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Commento alle tav. n. 8 e 9, allegate al n. 5 ■ 6, anno II di « Centro Sociale»

a cura di Gilberto A . Marselli

Premessa

Con il termine di « riforma fondiaria » si intende far riferimento a tutti quei provvedimenti giuridici, tecnico-economici e politici che un paese può adot­ tare per modificare la sua situazione fondiaria.

Per modificare, cioè, quella che è la distribuzione del capitale fondiario tra i suoi cittadini al fine di eliminare situazioni monopolistiche e, contemporanea­ mente, di consentire l’ascesa alla proprietà fondiaria delle categorie più povere mettendole in condizione di assumere anche l’onere dell’impresa.

I provvedimenti giuridici consentono allo Stato di intervenire nei confronti degli attuali detentori della terra affinché si possa, successivamente, aiutare tecnicamente ed economicamente i nuovi proprietari nonché creare delle nuove imprese agricole.

Molte volte la rottura del « monopolio » fondiario è resa possibile solo dal­ l’applicazione di leggi capaci di costringere i detentori della terra alla vendita, oppure tali da consentire l’esproprio delle superfici eccedenti determinati limiti o, in alcuni casi, anche quello totale.

II tutto ha come principali obbiettivi quelli di attuare una trasforma­ zione fondiario-agraria su terreni insufficientemente utilizzati e di migliorare le condizioni di vita delle categorie contadine interessandole direttamente al processo produttivo (quindi assicurando loro una maggiore occupazione, redditi più alti, una maggiore sicurezza ed indipendenza e, in sostanza, un più elevato tenore di vita materiale e non).

Gli interventi di « riforma fondiaria » attualmente in atto nel nostro Paese hanno, però, dei precedenti da noi ed all’estero.

Per quanto riguarda gli altri stati basterà richiamare l’attenzione dei lettori sulle riforme avutesi nel XIX secolo e su quelle successive alla guerra 1915-1918.

Le prime, avvenute nell’atmosfera della rivoluzione francese negli stati occi­ dentali d’Europa, permisero alla borghesia di muovere all’attacco delle proprietà feudali e dei diritti e prerogative a queste connesse.

Così, per esempio, in Gran Bretagna si tese alla costituzione di grandi proprietà tali da poter meglio valersi delle innovazioni tecniche in quel determi­ nato ambiente economico e naturale, mentre negli altri stati continentali (Francia, Paesi Bassi e Belgio) fu prescelto un deciso indirizzo a favore delle piccole pro­ prietà coltivatrici, maggiormente idonee e convenienti a quelle situazioni nazionali. Le seconde, invece, interpretarono l’aspirazione del proletariato e delle cate­ gorie contadine a venire in possesso della terra. Esse, per lo più, interessarono gli stati dell’Europa orientale, che erano rimasti estranei ai movimenti rifor­ matori del secolo precedente.

Si ebbero, così, leggi di riforma negli anni 1918-21 per la Romania, 1918-36 per la Finlandia, 1919-25 per la Polonia, 1919-30 per l’Estonia, 1919-31 per la Jugoslavia, 1919-20 per la Cecoslovacchia, 1920-25 per la Grecia, 1920-22 per la Lettonia, 1920 per l’Ungheria, 1920-24 per la Bulgaria, 1922 per la Lituania, 1930 per l’Albania, 1932 per la Spagna, oltre, si intende, quelle relative alla Russia dovute alla rivoluzione dell’ottobre 1917.

Ciascuna di queste leggi riconobbe necessario il ricorso all’esproprio — in via normale od eccezionale — pur adottando limiti e criteri diversi a seconda delle condizioni ambientali, economiche e politico-sociali dei singoli paesi.

In complesso questi interventi interessarono una superficie di Ha. 25.206.000 pari al 14,9% della totale superficie agraria e forestale degli stessi paesi.

1 ) La proprietà fondiaria e l’evoluzione del concetto di diritto di proprietà

Le diverse concezioni giuridiche sono state, di volta in volta, influenzate dalle differenti teorie sull’origine della stessa proprietà fondiaria.

Per alcuni, infatti, essa è il risultato di primitive occupazioni della terra quando questa era ancora « senza proprietario » ; per altri è il frutto di succes­ sive appropriazioni — molte volte connesse ad usurpazioni — in danno della col­ lettività ; per altri, ancora, è il frutto del lavoro e del risparmio o dell’investimento di capitali prodotti in altri settori economici, ecc.

Tutto ciò fa dire a molti autori che la proprietà fondiaria « ha spesso origini assai lontane nel tempo e non sempre appare come risultato dell’abilità economica o della capacità di risparmio dell’attuale possessore: la si vede spesso come un ingiusto privilegiò o un bene non guadagnato » (cfr. Mario Bandini « Politica Agraria »).

Comunque, il diritto romano già riconosceva valido il principio secondo cui « dominium est jus utendi et abutendi re sua, quatenus juris ratio partitur » il che, però, non escludeva l’applicazione di determinati vincoli e limiti nonché, in alcuni casi, dell’esproprio stesso senza indennizzo per le terre mal coltivate.

Conferma a questo diritto assoluto di « usare e disporre » della propria cosa compatibilmente con i limiti posti soprattutto per tutelare i pubblici interessi si trova anche nelle disposizioni più recenti della nostra giurisprudenza.

Già nel nostro precedente codice civile, ora abrogato, l’art. 436 riconosceva il diritto di godere e disporre delle cose in maniera assoluta (concezione indivi­ dualistica) analogamente a quanto disposto in altri paesi.

Solo successivamente si fece largo, a fianco di questa concezione, l’altra detta « sociale », secondo cui il diritto in questione andava esercitato « anche e soprat­ tutto nell’interesse della collettività intera ».

E questa funzione sociale fu ampiamente tenuta presente da chi elaborò il codice civile italiano del 1942, pur non figurando esplicitamente enunciata.

A questa mancanza ha ovviato, ultimamente, la Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, approvata dall’Assemblea Costituente nella sua seduta del 22 dicembre 1947, che all’art. 42 reca : « La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, la quale ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale... » ed ancora all’art. 44: « Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostruzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane».

2) La situazione fondiaria in Italia ed i primi interventi

Il regime della proprietà fondiaria ha avuto, in Italia, una differente evolu­ zione a seconda delle diverse caratteristiche di ciascun Stato pre-unitario.

Le diverse giurisprudenze e costituzioni, le singole caratteristiche economiche, ambientali e sociali fecero sì da determinare diversi passaggi da una forma all’altra di proprietà fondiaria, per cui al momento dell’unità d’Italia i singoli Stati vennero a trovarsi in diversissime condizioni.

Dal « Rapporto della Commissione economica - Sottocommissione per l’agri­ coltura », presentato all’Assemblea Costituente, si rilevano le seguenti informa­ zioni, che qui si riportano in sintesi.

Nel 1700 dei 2.000 Comuni continentali dell’Italia Meridionale 1.616 dipen­ devano dai feudatari, 346 dal demanio e 38 dal re delle Due Sicilie ; in Sicilia, inoltre, dei complessivi 367 Comuni ben 282 ( = 76,8%) erano feudali ed i restanti 85 demaniali.

I feudi ecclesiastici, che sotto gli Aragonesi erano appena 43, giunsero, sotto il regno dei Borboni, a 127.

Ragioni queste che spiegano sufficientemente il calcolo secondo cui, nel 1786, ben i quattro quinti della popolazione dell’Italia Meridionale obbedivano in varia maniera ai feudatari. La proprietà borghese era ridotta a piccole oasi nelle imme­ diate vicinanze dei centri abitati, il più delle volte estremamente frazionata, talvolta anche con l’assurdo di « tanti proprietari quanti i prodotti ».

Dal canto loro i feudatari, oltre ad esercitare incontrastata potestà sulle terre feudali vere e proprie, venivano ad influire ulteriormente sulla vita delle comunità ricadenti nella loro giurisdizione usurpando, con inimmaginabile faci­ lità, anche le terre collettive, oltre che impedivano, attraverso l’esercizio dei vari maggiorascati, fedecommessi e manomorte, raffermarsi spontaneo e naturale di una proprietà privata autonoma.

Una tale situazione faceva sentire le sue conseguenze nell’esercizio dell’agri­ coltura e, quindi, nell’economia generale del territorio; per cui da più parti si cominciò a pensare di intervenire.

Inizialmente furono i commercianti di grano a premere perché si avviasse un sia pur limitato mercato fondiario; ad essi seguirono altre iniziative di legge tendenti ad accelerare l’abolizione dei diritti feudali : basti ricordare la mozione di Mario Pagano del 14 marzo 1799.

Solo nel 1806-1809 si ebbero le prime « leggi eversive della feudalità » con le quali venivano a privarsi i baroni dei domini universali usurpati, pur ricono­ scendo « piena libertà ai beni baronali non soggetti ad uso civico ed alle difese legalmente costituite ».

L’attacco alla feudalità portò, di conseguenza, anche l’attacco alle proprietà ecclesiastiche nonché l’ascesa alla proprietà dei ceti borghesi.

Fu questo il primo passo verso una più completa evoluzione. Successivamente operarono il continuo incremento demografico e, quindi, la necessità di mettere a coltura sempre nuove terre.

Le popolazioni chiesero, cioè, lo scioglimento delle proprietà promiscue e la quotizzazione di quelle comunali, spinte in ciò anche dall’inevitabile aumento del prezzo di grano e, quindi, dei canoni d’affitto, e dal più dinamico mercato fondiario.

Vennero, così, a trovarsi da una parte la piccola borghesia ed i contadini alla disperata 'ricerca di nuova terra e, dall’altra, i latifondisti e gli allevatori che detenevano le proprietà più grandi e, quel che più importa, il potere ammi­ nistrativo. Pomo della discordia ed oggetto delle contese: la proprietà demaniale. I contadini restarono, però, ancora al margine di questi movimenti — nella generalità dei casi — poiché contro le nuove, modeste piccole proprietà (il più delle volte seriamente indebitate) venne ad aversi un incremento della proprietà borghese, che tendeva sempre più a sostituire in tutto e per tutto il vecchio feudo.

Al Nord, invece, l’evoluzione fu diversa.

In Sardegna — facente parte del regno piemontese -— le riforme del sec. XIX, approfittando delle condizioni esistenti, determinarono alquanto rapidamente un notevole frazionamento della proprietà fondiaria avviando quei fenomeni patolo­ gici che ancora oggi possono notarsi.

II sistema feudale esistente nell’isola interessava 376 feudi — dei quali 32 ancora sotto giurisdizione regia — , mentre le altre terre venivano utilizzate comu- nisticamente e le proprietà private erano ridottissime.

Le successive leggi del 1827, 1836 e 1837 (di Carlo Felice e di Carlo Alberto) intaccarono ulteriormente i feudi che al 1840 erano quasi del tutto scomparsi e trovarono, in altre disposizioni concernenti le proprietà comunali, un utile completamento.

I governi di Maria Teresa e di Giuseppe II ordinarono, in Lombardia, la vendita all’asta delle terre incolte, contemporaneamente assoggettando i baroni alle leggi dello Stato e rendendosi promotori di un’agricoltura più evoluta.

Anche nella repubblica veneta opportune disposizioni si interessarono della cosa sia nei confronti delle proprietà feudali che di quelle comunali.

A Modena, invece, Francesco IV restituì ai baroni i titoli e gli onori feudali, ma non ripristinò i feudi già aboliti dalla legislazione napoleonica.

Alla fine del ’700 risale, in Toscana, la concessione ai livellari ed enfiteuti di liberarsi dai rispettivi canoni e, quindi, il primo grande impulso ad una vera e propria trasformazione fondiaria.

In tali condizioni si giunse all’un ideazione d’Italia e nel dicembre 1861 un’apposita legge si occupò dell’abolizione di tutti gli avanzi feudali che fossero sopravvissuti nonché delle prestazioni e delle decime ecclesiastiche.

Successivamente leggi del 1865 e del 1867 interessarono le priprietà ecclesia­ stiche e dettero l’avvio ad un più diffuso fenomeno di frazionamento.

La proprietà cominciò, in realtà, ad essere più facilmente raggiungibile da parte dei contadini, tanto che nel decennio successivo alla guerra 1915-18 circa un milione di ettari, grazie anche e soprattutto alle rimesse degli emigranti, riuscì a passare da proprietari non coltivatori a proprietari coltivatori.

Fu, questo, un momento molto importante per il proletariato agricolo ita­ liano: la terra, la costante aspirazione alla quale erano stati dedicati sacrifici notevoli e, spesso, sovrumani, era finalmente a portata di mano. Almeno per quanti avevano un « minimum » di possibilità, sia pure solo potenzialmente.

Purtroppo, però, benché scomparso il feudo, la mentalità feudale e, soprattutto, il regime feudale continuarono a sopravvivere e ad influenzare la vita delle nostre campagne.

I grandi proprietari ebbero, in molti casi, ben presto ragione di coloro che, oppressi dai debiti, furono costretti a rivendere la terra; la trasformazione fon­ diaria di queste nuove proprietà mancò o, per forza maggiore, procedette lenta­ mente ; il feudo, con altro nome e sotto altro aspetto, andò riformandosi ; la coltura estensiva ritornò a minacciare le piccole oasi intensive, che la proprietà contadina era riuscita a creare con notevoli sacrifici, talvolta anche con successo.

Dalla relazione finale del Prof. Giovanni Lorenzoni alla « Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra » (voi. XV, a cura del- l’I.N.E.A., Roma 1938), si rileva che circa un milione di ettari della superficie lavorabile italiana (ammontante ad Ha. 16.500.000), pari, cioè, al 6%, era passata, durante la guerra ed il dopoguerra, nelle mani di coltivatori diretti che l’acqui­ starono quasi interamente in libera contrattazione. Lo stesso relatore credeva di poter affermare che « la superficie passata ad ogni acquirente (che, normal­ mente, è un capofamiglia) può stimarsi, nella media del Regno, a non più di due ettari. Si sarebbero, dunque, avuti 500.000 nuovi acquirenti sopra circa 3.800.000 capi famiglia contadini »,

Successivamente veniva stimato che circa i 3/4 dei nuovi acquirenti (375.000) erano già piccoli proprietari autonomi e particellari e che 125.000 sarebbero diventati proprietari « ex novo ».

Nel complesso si ebbe un accrescimento della piccola proprietà coltivatrice pari al 5,7% per il Regno (più precisamente 7,1% per l’Italia Settentrionale, 3,5% per l’Italia Centrale, 5,3% per l’Italia Meridionale e 5,9% per quella Insulare).

II fenomeno fu più macroscopico in Veneto e Lombardia per l’Italia Setten­ trionale, nel Lazio per quella Centrale, nella Campania e nelle Puglie per quella Meridionale, e, infine, in Sicilia per quella Insulare. Ed ancora è da osservare che esso, secondo le statistiche pubblicate, interessò maggiormente le regioni agrarie di pianura (7,4% per il Regno) che quelle di collina (5,3%) o di mon­ tagna (3,8%), ove si faccia eccezione per la regione lucana.

Il prezzo medio pagato dai contadini per queste terre — come risulta dalla già citata relazione del Lorenzoni — non fu certamente inferiore alle 4.500 lire per ettaro (valori dell’epoca) ; per cui « occorse una spesa di circa 4 miliardi e mezzo di lire, per la quasi totalità sostenuta dai contadini con i loro risparmi ».

Negli anni successivi l’evolversi o meno della proprietà è stato, però, sempre influenzato anche e soprattutto dalle caratteristiche ambientali delle singole regioni italiane oltre che da quelle storiche, sociali e politiche. Laddove era pos­ sibile procedere a bonifiche ed a trasformazioni fondiarie — e, particolarmente, in condizioni tecniche e di congiuntura favorevoli — è stato più facile ottenere

un progresso agricolo, che, in ultima analisi, non poteva non influire anche sulle condizioni economico-sociali delle popolazioni interessate.

Un’idea alquanto precisa della situazione fondiaria in epoca a noi più vicina può essere desunta da un’indagine condotta a termine dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria (I.N.E.A.) in collaborazione con l’Amministrazione del Catasto e con l’Istituto Centrale di Statistica tra il 1946 ed il 1948.

Questa indagine ha accertato, tra l’altro, che, dei 27.826.029 ettari censiti, ben Ha. 21.572.951 ( = 77,5%) erano, in quel periodo, da attribuirsi alla proprietà privata ed i restanti a quella di enti vari.

Il numero delle proprietà private era stato calcolato in poco più di 9 milioni e mezzo (9.512.242) delle quali il 53,9% di ampiezza non superiore al mezzo ettaro di superficie ed interessante appena il 4,1% della totale superficie; il 29,4% attribuibile alla categoria di ampiezza tra mezzo ettaro e due ettari interessante il 13,3% della superficie; il 10,1% tra due e cinque ettari interessante il 13,6% della stessa superficie totale e così via.

In altri termini ben il 93,4% in numero delle proprietà era risultato inferiore ai cinque ettari di ampiezza per una superficie complessiva pari al 31,0% di quella totale; il 5,5% tra i cinque ed i venticinque ettari interessando una superficie pari al 24,2% ; lo 0,9% tra 25 e 100 ettari su una superficie pari al 18,8% ; lo 0,1% tra 100 e 200 ettari su una superficie pari all’8,3% e, infine, il rimanente 0,1% in numero attribuibile alle categorie di ampiezza da 200 ettari in su per una superficie complessiva pari al 17,7%.

Nella « Relazione generale » dell’indagine citata era stato tentato anche un confronto tra numero delle proprietà e consistenza demografica; confronto che, pur tenuto conto dell’epoca di riferimento, risulta di notevole interesse e tale da prestarsi ad una serie di utili considerazioni.

Calcolata la popolazione italiana al 1° gennaio 1948 in 46.110.000 abitanti ed essendo state censite 9.512.242 proprietà private, risultava che, a quell’epoca, per ogni 100 abitanti erano a disposizione circa 20,6 proprietà (cioè una ogni cinque abitanti). Tale stima, però, si basava sul numero totale delle proprietà e degli abitanti, non tenendo conto che determinate proprietà, per esempio, non erano da considerarsi « schiettamente rurali » (come osservato dallo stesso relatore, prof. G. Medici) e che larga parte della popolazione nulla aveva a che fare con la stessa proprietà fondiaria.

Così, per esempio, escludendo le proprietà inferiori al mezzo ettaro si sareb­ bero avute 9,5 proprietà ogni 100 abitanti (circa 1 ogni 10).

Qualora si convenisse di ascrivere — sulla base di un’indagine del Prof. Giusti — alla categoria delle « piccole » quelle proprietà aventi un’ampiezza inferiore ai 10 ettari, alle « medie » quelle tra i 10 ed i 100 ettari e le rimanenti alle « grandi », si avrebbero i risultati di cui all’allegata tavola n. 8.

Basterà, forse, far notare che la distinzione finora adottata anche prescin­ dendo dalla sua esattezza o meno — è, però, scarsamente indicativa.

Infatti, oltre all’ampiezza di una proprietà, bisognerebbe considerare anche 11 suo reddito imponibile, il suo indirizzo produttivo, la forma di conduzione, la sua ubicazione e, comunque, i suoi rapporti con quelli che sono gli altri fattori costituenti il regime fondiario di ogni zona. E con il termine di « regime fon­ diario » si intende far riferimento a tutte quelle caratteristiche di un territorio che lo rendono idoneo all’esercizio dell’agricoltura (quindi, oltre alla distribuzione della proprietà fondiaria, le caratteristiche fisico-naturali, i tipi di insediamento delle popolazioni, i rapporti con l’ambiente circostante, le relazioni economico- sociali esistenti nella zona ecc.).

Non vi è chi non veda, per esempio, che ben diversa è una proprietà di 2 ettari nella zona vesuviana (per lo più ad indirizzo orticolo e, quindi, avente un elevato valore di prodotto netto unitario) da una di analoga ampiezza in Lucania (per lo più ad indirizzo cerealicolo). In questo caso dire « piccola » pro­ prietà non ha alcun significato, almeno per il primo esempio portato ; in quanto quella proprietà può, quasi certamente, conseguire risultati che sono proibitivi anche per « medie » o « grandi » proprietà in altri ambienti.

Nella lettura delle precedenti elaborazioni, cioè, si dovrà tener sempre pre­ sente questa realtà di sostanziali differenze tra un ambiente e l’altro. L agricol­ tura intensiva, d’altra parte, è facilmente individuabile in Italia — e partico­ larmente nel Mezzogiorno — avendo per lo più un carattere oasico.

Ciò vuol dire che le « piccole » proprietà, oltre a rappresentare un aspetto indubbiamente positivo (diffusione, tra i cittadini, della proprietà del capitale fondiario), comportano tutta una serie di aspetti negativi, che non possono essere ignorati (redditi per lo più miseri, difficoltà per una razionale utilizzazione del suolo ed investimento di adeguati mezzi produttivi ecc.).

Per quanto riguarda le forme di conduzione, infine, basterà considerare i seguenti valori indici (limitatamente alla proprietà privata) :

a) nel complesso della Nazione il 77% della superficie produttiva è inte­ ressato da « proprietà imprenditrice » (e di questa 58% nel Nord e 42% nel Sud) ed il rimanente 23% (rispettivamente 43% e 57%) da «affittanza»;

b)

fatte, a loro volta, pari a 100 le relative superfici del Nord e del Sud si ha, rispettivamente, un’incidenza della proprietà imprenditrice dell 82% e del 18% e viceversa per l’affittanza (18% nel Nord ed 82% nel Sud);

c) rispetto ai relativi totali nazionali si hanno i seguenti valori indici per le imprese « coltivatrici » (quelle condotte da un coltivatore manuale con l’ausilio della famiglia e di lavoro estraneo solo in casi straordinari ed in misura non superiore al 2 0%), per quelle « coltivatrici-capitalistiche » (quelle condotte da un coltivatore manuale che, oltre al lavoro della famiglia, impiega anche mano d opera estranea in misura superiore al 2 0% ) e per quelle « capitalistiche » (il cui condut­ tore è un « capitalista » che ricorre esclusivamente a mano d’opera di terzi) nel Nord e nel Sud distintamente per la « proprietà imprenditrice » e per la « affittanza » :

COMPARTIMENTI PROPRIETÀ IMPRENDITRICE AFFITTANZA

Tot. Coltiv. Colt./capii. Capit. Tot. Coltiv. Colt./capit. Capit.

Nord . . . . 58 59 39 60 43 44 43 41 42 41 61 40 57 56 57 59 Italia . . - 100 100 100 100 100 100 100 100

d) nei singoli compartimenti e nel complesso nazionale i precedenti valori indici variano come segue

COMPARTIMENTI 8UP. PROPRIETÀ IMPRENDITRICE AFFITTANZA COMP. Coltiv. Colt, /capit. Capit. Coltiv. Colt./capit. Capit.

Nord . . . 100 38 3 41 10 3 5

Sud . . . . 100 32 6 34 15 5 8

Italia . . . 100 35 4 38 12 4 7 Elaborazioni, queste, che, pur riferendosi a situazioni pre-riforma, denun­

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