Come anticipato nell’introduzione, la seconda parte di ogni capitolo è dedicata al rapporto tra la scrittura e la filologia, insistendo in particolare sulle risposte che quest’ultima ha saputo dare alla modificazione del suo oggetto di studio, ossia della scrittura stessa.
La filologia è una disciplina antica e la sua attenzione si è rivolta nei secoli alla lingua, alla civiltà e alla letteratura di un popolo o di un periodo storico; un suo ramo tuttavia ha beneficiato di particolare fortuna ossia la filologia testuale detta anche ‘critica del testo’. Le sue prerogative sono state lo studio del testo e la sua ricostruzione critica attraverso l’individuazione, la diagnosi e la cura dei guasti e dei fraintendimenti apparsi nel corso del tempo. A uno sguardo attento, tuttavia, si può riconoscere in ogni studio di stampo filologico l’avvicendarsi di due analisi parallele, quella sui testi e quella sulla cultura del periodo di riferimento. Ogni ricostruzione filologica richiede una comprensione approfondita del contesto storico in cui l’opera è nata; per questo motivo i principi della critica del testo offrono comunque validi sostegni anche per indagini di più ampio respiro.
Nata per scopi affini all’esegesi si confuse spesso con essa, tant’è che una precisa data di nascita della filologia è difficile da stabilire e ancor più lo è fornire una sua storia in diacronia. Ciò che si è inteso con il termine ‘filologia’ è variato nei secoli; di conseguenza è possibile indicare, ad esempio, Aulo Gellio come filologo poiché le sue Noctes Atticae possono essere considerate un buon prodotto di sensibilità critico-culturale. Ancora prima, non sarebbe errato considerare filologicamente meritevole il lavoro accurato degli storici di epoca alessandrina oppure riconoscere in Petrarca e Boccaccio, per presentare due pionieri della letteratura italiana, una attenzione di tipo filologico. Per comodità, tuttavia, si restringerà l’analisi alla «preistoria della critica testuale modernamente intesa»45 al fine di poter meglio comprendere le risposte che questa disciplina ha fornito nei confronti dei cambiamenti che hanno riguardato la scrittura.
La prassi per la pubblicazione critica di un testo è andata stabilizzandosi grazie al filologo classico Karl Lachmann (1797-1853). Alcuni precursori sono comunque stati artefici di una
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consuetudine d’approccio interpretativo ai testi che mancò solo della rigorosità che invece presentò il metodo menzionato. Prima di tale sistemazione, infatti, la norma per la revisione di un documento consisteva soprattutto in personali congetture e intuizioni; ad esempio fino alla metà dell’Ottocento mancò quasi universalmente la coscienza della necessità di inventariare l’intera tradizione di un testo e, parallelamente, non vi fu uno studio dedicato agli indizi che ogni singolo manoscritto poteva fornire nei riguardi della lingua dello scrittore o della cultura dell’epoca. Tra i precursori degni di menzione, un posto è occupato dal monaco benedettino Vincenzo Borghini, uno dei capiscuola del metodo ecdotico moderno; in vita si preoccupò di fornire una ricostruzione fedele dei testi e
rivelò tutta la sua competenza, esaminando con criteri sicuri la tradizione, valutando con precisione le diverse lezioni, ricostruendo la personalità, la cultura, le abitudini dei copisti. Le sue riflessioni sul problema dell’edizione dei testi in prosa del XIII e del XIV sono esposte lucidamente nelle
Annotazioni et discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron (1574) e nella
sua incompiuta Lettera intorno a’ manoscritti antichi; in quest’ultima le considerazioni sul testo del Decameron e sulla Cronaca del Villani toccano alcuni dei concetti nodali della filologia moderna e italiana.46
Dal Cinquecento in poi le ricerche storico-filologiche subirono una battuta d’arresto; nel mentre spesso si confezionarono nuovi e memorabili falsi letterari.
L’Italia mostrò un rilevante ritardo nella realizzazione di una filologia nazionale, soprattutto nei confronti della tradizione erudita germanica, tuttavia tale divario fu parzialmente sanato dagli anni Sessanta dell’Ottocento, quando si sviluppò un nuovo indirizzo di studio, la cosiddetta ‘scuola storica’, che ebbe tra i suoi migliori esponenti D’Ancona, Pio Rajna e in parte anche Carducci.
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L’interesse si dirige ovviamente al metodo del Lachmann in quanto costituì una vera e propria svolta nell’approccio ai testi manoscritti. È bene tener presente che esso non costituisce l’unica modalità di edizione di un testo, tuttavia la sua storia centenaria e i risultati ai quali approdò lo innalzarono a modello, almeno fino all’avvento della stampa.
Il metodo di Lachmann fu dunque la prima risposta scientifica al cambiamento della scrittura. Riassumendo brevemente, i suoi principi cardine sono essenzialmente due; quello della recensio, la cui base si fonda sul procedimento della eliminatio codicum descriptorum ossia nella eliminazione dei testimoni copia di altra copia posseduta, e quello della emendatio.
In sintesi si tratta, allora come oggi, di raccogliere i testimoni superstiti di un testo, di confrontare attentamente la lezione (o, con latinismo, collazionarlo), e, dopo aver operato la classificazione (con lo stemma) dei testimoni (e aver concluso la recensio), di individuare le lezioni che è lecito ritenere autentiche in base a un calcolo di maggioranza, e di risalire infine all’archetipo (il vertice della tradizione conosciuta); esaminato attentamente il quale sarà infine necessario applicare la divinatio (o congettura) per rimuovere gli ultimi errori e restaurare così l’originale. 47
Un simile orientamento ha mostrato negli anni la sua efficacia, ma anche la sua scarsa possibilità di impiego in numerosi casi; in particolar modo esso mal si adatta all’esame di testi a stampa per i quali spesso si possiedono numerose copie ‘originali’. Se per i testi medievali manoscritti la priorità risiedeva nella restaurazione della verità autoriale autografa, andando dunque a scalfire l’importanza del singolo testimone, il testo a stampa pone questioni, e impone soluzioni, alternative. Per quanto concerne la produzione letteraria antica, si può essere concordi nel valutare più urgente il ripristino di un testo piuttosto che la valorizzazione culturale delle sue varianti e dei suoi errori; e ciò poiché la distanza temporale dello scritto e spesso la sua autorevolezza, pongono il filologo
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nella condizione di voler ridare voce all’auctoritas, e considerare invece un’interferenza il lavoro dei copisti.
Un simile impianto
si applica con una certa efficacia alle opere della nostra letteratura antica (almeno sino all’avvento della stampa). In presenza di una tradizione plurima e in assenza di originali. Valicato il discrimine che separa il manoscritto dalla stampa, le mutate condizioni di trasmissione dei testi rendono meno cogente, più problematico, a volte inefficace il ricorso a questo tipo di procedure.48
Le insufficienze si mostrarono evidenti soprattutto nei casi in cui i filologi lavorino su una tradizione priva di stemmi plurimi. Se alcuni filologi, soprattutto di provenienza francese, furono capaci di rinnovarsi istituendo ad esempio il principio del codex optimus, la linea guida della ricerca filologica italiana, nonostante alcune meritevoli eccezioni, preferì ripararsi all’ombra del metodo lachmanniano andando a recuperare quella prassi e sostenendola con una storia della tradizione.
Per quanto il quadro di riferimento appaia oggi mutato e turbato rispetto a quello ottocentesco (un quadro ‘postlachmanniano’ o ‘neolachmanniano’, appunto), quasi mai la filologia italiana ha abdicato all’esame completo e caratterizzante della tradizione, all’analisi degli errori, al tentativo di risalire all’archetipo.49
L’evoluzione della disciplina, sia in Italia che in Europa, coincise con una tarda apertura di pensiero nei confronti delle stesse edizioni, provocata più dalla necessità che dalla volontà di rinnovamento. Le idee di recensione aperta e di contaminazione furono infatti portatrici di nuove problematiche e
48 Ivi, p.56. 49
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quindi fu necessario trovare proposte e soluzioni alternative. In particolar modo fu proprio il concetto di contaminazione a mettere in crisi la classificazione di Lachmann, giacché responsabile di una trasmissione variantistica non più verticale ma orizzontale.
Nei moltissimi casi in cui la contaminazione non permette più di individuare la fisionomia dei sub archetipi, la scelta della lezione da promuovere resta tutta interna al lavoro esegetico. [per fare un esempio] Il teso critico della Commedia (allo stato dei documenti) non può essere altro che una presentazione razionale delle varianti antiche.50
Se dunque il metodo lachmanniano, con le dovute postille, si pose come soluzione per i testi antichi e medievali, la questione cambiò parzialmente con quelli a stampa soprattutto moderni. Se i copisti di quei tempi non ebbero scrupolo di intervenire su un testo che non avevano scritto di loro mano, con l’era di Gutenberg e secoli successivi, tale tipologia di intervento diventa sempre meno diffusa. La loro stessa figura scompare, sostituita da quella del ‘compositore’.51
La nascita dell’idea di autore in senso moderno, con annessi responsabilità e diritti, ha modificato radicalmente la concezione del testo scritto e, di conseguenza, i filologi che di questo periodo si occupano incontrano ora varie redazioni stampate di uno stesso testo, bozze e copie redatte a mano da personalità più o meno autorevoli.
Il ramo della filologia che si occupa dell’ ’età della stampa’, fu in origine definita ‘bibliografia testuale’ e fu chiamata a risolvere problematiche almeno parzialmente differenti.
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GIORGIO INGLESE, Come si legge un’edizione critica, Roma, Carrocci, 1999, p.154.
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Sul suo ruolo: «Questi ha davanti a sé l’esemplare (una manoscritto a un’altra stampa, con eventuali correzioni a mano); letta e memorizzata una porzione di testo, prende i caratteri corrispondenti alle singole lettere (o a particolari gruppi di lettere) da un’apposita cassetta, e li dispone a rovescio fino alla misura di una riga; le righe corrispondenti a una pagina completa vengono legate insieme; più pagine sono unite in una forma, corrispondente a una faccia del foglio di carta […] e fissate nell’ordine richiesto. La forma viene inchiostrata e premuta sul foglio di carta per mezzo di un torchio. Di solito, a questo punto, il testo (bozza di stampa) viene riletto e si indicano al compositore i refusi da correggere». Ancora Inglese, p.27.
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L’idea di autore, simile a quella odierna, nasce non a caso con la parallela ‘chiusura’ dei libri. La nozione di libro chiuso e non modificabile, figlia appunto dell’invenzione della stampa, di cui si è trattato nei capitoli precedenti, ha portato con sé alcune novità tra cui il consolidamento del concetto di autore.
Soprattutto i secoli più vicini a noi, hanno fornito alla filologia un numero ingente di scartafacci da analizzare e talvolta decifrare e, di conseguenza, la disciplina stessa ha visto una specializzazione delle sue possibilità e dei suoi compiti.
La bibliografia testuale nacque ed ebbe fortuna in Inghilterra; l’atto della sua fondazione risale al 1914, anno in cui apparvero due articoli ad essa inerenti, nello stesso volume delle Transactions della Bibliographical Society of London.52 Secondo il parere di uno dei maggiori esponenti di questa disciplina, l’angloamericano Fredson Bowers, essa andrebbe tenuta distinta dalla critica testuale; tuttavia le due attività sono così intrecciate da rendere di difficile riconoscimento la linea di demarcazione che le separa.
La bibliografia testuale si relaziona da una parte con la filologia d’autore e dall’altra, talvolta, con il metodo classico lachmanniano; è per questo che le novità di tale materia risiedono soprattutto nella conoscenza specialistica dei sistemi di stampa antichi e moderni, dei suoi processi, dei suoi operatori e dei documenti disponibili per il filologo.
Il compositore talvolta poteva essere soggetto agli stessi tipi di errore di trasmissione che si possono rinvenire nella tradizione manoscritta, per esempio le interferenze linguistiche della lingua materna. La filologia che si occupa dei testi a stampa, in particolare di quelli antichi, è però chiamata a conoscere nel dettaglio anche le procedure di stampa al fine di chiarire, ad esempio, alcune variazioni grafiche che potevano interessare i testi.
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Cfr. CONOR FAHY, Introduzione alla bibliografia testuale, in CONOR FAHY, Saggi di bibliografia testuale, Roma, Antenore, 1988.
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Nelle trasmissioni a stampa le modifiche del testo più rilevanti dipendono da strategie d’intervento rispondenti a indirizzi che trascendono i singoli operatori, essendo in un certo senso pertinenti alla natura stessa del mezzo tipografico: i libri a stampa sono stati fin dalla loro origine dei prodotti industriali, i manoscritti mai. […] Su ognuna delle parole di cui è costituito il testo si riflette una responsabilità collettiva. Anzitutto lo stampatore, che è responsabile dell’intera organizzazione, poi il correttore-revisore, i compositori, i torcolieri. Ognuna di queste figure professionali contribuisce per la sua parte alla resa finale.53
Si presentano due esempi di variazioni interne al testo al fine di evidenziare come la filologia dei testi a stampa fu chiamata a rinnovarsi.
Il primo:
c’è un tipo di interferenza peculiare al lavoro tipografico, che deriva dalla necessità di giustificare il margine destro della stampa. L’unico espediente raccomandato dal Moxon nel 1683 per ottenere la giustezza desiderata era quello di variare il numero o lo spessore degli spazi bianchi fra due o più parole nella riga. Ma egli pensava soprattutto a testi stampati in lingua inglese. Per quelli in lingua italiana ce n’era un altro molto comune nella stampa del Quattrocento e della prima metà del Cinquecento, quello di introdurre -o di sciogliere- una o più delle molte abbreviature che l’italiano medioevale e rinascimentale aveva ereditato dal latino, e che erano in gran parte passate dal manoscritto alla stampa. Oltre a queste due possibilità, però, ce n’è una terza, forse disapprovata ma certo tollerata dai maestri stampatori di tutti i paesi nel Quattrocento, nel Cinquecento e in certi paesi anche più tardi, e cioè l’intervento sulla grafia in determinati ambiti, che variavano da lingua a lingua: per l’italiano i fenomeni più spesso interessati
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PASQUALE STOPPELLI, Introduzione, in PASQUALE STOPPELLI (a cura di), Filologia dei testi a stampa, Bologna, Il Mulino, 1987, pp.16-17.
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erano lo scempiamento e la geminazione delle consonanti e l’uso o l’eliminazione dell’elisione.54
Il secondo:
Talune delle varianti interne che s’incontrano in un libro antico hanno in verità un’origine meccanica, in quanto introdotte accidentalmente dai torcolieri nel corso o in conseguenza del processo dell’inchiostratura. Ma il gruppo più interessante è costituito dalla varianti «consce», che nascevano quando le correzioni, o le ultime correzioni, del correttore o dell’autore arrivavano in ritardo, mentre era già in corso la stampa della forma. In tali circostanze, non si esitava a interrompere la stampa per effettuare le correzioni indicate; ma, dato il costo ingente delle carta, che costituiva nei primi secoli della stampa l’elemento maggiore delle spese di produzione, non si distruggevano i fogli già stampati, e così, per forme corrette in questo modo, il testo veniva ad esistere in due stati, uno prima e uno dopo la correzione.55
Simili esempi, letti singolarmente, hanno un’importanza circoscritta ma sono utili per mostrare come al cambiamento della scrittura sia dovuto corrispondere, nella figura del filologo, un bagaglio di conoscenze almeno parzialmente dissimili; l’adeguamento dell’approccio critico al testo è dunque principio cardine nell’evoluzione della filologia.
Altra problematica (solo apparentemente minore) cui ha dovuto far fronte la disciplina, è l’ingente numero di fogli da collazionare per lo studio delle varianti. Il lavoro del filologo, forse per la prima volta, si è avvalso di strumenti tecnici per la semplificazione della sua attività.
Una delle prime macchine inventate per facilitare il confronto di più fogli è la cosiddetta Hinman
Collating Machine, ideata da Charlton Hinman, che tramite un sistema di lenti e specchi,
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Cfr. CONOR FAHY, Introduzione alla bibliografia testuale, in Conor Fahy, Saggi di bibliografia testuale, Roma, Antenore, 1988, p.46.
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permetteva la sovrapposizione delle pagine di due esemplari e quindi un confronto istantaneo tra le due, alleviando notevolmente il lavoro di collazione. Il progetto fu esportato e si trovano dispositivi simili in tutta Europa.56 È dunque evidente che l’introduzione della tecnica nella strutturazione della scrittura, cioè l’invenzione della stampa, ha avuto come conseguenza, il tentativo di utilizzare la tecnologia per risolvere le nuove questioni sopraggiunte.
Simile parallelismo sembra oggi scontato; ma a ben guardare lo è solo per i secoli che ci hanno preceduto; non sempre infatti si riconosce oggi la necessità che la filologia si doti di nuovi supporti tecnici se desidera proseguire l’analisi del suo oggetto di studio.
Il problema di dover confrontare un gran numero di testimoni tuttavia, è durato a lungo e le soluzioni non sono state mai univoche. Si è teso infatti, più che a risolvere e standardizzare la codifica di un testo stampato di cui si posseggono varie copie, a diversificare le possibili tipologie di edizione. I modelli di edizione utilizzati per i testi manoscritti antichi sono essenzialmente tre; quello meccanico che prevede una riproduzione tecnica del testo come una sorta di facsimile; quella diplomatico-interpretativo in cui il testo figura come quello realmente attestato e in apparato convergono gli emendamenti dell’editore, e quella critica in cui si ricerca più spesso ope ingenii che
codicum, la presunta forma originale. Simili approcci non sono agevoli per una tradizione per la
quale si possiedono numerosi testimoni come quella stampata,57 dove i testi pervenuti possono avere medesimo valore e le varianti58 sono più spesso indizio delle fasi di costruzione del testo piuttosto che errori da emendare. 59 Con le parole di Stoppelli:
56 Cfr. Ivi, p.53. 57
Altra problematica non minore è anche la stessa ricerca dei materiali bibliografici. La situazione italiana a riguardo non facilita il lavoro del filologo poiché elenchi dei libri stampati nei centri tipografici italiani sono limitati e spesso manchevoli. Il ‘filologo dei testi a stampa’ è chiamato dunque a possedere nozioni di bibliografia analitica. Egli dunque è chiamato anche a registrare correttamente e in maniera pre-stabilita i testi su cui lavora, tramite un sistema che, a ben guardare, non si distanza poi molto da quella stessa codifica che i linguaggi di markup possono fornire. Entrambi vanno a identificare un solo oggetto, lo descrivono e lo vorrebbero rendere disponibile alla collettività. Per la codifica delle risorse di veda il capitolo successivo, per questo argomento cfr. Ivi, pp. 54-55.
58 Lo stesso concetto di variante subisce una radicale trasformazione con l’avvento dei testi a stampa. Con essi, la
distinzione tra sostanziali e accidentali diventa urgente così come la consapevolezza che la prima edizione può non essere la più autorevole per entrambe le tipologie. Può infatti accadere che un’edizione scelta come base per il lavoro filologico non sia affatto quella più autorevole in materia di lezioni sostanziali. Per questo tema cfr. WALTER W. GREG.
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L’esistenza di varianti di stampa modifica anche i termini in cui va considerata l’edizione all’interno dello stemma. In queste condizioni ciò che noi consideriamo tradizionalmente come testimone non può essere il singolo esemplare, ma teoricamente l’insieme di tutti gli esemplari sopravvissuti di quell’edizione, in termini bibliografici appunto il suo esemplare ideale.60
La storia filologica italiana a tal proposito non è stata un terreno fertile di iniziative. A fine anni Ottanta, sempre Stoppelli così descriveva la situazione:
Se dunque la critica testuale italiana non ha posto con sufficiente determinazione il problema della specificità della filologia delle stampe rispetto alla filologia dei manoscritti, ciò è dipeso sì dal fatto che le sue prove più impegnative le ha sostenute in relazione agli scrittori dell’età pre- tipografica e che i risultati di quelle prove hanno finito per essere assunte come modello generale, ma in parte anche dal fatto che da noi gli orientamenti generali della ricerca letteraria non sono mai stati particolarmente favorevoli a un diverso indirizzo. Vi sono poi delle ragioni, per così dire, strutturali che, se non hanno impedito, certo non hanno incoraggiato una maggiore attenzione verso il mezzo tipografico. Mi riferisco allo stato della catalogazione e dell’informazione bibliografica in
Il criterio del testo-base, in PASQUALE STOPPELLI (a cura di), Filologia dei testi a stampa, Bologna, Il Mulino, 1987,
pp.33-53.
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Anche la stemmatica tradizionale è messa in crisi dai testi a stampa. Ad esempio il seguente stemma assume valenza differente a seconda che esso sia applicato a una tradizione manoscritta o a una a stampa.
« Se applicato alla trasmissione manoscritta, indica che i due codici B e C sono stati entrambi esemplati su A, da cui differiscono soltanto per errori di trasmissione. Nella prassi editoriale corrente, B e C sono classificati come codices descripti, e eliminati dalla recensio. Ma se applichiamo lo stesso schema alla trasmissione a stampa, la