di bambino, quasi a scusarsi... ma non si scusa; diventa solo un po’ più serio e ci lascia una perla di saggezza, su cui riflettere (specie di questi tempi!): «la tradizione sapienziale non si trasmette da padre in figlio ma da nonno a nipote».

Gli amici e il condominio

Scrive Dante C.: «Gli amici sono di due categorie: quelli a cui devi mandare gli auguri a Natale e Pasqua per dimostrare che non li hai dimenticati e quelli che senti sempre vicini, che immagini di incontrare dietro l’angolo». Dante e Stani furono da subito e sempre grandi amici, per affinità d’animo e di edu-cazione. Non posso non ricordarli insieme: sia coinquilini per circa dieci anni dello stesso palazzo, uno dei primi di via Manzoni, sia colleghi al liceo classico.

Via Manzoni: un condominio misto di piccola e media borghesia, con rapporti così cordiali e di reciproco rispetto che oggi sembrerebbero “leggen-dari”. Allora essere professori, per di più di un liceo, dava un certo prestigio, ma tale era la preparazione culturale, sociale e umana dei due amici/colleghi che nessuno veniva trattato con sussiego o irrisione; tutt’al più, se proprio si aveva a che fare con un seccatore, ci si difendeva con un paziente senso dell’u-morismo. Molti anni più tardi, probabilmente ricordando via Manzoni e av-vedendosi di come i rapporti umani stessero rapidamente deteriorandosi, col buonsenso e la sensibilità, che sarebbe legittimo aspettarsi da chi si occupa del-la cosa pubblica, ideò un piano di condomini “ideali”, strutturati in modo che i coinquilini potessero conoscersi ed aiutarsi a vicenda, soprattutto a beneficio dei bambini e degli anziani soli; un progetto da “cittadinanza attiva”, aperto al presente ma ancor più al futuro. Il progetto non fu portato avanti, non so se per motivi personali di Dante C. o se, più probabilmente, per l’impari conflit-to tra profitconflit-to, indifferenza e solidarietà. Un solo commenconflit-to: abiconflit-to in un pa-lazzo di calma condominiale, eppure, nel giro di una trentina d’anni, ben tre anziani, che vivevano da soli secondo l’assioma “non fidarti dei vicini”, sono stati trovati morti dopo due o tre giorni o per una visita occasionale di figli o per il maleodore.

Piani diversi, Dante, Ninetta e Giovannino sopra, Stani, Tecla, io e mia sorella sotto. Ma la stessa atmosfera, lo stesso stile semplice e ordinato di vita.

A noi figli su e giù per le scale sembrava sempre di essere a casa: le mamme,

benché lavoratrici (la “liberazione” della donna stava avanzando, ma ancora un senso della famiglia e della responsabilità frenava i fraintendimenti cui si sareb-be arrivati), a occuparsi di compiti, merende e giochi: i padri da non distur-bare, chiusi nei loro studi in un alone di misteriosa lontananza o, soprattutto Dante, fuori per i numerosi impegni.

Con Giovannino correvamo in strada (allora si poteva!), nel correntino e per la scarpata che portava a via Foscolo; a casa giocavamo coi soldatini e leg-gevamo L’Intrepido, Il Monello, Topolino... Dante, bonario nume tutelare, ap-provava, lui che ancora a tarda età avrebbe letto Tex Willer. Forse, guardando-ci, si ripensava bambino e ragazzino a stupirsi e tifare per il “buono” nei film d’avventura all’Oratorio salesiano.

L’impronta salesiana

L’ Italia è la patria di grandi pedagogisti... e di scuole sempre più lasciate allo sbando. Allora no. Dante e Stani ebbero in comune di crescere nell’impronta salesiana, quella didattica di scuola e oratorio che coinvolgeva e curava ogni attitudine e aspirazione dei ragazzi, da quelle culturali a quelle sportive, spiri-tuali, sociali, ludiche. Per un insegnante e un uomo in cui si fosse radicato lo spirito e la sensibilità di Don Bosco, i giovani non erano solo studenti cui of-frire una seria cultura o da allettare con la piacevolezza nel comunicarla, ma vite in crescita da accudire ed educare nei problemi del momento e per le re-sponsabilità future.

Con Dio ebbero lo stesso rapporto sereno e collaborativo del santo. A Dante, rigorosamente fedele ai dettami della Chiesa, mi fanno pensare le pa-role di Benedetto XVI (Enciclica Deus caritas est): «fede, culto ed ethos si com-penetrano a vicenda»; a Stani, meno praticante ma non meno religioso, ma anche allo stesso Dante le riflessioni di Tocqueville nel trattato Democrazia in America, secondo cui l’idea repubblicana/democratica e la Dichiarazione dei

diritti dell’uomo sono una secolarizzazione del Cristianesimo. Uno sguardo

“umano”, quindi, volto al Cielo e alla terra, alla ricerca continua del bello e del buono ma senza oscurantismi ed inquisizioni, illuminato insieme dall’armo-nia della sapienza greco-romana; un equilibrio anche nel dolore più profondo, ma «secondo natura» ed inserito in una dimensione eterna: la morte di Ninet-ta e di Tecla.

Era anche il dopoguerra...

di una guerra che aveva in modo particolare mirato a distruggere i valori fon-danti dell’uomo. Si aveva fame di democrazia, di libertà, di pace, di bontà, di positività, di sogni; soprattutto emergeva forte il senso di responsabilità e di etica che si radicò in persone sensibili, in cui i penosi ricordi della guerra si erano trasformati nell’impegno affinché una simile tragedia non si rinnovasse.

Dante e Stani nella professione erano insieme insegnanti e compagni di studi, perché esigenti ma sempre pronti a mettersi in gioco, ad imparare anco-ra e a divertirsi insieme, non solo nelle gite. Plasmarono quindi negli studenti una cultura non libresca, traendo il “sempre attuale” dagli antichi autori e of-frendo innovative occasioni di conoscenza e di esperienza civica. A loro vorrei unire un’altra figura, un loro amico e collega, che dette un grande contributo a questa “età dell’oro” della vita scolastica e pubblica di Macerata: don Mario Rosati, secondo me troppo poco ricordato.

Di Dante C. al liceo quanti ricordi miei e di altri! Mai con austerità so-pra la predella della cattedra, grande rispetto anche nei “fiaschi” magari alleg-geriti da una battuta, lezioni avvincenti per esposizione e contenuto, il suo inesauribile e benevolo sorriso, proposte extrascolastiche come un corso sulla musica classica, la grande sensibilità nel consolarci, quando ci travolse la mor-te improvvisa e tragica di una più giovane compagna di studi, già madre di una bambina (non c’era ancora l’abitudine alle morti premature e all’orrore)...

quando lo lasciammo è facile capire come qualcuna pianse, ma ormai era den-tro di noi e ogni volta che l’incontravamo in giro era un piacevolissimo ritorno.

Nelle ricerche per un libro scritto recentemente, ho incontrato vari stu-diosi locali del passato, in cui una solida cultura si associava all’attenta osserva-zione e conoscenza della loro amata terra e all’impegno civico. Dante C. ne fu senz’altro un degno e brillante erede.

Ricordo come mio padre l’ammirasse per la capacità e il buonsenso nel gestire tanti impegni, senza cadere di tono e senza macchiarsi di superbia e op-portunismi; di questa fondamentale onestà però forse allora non ci si meravi-gliava più di tanto; bisognava arrivare allo sfacelo successivo per apprezzarne in pieno l’importanza. Nelle classi dirigenti e non, con l’onestà sono volate tra gli dei abbandonando la Terra, per dirla classicamente, la cultura che è curio-sità, passione e comunicazione e il buonsenso. Una parola sul buonsenso, que-sta eccezionale virtù dei nostri padri, che accomunava poveri e ricchi, dotti e non dotti moderando giudizi e reazioni, offrendo ai problemi risoluzioni vali-de e concrete, senza spettacolarismi e sperperi. Quando ad esempio si lamaro-no un ospedale costruito su una collina fralamaro-nosa ed edifici eretti sopra una falda d’acqua, il commento di Dante e Stani fu unanime: per evitare quei disastri non occorreva una laurea in geologia, bastava riflettere sui toponimi... cultura, buonsenso, onestà. Forse anche la Spes ultima dea ha preso il volo con quelli della loro generazione?

Padri, nonni...

più severi con i figli che con gli studenti, senz’altro, concordiamo Giovanni-no ed io. Ma quelle eraGiovanni-no famiglie... da contestare, per carità, come la scuola, da contestare anch’essa nella globalità, ma non per insegnanti come Dante e Stani... Erano gli anni Sessanta-Settanta e le ondate della protesta studentesca arrivarono, anche se molto smorzate, a Macerata. Si contestava per un innato

bisogno giovanile, quasi una legge di natura, per non studiare ed essere ugual-mente promossi, per fare chiasso e altro, qualcuno concionando solo per pro-tagonismo, qualcuno invece e per fortuna per gli ideali alti della protesta. In fondo tanti di questi non differivano sostanzialmente dagli insegnamenti di padri e madri. Ciò che divideva le due generazioni era, da parte dei genitori, un’ansia d’affetto per la forma irruente dell’azione e il senso di responsabilità verso i figli e la democrazia neonata. “Passata la tempesta”, le cui tracce miglio-ri furono accuratamente coperte, cominciò un processo di deresponsabilizza-zione individuale e sociale, che fece e fa comodo a una economia devastante.

Per merito tuttavia della severa ma sana educazione ricevuta, in molti figli di quel periodo si salvarono princìpi fondanti per un vivere civile e il senso del-la famiglia accogliente, del calore degli affetti: c’erano sempre una casa e per-sone care cui tornare, una semplicità, un buonsenso, una stabilità e un ordine di vita cui riaggrapparsi. Forse non c’erano più la tradizione domenicale con il vassoio di paste o le passeggiate per le mura, gli incontri erano più sporadi-ci e frettolosi, ma Dante e Ninetta, Stani e Tecla sporadi-ci avevano fornito di regole e sentimenti giusti da riciclare ad ogni necessità e ancor più fecero con i nipoti, perché, come ho già citato, la «tradizione sapienziale non si trasmette da padre in figlio ma da nonno a nipote».

Io, bambina “esule”, avevo assaporato la primizia di quel “caldo buono”...

Ritorno in famiglia

Mentre leggevo con gratitudine I Re Magi, abbandonandomi a quella scrittura limpida e piana, in cui si rifletteva l’indole dell’uomo Dante e anche una certa qualità del vivere che aveva improntato gli anni della mia infanzia e della pri-ma adolescenza, intenso e balenante è tornato un ricordo che non avevo pri-mai segregato in un cassetto della memoria e che riappariva a volte, quando l’at-mosfera natalizia mi struggeva in calde memorie per consolarmi di un presente

disilluso. Un ricordo di flash disarticolati, come quello di un sogno o della pri-ma infanzia. Infatti avevo 4 o 5 anni e non ero felice, strappata dal paese dove ero nata e dall’affetto della nonna, per una città di cui conoscevo solo asili e suore che non mi piacevano. Poi... una casa non alta, una stanza non grande ma illuminata e calda, in cui si sentiva a pelle il Natale, un tavolo con attor-no sei adulti chini verso di me, l’unica bambina che guardava stupita un doattor-no meraviglioso: una casetta (non proprio “etta”) con il tetto coperto di neve che scintillava di lustrini, come nella mia letterina al Bambin Gesù! Oggi di questi oggetti se ne trovano a iosa, ma in quegli anni, quando il Natale non aveva an-cora subito la deriva consumistica, quella casetta non proprio “etta” era l’avve-rarsi inaspettato di un sogno, come succedeva nelle fiabe che tanto amavo. Mi sentivo sazia di scintillii e avvolta dalla gioia condivisa e dall’affetto sereno dei sei adulti: i miei genitori, Dante e Ninetta e probabilmente Giugiù e Omero.

Fu come tornare davanti al camino e alla madia, dove la nonna mi preparava pupazzetti di mosto.

Spentosi il ricordo, mi è venuto in mente che forse a godere di più della mia gioia bambina era stato Dante, che scrive (parlando di come gli piacessero Bud Spencer e Terence Hill): «anche se mia moglie dice che sono piccolo (tan-to, non me ne accorgo)».

Ritrovarsi

Come se gli anni non fossero passati... a una Messa domenicale delle 9, a cui normalmente non assistevo, ho rivisto al primo banco di una chiesa poco af-follata Dante e Giovannino.

Il figlio accompagnava premurosamente il padre che non camminava più bene, infatti aveva delle pantofole. Durante il rito mi sono distratta più volte a guardarli e ricordare. Terminata la Messa, sono andata a salutarli e decenni sono scomparsi davanti al sorriso solare e un po’ birichino di Dante, intatto

malgrado la malattia: «Sei diventata bionda?»; come è scomparsa la chiesa e mi sono ritrovata in via Manzoni o nell’aula del Classico. Non ho pianto solo per-ché non mi è congeniale. Da allora spesso ho ripetuto quell’appuntamento, fe-stivo per il giorno e per una sempre rinnovata allegria interiore: specie dopo la morte di mio padre, era ritrovare un altro padre.

In toga in Aula Magna

Storico del diritto e delle istituzioni