• Non ci sono risultati.

Luca Ronconi ha diretto anche molti allestimenti lirici (più di cinquanta) dalla fine degli anni sessanta fino ai giorni nostri, dall’Arlecchino ovvero le finestre di Ferruccio Busoni del 1967 all’Armida di Rossini del 2014.

La definizione di regia d’opera – afferma il regista – in generale mi dà ai nervi, perché credo sia artificiale. Non penso affatto che esista una regia d’opera, come ho detto tante volte, come non credo esista una regia di prosa, ma esistono tanti modi di fare regia quanti sono i testi, quanti sono gli spettacoli e quante sono le circostanze e le commissioni165.

Nonostante questo principio sia sacrosanto a livello generale, è innegabile che le differenze tra il teatro di prosa e quello lirico ci siano e che, di conseguenza, indirizzino la regia verso un determinato modo. Basti pensare alla struttura architettonica del teatro all’italiana, che comprende, a differenza della prosa, la buca dell’orchestra; al fatto che gli attori-cantanti debbano avere sempre ben visibili le indicazioni del direttore d’orchestra, o infine a certi movimenti o certe posizioni che i cantanti non possono compiere mentre sono impegnati nel canto. Ma ancora di più il teatro d’opera (giustamente o ingiustamente) è forse la forma più legata al concetto di tradizione: “[…] in fondo la maggior parte degli spettatori va all’opera per vedere quello che già conosce e non invece per assistere alla

162

G. Manin, Ronconi: metto in scena l’incertezza del futuro, «Corriere della sera», 4 gennaio 2013.

163

L. Ronconi in un’intervista a cura di E. Tuccino, andata in onda nel programma A regola d’arte: La casa

di Luca Ronconi andata in onda su Leonardo Tv.

164

A. Fontana e O. Ponte Pino, Semplicemente complicato: Luca Ronconi al Teatro Stabile di Torino in A. Fontana e A. Allemandi (a cura di), Luca Ronconi: gli spettacoli per Torino cit., p. 31.

165 L. Ronconi in A. Bentoglio, Ronconi e la lirica, in I. Innamorati (a cura di), Luca Ronconi e il suo teatro:

35

trasformazione di quello che già conosce in qualcosa di diverso.”166 Ne è un esempio emblematico la sua Aida del 1986:

Probabilmente l’irritazione che può aver provocato in alcuni la mia Aida, non era per non aver ritrovato l’Egitto, perché è indiscutibile che ci fosse, e neppure di non aver ritrovato l’Egitto dell’Aida; ma di non aver ritrovato […] quel tipo di Egitto che fa di certi spettatori degli spettatori competenti167.

Questa sorta di “richiesta mascherata” da parte del pubblico di “vedere il già visto” non ha certo frenato la creatività di Ronconi, che, malgrado alcuni limiti, ha offerto degli spettacoli originalissimi. Il suo sguardo si è concentrato principalmente sullo spazio scenico. Quest’ultimo assume una nuova rilevanza, non più come contenitore per il messaggio del regista, ma piuttosto un modo “per commentare – a volte con arguta ironia -, completare esaurire ciò che il libretto suggerisce”168

.

Da un lato, il palcoscenico è considerato come uno spazio vuoto all’interno del quale nasce un altro spazio, destinato e separato da quello, un “contenitore per l’azione”, d’altro lato, tale spazio è interamente concepito come una “macchina” teatrale che diventa un prolungamento spaziale del corpo dell’attore-cantante che contro, dentro e intorno a essa sviluppa la sua azione169

.

Ne sono degli esempi il Viaggio a Reims di Rossini del 1984, dove viene abolito il sipario, per collegare palcoscenico e platea tramite l’aggiunta di due bracci che fiancheggiano la buca dell’orchestra, oppure nell’Orfeo di Luigi Rossi dove i cantanti invadono la platea, mettendo in scena un attacco al palco reale. Ma, come accennato in precedenza, non si tratta di accorgimenti fine a se stessi per mettere un marchio di originalità alla messinscena, ma sono deduzioni estrapolate dalla lettura del libretto. Così il

Wozzeck di Alban Berg del 1977.

In collaborazione con Gae Aulenti, Ronconi ha concepito la struttura scenica dell’opera come un’estesa “macchina” inclinata, in continuo movimento che attraversa interamente la superficie del palcoscenico immerso in un buio quasi totale: un tapis roulant impregnato di fango che scorre e fa precipitare verso una grata (forse lo scarico di una fogna) tutto quello che trasporta. Con tale espediente il regista sottolinea la cruda violenza del racconto: il fiume fangoso rappresenta la realtà storica e il destino dell’umanità che può solo scorrere verso il basso170.

Inoltre Ronconi sceglie di ambientare le sue opere nell’epoca in cui sono state scritte, e non nell’epoca propria di ciascuna storia. Basta pensare a Il crepuscolo degli Dei di Wagner, dove i costumi sono di età vittoriana. Non sono mancate critiche per tali scelte, ma neanche elogi entusiasti.

Qualunque cosa si possa pensare dei risultati ottenuti, siamo di fronte a un evento teatrale di sommo interesse, non inferiore agli esperimenti che a Bayreuth si vengono facendo dacché i nipoti di Wagner hanno raccolto la direzione del festival dalle mani conservatrici dei loro avi171.

166 Ivi, p. 27. 167 Ibidem. 168 Ivi, p. 30. 169 Ivi, p. 28. 170 Ivi, p. 29. 171

36

Ronconi ha diretto numerose opere liriche dei compositori più famosi; da Strauss a Mozart, da Verdi a Rossini, arricchendola con la sua creatività, sempre in sintonia con il suo concetto di rispetto del testo.

Il rispetto del testo spesso viene identificato con la riverenza all’autore: non è la stessa cosa. […] se trattiamo un’opera di Mozart, in cui l’eroe è un libertino, e dove l’adattamento della materia da parte di Mozart è di carattere intimistico, è da vedere se sia più lecito rappresentare sul palcoscenico non ciò che riteniamo essere corrispondente all’illuminismo in scena ma, viceversa, quello che riteniamo essere corrispondente alla materia trattata; se, ad esempio, la musica di Mozart non vada liberata anziché messa in scena. Il Don Giovanni è stato assai discusso e contestato; se ciò è avvenuto per motivi puramente tecnici (“non mi piaceva”; “era brutto”) mi va benissimo, ma se è stato così per il rispetto dell’opera, allora no. Perché ritengo che l’opera sia rispettata se la musica viene liberata e non doppiata sul palcoscenico172.

La scena del Trovatore di Verdi del 1977 sembra voler sottolineare in pieno questa idea. Una sorta di distacco, secondo Mario Bortolotto, “come se [Ronconi] presentasse un saggio sull’opera”173

[…] la didascalia del quarto atto recita: “Orrido carcere”. Questo carcere era rappresentato da colonne luminose e specchi, insomma un ben di dio che, però, non dava affatto l’impressione dell’allegria ma di una malinconia profonda. In questo si ritrova l’essenza malinconica, per quanto lo è, della musica verdiana174.

Nonostante le norme che caratterizzano il teatro d’opera, Ronconi non ha mai messo in dubbio la sua importanza, anzi ha trattato le sue rappresentazioni con il rispetto che gli sono dovute. Al contrario il teatro lirico non ha mancato di offrire spunti e riflessioni al regista.

La regia operistica per me è molto importante anche se da una parte mi arricchisce e dall’altra mi toglie. Nell’opera lirica è fondamentale lo “scarto” che esiste tra il testo e la scrittura musicale. Ecco io sono abituato a lavorare in questa crepa che non abbiamo nel teatro di prosa proprio perché come registi demiurghi ci si è abituati a fare quello che ci pare, cioè a trattare Strindberg come se fosse Verga e Verga come se fosse Molière. È stata quindi, la mia, una esperienza di disciplina175.

172

L. Ronconi in I. Innamorati (a cura di), Luca Ronconi e il suo teatro: settimana del teatro 8-15 aprile

1991 cit., p. 159.

173 M. Bortolotto in F. Quadri, A. Martinez (a cura di), Luca Ronconi: la ricerca di un metodo, Milano,

Ubulibri, 1999, p. 87.

174

Ibidem.

175 L. Ronconi in M. G. Gregori (a cura di), Il signore della scena: regista e attore nel teatro moderno e

37 Capitolo II – Hieronymus Bosch

Documenti correlati