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Ana Jaksic

1. Introduzione

È consuetudine iniziare lo studio di una qualsiasi lingua considerandone due ambiti macroscopici, ossia quelli che passano attraverso la distinzio- ne fra lingua parlata e lingua scritta. Più raramente, però, il riferimento al distinguo fra lingua scritta e parlata è usato in maniera correlata, ossia sfruttando i vantaggi didattici che derivano dal comprendere meglio le dif- ferenze che ci sono fra l’uno e l’altro, determinatesi soprattutto a causa delle rispettive dinamiche di trasformazione e d’uso. La lingua orale può essere più soggetta a cambiamenti che si susseguono in base all’impiego pratico che ne facciamo, mentre riformare un sistema di lingua scritta può richie- dere più tempo –in quanto trattasi di un procedimento non naturale e alta- mente più specializzato– onde evitare che diventi presto obsoleto. Tuttavia, nella lingua cinese queste regole e questi rapporti conoscono una particolare articolazione. Seppur anche in questo contesto la lingua orale segua il suo naturale corso, il parlante cinese non può infatti evitare di fare i conti sia con l’importanza vincolante che riveste la lingua scritta, sia con il ruolo decisivo che essa svolge, ossia consentire l’intercomunicabilità all’interno del vasto territorio cinese.

Per illustrare questo particolare aspetto della lingua cinese, che ritengo essere un ottimo punto d’inizio per la comprensione della stessa, ho pensato anzitutto di presentare una breve panoramica della lingua cinese per poi affrontare, con maggior dettaglio, i due ‘protagonisti antagonisti’ di questo mio contributo, ossia i suoni e i segni del cinese, esaminati all’interno dei loro rispettivi campi di esercizio: la dimensione orale e quella scritta. 2. Inquadramento teorico

Prima di affrontare il tema preso qui in esame è però necessario dare alcune informazioni minime riguardanti le coordinate generali del sistema linguisti- co cinese (cfr. Wang, Sun, 2015; Huang, Li, Simpson 2014).

La lingua cinese fa parte della famiglia linguistica sino-tibetana e in senso tipologico si può definire prevalentemente isolante, ovvero, senza declinazioni né forme flesse e con la morfologia ridotta al minimo. Essa è composta da un

numero considerevole di termini monosillabici corrispondenti direttamente a un unico carattere grafico che, a sua volta corrisponde a un unico morfema1.

Il cinese, inoltre, è una lingua tonale in quanto a seconda del tono che accom- pagna la pronuncia di una sillaba, tale sillaba può denotare significati diversi. Tale peculiarità ne rende difficile la comprensione all’orecchio non allenato.

Nella Cina contemporanea vi è un ampio numero di varietà linguistiche re- gionali, con i relativi dialetti locali. Ciò non dovrebbe stupire, visto che l’esten- sione territoriale della Cina è quasi pari a quella dell’Europa, fatto che giustifica immediatamente tanta diversità linguistica. Rispetto al cinese contemporaneo, il cinese antico gioca un ruolo simile a quello che ha per l’italiano odierno il lati- no, dal quale si sono formate le lingue romanze che a loro volta hanno dato vita a molteplici varietà e dialetti. Le varietà linguistiche principali del cinese par- lato sono almeno sette: il cinese standard o cinese mandarino, il cantonese standard, il wu, il xiang, il gan, il kejia, il min. Queste sette varietà vengono classificate alla stregua di veri e propri idiomi, oppure come dialetti maggioritari, poiché le loro differenze sono sostanziali, non solo in termini di pronuncia. Ognuna di queste sette, a sua volta, presenta ulteriori sottovarietà interne (cfr. Chen 2004). A fronte di tanta complessità, però, non vi è un’altrettanta varietà di segni, dal momento che tutte e sette le varietà suddette poggiano sul medesimo sistema di scrittura. Aspetto, questo, che merita davvero attenzione. Gli stessi cinesi, infat- ti, utilizzano normalmente due termini diversi se si riferiscono alla lingua cinese parlata, detta hanyu 汉语 (facendo riferimento soprattutto alla lingua ufficiale, il mandarino), oppure a quella scritta, detta zhongwen 中文. Ed è a quest’ultima che dobbiamo guardare per comprendere il secolare mantenimento di un alto grado di uniformità del cinese, non solo dal punto di vista linguistico ma anche da quello culturale, seguendo la lezione delle recenti tradizioni di linguistica storica (cfr. Hock 1991).

Date queste premesse, possono essere immaginati vari percorsi didattici, come quello che ho avuto modo di sperimentare durante i laboratori svolti nelle classi partecipanti al progetto di cui questo volume è espressione. In quella sede, infatti, partendo da alcune riflessioni riguardanti l’importanza –non solo in funzione veicolare– della lingua scritta, ho proposto un diverso modo di avvicinarsi alla lingua cinese, stabilendo un peculiare tipo di equili- brio fra segno e suono.

3. Il laboratorio

La struttura del laboratorio condotto, che può servire anche come modello per prossime sessioni didattiche, prevedeva due parti: una incentrata sull’im- portanza dell’oralità della lingua, l’altra calata nel dettaglio della scrittura ci-

1. Nella linguistica si intende con morfema l’unità linguistica più piccola avente significato, solitamente corrispondente a una sillaba.

nese e avente come scopo quello di evidenziare il contributo alla comprensione semiotica offerto dalla conoscenza della dimensione segnica della tradizione calligrafica cinese.

Iniziando dalla lingua orale, infatti, si è fatto notare fin da subito che l’an- tico cinese è una lingua definita “prevalentemente monosillabica” poiché la maggioranza delle sue parole erano composte da un’unica sillaba. Ai nostri giorni, invece, il cinese è ricco sia di parole bisillabiche, generate da diffusi fenomeni di prestito e dal meccanismo di composizione che principalmente genera sostantivi aventi addirittura tre o quattro sillabe. Trattasi di un feno- meno, quest’ultimo, in crescente aumento, per far fronte alla sempre maggiore necessità di adottare termini “di importazione” o dovuti all’innovazione stes- sa. Ciò nonostante il cinese contemporaneo porta tutt’ora con sé tratti mo- nosillabici del suo antico predecessore. Infatti, pur essendovi sempre meno parole monosillabiche, nella composizione dei nuovi termini vengono riutiliz- zati molti elementi monosillabici appartenenti al cinese antico, creando spesso uno slittamento di significato (cfr. Norman 1988). Questo aspetto della lin- gua cinese, però, è decisivo per l’articolarsi del rapporto fra oralità e scrittura. Sempre a proposito di oralità, è necessario ricordare che in ogni lingua il numero e le possibili combinazioni di fonemi sillabici sono sempre minori rispetto ai morfemi di cui essa fa uso. Ciò significa che in una qualsiasi lingua non vengono sfruttate tutte le possibili combinazioni sillabiche, ma se ne ri- duce l’utilizzo a un numero limitato. I significati e i concetti che devono essere comunicati, al contrario, sono più numerosi e in crescente aumento. Nella maggior parte delle lingue europee, ad esempio, il problema viene risolto preponendo, posponendo o inserendo altre unità linguistiche di tipo mor- femico a una sillaba, in modo da dare indicazioni semantiche sull’eventuale variazione del morfema di base, la sua radice. Ciò avviene con l’utilizzo delle declinazioni a seconda dei casi (nel latino come nel tedesco), ma anche con la più semplice coniugazione dei verbi (la totalità delle lingue europee). Anche nella composizione delle parole si ricorre a tale sistema onde evitare ambiguità e omofonie, rendendo così immediata la comprensione al solo udirsi del suono della parola. Di fatto, ben poche sono le parole monosillabiche nelle lingue vicine alla scrivente e solitamente si tratta di particelle grammaticali. Nei sistemi linguistici tali manovre servono a compensare la carenza di risorse del materiale fonico che si riduce facilmente a un numero ristretto di tipi formali (cfr. Simoni 1998: 114-133).

Grazie a esempi di questo tenore non è stato difficile far cogliere da subito la predisposizione dei sistemi linguistici ad agevolare la fruizione della lingua parlata. Da questo punto di vista, però, va fatto notare che il cinese, invece, presenta spesso casi di omofonia: uno stesso suono, infatti, può corrispondere a più di un significato. Per esemplificare meglio, si pensi ai modi in cui, in italiano, viene marcata la differenza tra pèsca e pésca, oppure tra àncora e ancòra.

Qui la precisazione semantica è data dall’impiego di accenti diversi con cui viene marcata la corretta pronuncia, i quali, però, sono segnalati di rado nella versione scritta poiché la portata semantica della parola si evince abbastanza facilmente dal contesto. Trattasi certo di rarità se comparati al numero di casi analoghi nella lingua cinese, la quale, per risolvere –almeno in parte– il pro- blema generato nella lingua orale, ricorre all’utilizzo di ben quattro toni, più uno neutro, motivo per cui viene classificata come lingua tonale (cfr. Beccaria 1996: 726-727). Torno qui sugli esempi utilizzati durante il laboratorio, il primo dei quali è il seguente:

mā má mǎ mà

妈 麻 马 骂

mamma canapa cavallo inveire

Pur essendo una variante fonica, o meglio definita melodica, che distingue una sillaba dall’altra attribuendo a queste un valore semantico diverso e, te- nendo ben presente che un orecchio allenato dalla nascita non reputi difficile questa distinzione rispetto a ciò che può risultare a parlanti non nativi, la sud- detta variante rende comunque meno immediata la ricezione del significato. Con il progressivo aumento di parole plurisillabiche che ha caratterizzato la lingua cinese in epoca contemporanea (cfr. Norman 1988), però, il fenomeno dell’omofonia va decrescendo. Questo poiché anche la lingua cinese segue uno sviluppo che tende a economizzare e rendere più pratico e immediato il suo uso. Tuttavia, nei casi di omofonia ancora frequenti –e in particolare in quelli in cui corrisponde perfino il tono–, neppure il ricorso al contesto riesce sem- pre a dar completa chiarezza. Sempre a proposito, ho richiamato l’attenzione a quattro campioni di omofonia, ossia:

shì shì shì shì

是 势 示 式

essere potenziale mostrare stile

Questo esempio è servito a mostrare una serie di quattro parole aventi pro- nuncia corrispondente sia nei fonemi sia nei toni ma che veicolano quattro significati diversi e vengono quindi raffigurate con quattro distinti caratteri. Nell’esercizio del cinese parlato questo comporta non poche difficoltà, tant’è che, pur facendo affidamento alla logica del discorso, a volte non si può fare a meno di chiedere maggiori precisazioni all’interlocutore. Questa è una pra- tica che si incontra con una certa regolarità nella conversazione tra parlanti cinesi, i quali, per meglio esplicitare a quale sillaba-morfema stiano facendo

riferimento, fanno l’esempio di un’altra parola –solitamente bisillabica– in cui compare la sillaba-morfema oggetto di chiarimento. Per mostrare questo modo di condurre la conversazione, tanto frequente da ricorrere anche nella lingua scritta letteraria –come si vede nella citazione che riporto a seguire–, ho usato una frase con cui un cittadino cinese si presenta dicendo il suo nome o cognome: “il mio cognome è Liang, il Liang di trave…”2. Qui il cognome

monosillabico Liang 梁 è un carattere presente nella parola bisillabica ‘trave’,

dongliang, 栋梁, ed è facendo appello a quest’ultima che il parlante cerca di

sciogliere il possibile equivoco.

Per meglio comprendere le dinamiche che uniscono fra loro l’oralità e le peculiarità della scrittura cinese, è stato inevitabile ricorrere a una breve in- troduzione storica, che mostrasse prima di tutto la longevità di tale sistema.

La maggior parte degli antichi sistemi di scrittura a noi conosciuti, come quello dei glifi sumeri –evolutosi poi in quello cuneiforme dopo il 3700 a.C.–, o quello dei geroglifici egizi del 2200 a.C., e altri ancora, sono man mano andati scomparendo in favore di sistemi alfabetici. Ancora una volta si nota la scelta in favore della praticità di simboli fonetici a discapito dei simboli semantici. A questo andamento fa eccezione la lingua cinese, che tutt’oggi utilizza una scrittura pittografica già pienamente sviluppata nel XIV secolo a.C. Ritrovamenti archeologici attestano di millenarie iscrizioni oracolari su gusci di tartaruga e ossa, ma anche su recipienti di bronzo di vario genere. Grazie alla testimonianza dataci da tali reperti risulta evidente, secondo molti studiosi, che la lingua cinese dell’epoca fosse articolata e non ambigua, con un sistema di scrittura già ben consolidato, risultato di uno sviluppo iniziato in tempi ancor precedenti (cfr. Boltz 1994).

Il cinese è detto essere una lingua isolante. La definizione classica di una lin- gua isolante vuole che la morfologia della lingua sia ridotta al minimo, motivo per il quale l’ordine sintattico assumerebbe un’importanza cruciale per esprime- re funzioni e relazioni all’interno di una frase. A sua volta il morfema viene inte- so come unità minima che definisce il significato, ciò comporta che nelle lingue appartenenti alla tipologia isolante, come per l’appunto il cinese, le parole non possano essere scomposte in unità morfologiche più piccole, vincolando così una sillaba-parola ad un unico significato. Seppur questa definizione tipologica sia in larga parte relativa a una condizione utopica –in quanto nessuna lingua riesce ad aderire perfettamente alle classificazioni teoricamente attribuitele–, sia il cinese antico sia quello contemporaneo vi sono stati inclusi.

Dal punto di vista fonetico ogni carattere della lingua cinese corrisponde a una sillaba, mentre nelle lingue alfabetiche, come quelle europee, ogni grafe-

2. Cfr. per l’originale Gu Hua古华, Wo zhege nv wuchang jieji 我这个“女无产阶级” in

Zhongduanpian xiaoshuoji 中短篇小说集, Hunan renmin banshe 湖南人民出版社,

ma corrisponde a un solo suono. A loro volta i caratteri differiscono riguardo al loro avere un valore meramente fonetico (fonogrammi) oppure se assieme a quello fonetico portano anche un valore semantico (logogrammi) (cfr. Packard 2000).

I più antichi esempi della scrittura cinese parlano con chiarezza della sua origine pittografica. Dai suoi primi stadi di sviluppo è facile vedere che il meccanismo di creazione dei caratteri era quello di raffigurare ciò che doveva essere presentato. Fin dagli inizi il sistema di scrittura cinese è stato infatti fondamentalmente morfemico, ovvero a un simbolo grafico corrispondeva un singolo significato. A fini didattici mostrare alcuni di questi pittogrammi chiedendo agli studenti di indovinarne il significato si rivela molto proficuo: essendo grafemi che rappresentano abbastanza fedelmente oggetti esperiti nella realtà è stato interessante vedere come l’immaginazione e le circostanze del singolo studente abbiano sì prodotto risultati variegati, ma non tanto da assomigliare a quanto accade quando si mostrano le tavole Rorschach3. Ripro-

va del fatto che la scrittura cinese svolge ancora una funzione restrittiva del campo semantico.

La questione, però, va mostrata anche in senso diacronico: perfino i caratteri che rappresentavano più fedelmente gli oggetti fisici e materiali a cui facevano riferimento andarono, in forza dell’economicità imposta dall’uso, man mano semplificandosi. I caratteri pittografici divennero infatti sempre più stilizzati, per consentire una scrittura più fluida e più rapida. Per illustrare questo anda- mento del segno ho richiamato l’attenzione su alcuni dei primi passi dell’evo- luzione di alcuni caratteri semplici come ‘cavallo’ e ‘montagna’:

carattere ‘cavallo’, ma 马;

carattere ‘montagna’, shan 山;

L’illustrazione di questo processo è utile anche a comprendere le ragioni della maggiore difficoltà di rendere grafici dei concetti astratti. Esemplari a

3. Sono tavole raffiguranti macchie astratte che prendono il nome dal loro ideatore Hermann Rorschach (1884-1922). Fungono da strumento per l’indagine psicodiagnostica e sono sotto- poste all’interpretazione del paziente per trarne indicazioni sulla sua personalità.

riguardo sono gli ideogrammi, ovvero segni impiegati per concetti astratti, i quali sono raffigurati con più elementi che ne suggeriscono l’idea. Ho presen- tato degli ideogrammi composti agli studenti e, dopo aver spiegato le parti che li componevano, ho chiesto di dedurne il significato, a partire dal carattere ‘bene’, hao 好 (in cui il concetto astratto di ‘bene’ o ‘buono’ viene raffigurato con una madre e il suo bambino). Ecco il dettaglio del carattere in questione:

Oppure, ancora, mostriamo qui a seguire il carattere ‘pace’, ‘tranquillità’,

an 安 (in cui si indica un concetto astratto raffigurando una donna che sta/

resta a casa):

Già da questi pochi casi è stato subito chiaro che anche la scrittura cinese ha avuto una sua trasformazione e che, dal punto di vista squisitamente grafico, non è rimasta immutata nel corso dei millenni. Quello che è rimasto invaria- to, però, è il concetto. Dagli esempi sopra riportati è evidente che si tratta di immagini che richiamano specifici oggetti, sensazioni o concetti. Inoltre, nel caso degli ideogrammi il grafema assume anche una valenza storico-culturale poiché tali riferimenti sono non soltanto utili all’interpretazione semantica dei caratteri cinesi bensì hanno anche la funzione di testimoniare tracce di usanze e di pensieri della società del tempo in cui il termine è stato coniato.

Visti questi campioni, serve riflettere sulla derivante difficoltà dell’appren- dere, ricordare e riprodurre un sistema di scrittura come quello cinese. Una riflessione che potrebbe prender subito le mosse da un quesito abbastanza spontaneo per un non madrelingua cinese: perché la lingua cinese non ha mai adottato un sistema di scrittura alfabetico? Cos’è che ha trattenuto i parlanti dall’adozione di un “nuovo” sistema grafico?

Si sottolinei che i caratteri cinesi possono essere distinti in base alla loro funzione e tipologia di raffigurazione. Abbiamo già visto come alcuni carat- teri derivino direttamente dai pittogrammi e come altri siano un composto di elementi che suggeriscono, per associazione, un concetto astratto. Tuttavia, non mancano quelli che combinano agli elementi semantici quelli fonetici, caratteri definiti composti pitto-fonetici, presenti fin dal cinese antico. Già gli scribi antichi, seppur in misura molto inferiore rispetto ai giorni nostri,

utilizzavano espedienti fonetici nel conio di nuovi caratteri. Inoltre, poiché gli ideogrammi composti risultavano essere un insieme di più elementi abbinati per poter rappresentare un determinato concetto, si pensò di inserirvi anche un elemento grafico, appartenente ad un termine già noto, che fungesse da segnalatore fonetico e desse indicazioni circa la pronuncia. Tuttavia, quando la parte semantica veniva meno -al punto da non risolvere l’ambiguità facendo ricorso al contesto-, all’atto della resa grafica del carattere si doveva aggiunge- re almeno un richiamo semantico.

Questa pratica di semplificare i caratteri tradizionali e complessi sostituen- do alcuni dei loro elementi di significato con quelli di suono è stata poi adot- tata durante la semplificazione dei caratteri cinesi degli ultimi decenni voluta dal governo e avviatasi già durante i primi anni del Novecento. Il carattere in quei casi viene assemblato come un rebus e contiene indicazioni sia semanti- che sia fonetiche.

A questo punto del laboratorio sono stati mostrati caratteri cinesi aven- ti proprio queste caratteristiche, con lo scopo di evocare le intuizioni inter- pretative degli studenti. Tale esercizio ha fatto toccare con mano quanto già avvenuto nel corso della storia delle riforme del sistema di scrittura cinese4,

durante le quali si era già più volte visto che l’eccessiva semplificazione o il ricorso esclusivo all’elemento fonetico portava a uno stato di ambiguità irri- solvibile. Ciò è servito anche a dimostrare perché adesso, nel parlato, si ricorre sempre più alla formazione di termini bisillabici mentre, nella forma scritta, è spesso necessario lasciare comunque un elemento semantico chiamato radicale, proprio perché, come nelle lingue europee –anche se con maggiore vaghezza–, la radice della parola dà il suo primo significato (cfr. Zhao 2008).

La scrittura cinese antica presentava quindi tutte le informazioni necessarie alla comprensione durante la lettura. Sia che si dessero o meno indicazioni fonetiche, sia che risultassero o meno omofonie, osservando la struttura del carattere non si poteva incorrere in casi di ambiguità. Questa particolarità del cinese ha permesso una continuità della lingua scritta per migliaia di anni, regalando ai lettori contemporanei la capacità di interpretare, anche se spesso in maniera incompleta, testi antichi. Se si pensa ai sistemi di scrittura delle lingue europee, invece, basate su una corrispondenza diretta grafema-fonema ci si rende subito conto, pensando ad esempio all’inglese, del fatto che leggen- do i lavori di Shakespeare si incorre in differenze sostanziali rispetto all’inglese contemporaneo, sia dal punto di vista della pronuncia sia da quello semantico.

4. Di estremo interesse qui è guardare alla lunga storia della lingua cinese Cfr. Yong, Peng