SOMMARIO: 2.1: La previdenza complementare e il ruolo chiave del TFR – 2.2: L’andamento della previdenza complementare – 2.3: L’obbligatorietà come soluzione per la definitiva diffusione della previdenza complementare
Dopo aver illustrato nel precedente capitolo lo sviluppo della normativa previdenziale dalle sue origini fino ai giorni nostri, legando le principali riforme ai cambiamenti intervenuti in ambito demografico, economico e finanziario, è emersa la necessità, per ogni lavoratore, di aderire a forme previdenziali aggiuntive a quella pubblica. Come già ampiamente esplicitato, la rivisitazione delle percentuali di sostituzione avuta con le riforme che si sono succedute nel tempo è stata importante e ha causato una diminuzione sostanziale delle pensioni erogate, inoltre, il meccanismo a capitalizzazione su cui poggia oramai l’intero sistema previdenziale ha come variabile fondamentale il tempo per cui ogni soggetto, per far fruttare i capitali che vengono accantonati, ha bisogno di una fase di accumulo adeguatamente lunga; è dalla somma di questi due fattori che emerge in modo chiaro l’importanza dell’adesione fin da giovani ad un forte secondo pilastro in grado di garantire ciò che lo Stato non può più riconoscere. Proseguendo nell’analisi del sistema previdenziale diviene a questo punto fondamentale focalizzare l’attenzione allo stato di sviluppo della previdenza complementare, quel sistema privato, libero e volontario incentivato per sopperire alle mancanze dello Stato.
Obiettivo di questo secondo capitolo è perciò quello di illustrare dapprima la struttura della previdenza complementare, andare ad approfondire la diffusione e l’andamento presso i lavoratori di questo istituto utilizzando gli ultimi dati disponibili contenuti nella relazione fornita dalla Covip ed esplicitare il ruolo chiave del TFR sia attualmente che in prospettiva futura come strumento indispensabile a realizzare quel versamento costante per alimentare un consistente secondo pilastro previdenziale.
2.1: La previdenza complementare e il ruolo chiave del TFR
Con il termine previdenza complementare s’intende quella disciplina che permette di accantonare in modo regolare una parte dei propri risparmi lungo il corso della vita lavorativa con l’obiettivo di ottenere una pensione che vada ad incrementare quella che sarà erogata, raggiunti i requisiti per il pensionamento, dagli enti di previdenza obbligatoria Inps, Inpdap ecc. È una forma di risparmio previdenziale di tipo libero e volontario, anche se lo Stato, dato che non è più in grado di garantire gli ingenti livelli di copertura previdenziale a cui aveva abituato le generazioni passate fino agli anni ’90, secondo il comma 29 della recente riforma Fornero, “ha l’obbligo di incentivarla e
stimolarla fin dalla giovane età, elaborando iniziative finalizzate a rendere consapevoli i lavoratori in merito alla propria posizione previdenziale”. Questo perché le riforme
che si sono susseguite nel corso degli ultimi vent’anni sono state molte e, soprattutto, hanno apportato modifiche strutturali la cui portata non è di semplice comprensione da parte di tutti i lavoratori. Infatti, sono molti quelli che, sottovalutando i possibili problemi futuri, non hanno ancora chiari quali siano, ad esempio, i requisiti per il pensionamento, le regole di determinazione dell’ammontare dell’assegno pensionistico che gli verrà corrisposto oppure il relativo tasso di sostituzione dall’ultima retribuzione. Ciò che è chiaro è che le prestazioni pensionistiche pubbliche sono state ridimensionate, soprattutto in una prospettiva di medio-‐lungo periodo e per quanto riguarda le nuove generazioni.
Per ovviare alle evidenti problematiche e stimolare questa opportunità di risparmio, ora più che mai necessaria con l’entrata in vigore per tutti del sistema contributivo, la filosofia di fondo del legislatore è stata quella, come ricordato anche da Chinetti, di “attuare un progressivo e parziale spostamento della copertura previdenziale dai
sistemi obbligatori pubblici a forme pensionistiche complementari di tipo contrattuale”54 agevolando l’adozione di questo sistema misto riconoscendo delle
agevolazioni fiscali di cui non godono altre forme di risparmio; queste agevolazioni contemplano un’importante deduzione dal reddito dei contributi versati alla previdenza complementare, una minor tassazione dei proventi finanziari realizzati
54 Chinetti P., Previdenza integrativa e fondi pensione, Cap. 1, In che cosa consiste la previdenza complementare, Edizioni Fag, Milano, 2000, Pag. 15.
per garantire maggiori rendimenti e infine rende valide le agevolazioni anche nel caso si vogliano effettuare versamenti in favore di familiari a carico. Infatti, la previdenza complementare è destinata a tutti i lavoratori, siano essi dipendenti del settore privato, del settore pubblico, siano lavoratori autonomi o liberi professionisti. Inoltre, le recenti modifiche hanno permesso l’adesione anche a coloro i quali sono legati da un’altra tipologia di contratto, ad esempio lavoratori a progetto od occasionali, ai soggetti che non hanno un’occupazione oppure a quelli che sono fiscalmente a carico di un familiare che aderisce alla previdenza complementare55.
Il sistema della previdenza complementare si affida a più forme pensionistiche che hanno l’obiettivo di raccogliere il risparmio previdenziale che, venendo investito nei mercati finanziari, consente di erogare una prestazione complementare al momento della pensione. Queste forme pensionistiche complementari operano, come da definizione di Cinelli, “secondo criteri di corrispettività e in base al principio della
capitalizzazione” 56 il che configura un sistema di genere assicurativo-‐finanziario che
vede nella vecchiaia un rischio che va amministrato individualmente. Il principio della capitalizzazione, come definito da Bessone, prevede che ogni persona, a differenza del sistema a ripartizione, “costituisca individualmente una posizione pensionistica
attraverso il versamento di risparmio a scopo previdenziale ad un soggetto che ne curi una gestione di lungo periodo. Raggiunti i requisiti per il pensionamento verrà corrisposta da questo soggetto scelto una rendita o un capitale nell’ammontare consentito dai risultati della gestione del portafoglio previdenziale” 57. Queste forme
pensionistiche si basano normalmente sul regime della contribuzione definita, nel quale il montante accantonato dipende dall’ammontare dei contributi versati, dalla durata dei versamenti nel tempo e dai rendimenti che, al netto dei costi di gestione, lo strumento scelto è in grado di garantire attraverso l’investimento dei contributi versati sui mercati finanziari. Ai lavoratori autonomi viene anche offerta la possibilità
55 COVIP, Guida introduttiva alla previdenza complementare, 2009, Pag. 7.
56 Cinelli M., Diritto della previdenza sociale, Cap. 15, La previdenza complementare, Giappichelli editore, Torino, 2007, Pag. 560.
57 Bessone M., Previdenza Complementare, Cap. 1, Previdenza complementare e fondi pensione, lineamenti generali della disciplina, Giappichelli editore, Torino, 2000, Pag. 4.
di scegliere strumenti a prestazione definita in cui, ad essere certo, non è più l’ammontare della contribuzione ma il montante finale al quale si vuole arrivare.
2.1.1: Il ruolo strutturale e le fonti normative della previdenza complementare
L’avvio dell’operatività delle forme di previdenza complementare privata a capitalizzazione, in modo da integrare le minori prestazioni ormai attese dal sistema pubblico, si colloca con l’emanazione della legge 421 del 1992. All’art. 3, primo comma, lettera v, la norma delegava infatti il governo “ad emanare uno o più decreti, in modo da realizzare un riordino del sistema previdenziale”. C’era la necessità, su cui già più volte ci siamo soffermati, “di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e
PIL” e, per garantire trattamenti più equi, si è resa necessaria una sostanziale riforma
del sistema. L’obiettivo era “favorire la costituzione di forme di previdenza collettiva o
individuale per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari da attivarsi su base volontaria”. È con le norme del decreto legislativo 124 del 21 aprile 1993 che il
legislatore scelse di costituire un sistema previdenziale misto, regolamentando un nuovo pilastro accanto a quello costituito dalla previdenza di base seguendo la logica dell’art. 38, 2° comma della Costituzione. Nacque così il secondo pilastro previdenziale, sulla spinta dei principi assicurativi previsti dalla Costituzione repubblicana; infatti, la norma di apertura del decreto legislativo 124 pone come obiettivo da perseguire “l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del
sistema obbligatorio pubblico in modo da assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”. A rendere possibile tutto ciò dovevano provvedere i c.d. fondi
pensione, definiti da Bessone come “organizzazioni di soggetti, attività e di mezzi
finanziari che operano a scopo di erogazione di trattamenti pensionistici complementari” 58.
La previsione della possibilità di aderire a forme pensionistiche individuali è invece più recente e si deve alle disposizioni del nuovo art. 9 bis e ter, aggiunte al decreto legislativo 124 dalla norma dell’art. 2 del decreto legislativo n. 47 del 18 febbraio 2000. Queste modifiche intervenute alla disciplina permettono anche alle imprese di assicurazione di entrare a far parte del sistema di previdenza complementare
58 Bessone M., Previdenza Complementare, Cap. 1, Previdenza complementare e fondi pensione, lineamenti generali della disciplina, Giappichelli editore, Torino, 2000, Pag. 7.
attraverso la stipula di contratti di assicurazione sulla vita. Inoltre, permette anche a chi non sia titolare di “reddito da lavoro o di impresa” di aderire a fondi pensione. Nonostante tutte queste disposizioni, il pilastro complementare nel corso degli anni ha avuto una scarsa diffusione tra i lavoratori che, come abbiamo visto anche nel primo paragrafo di questo capitolo, hanno preferito molto spesso indirizzare il proprio risparmio verso forme alternative. Data l’assoluta necessità venuta però a crearsi a seguito delle riforme della previdenza di base sempre più tese ad una razionalizzazione del sistema obbligatorio e a una responsabilizzazione dei singoli lavoratori, il governo ha cercato di promuovere e incentivare l’adesione di massa dei lavoratori al fine di far decollare la previdenza complementare attraverso l’emanazione del decreto legislativo n. 252 del 5 dicembre 2005 che ha sostituito quasi integralmente le disposizioni fino ad allora vigenti. Questo intervento, che ha previsto tra l’altro l’equiparazione delle diverse forme pensionistiche complementari, l’istituzione di un’autorità di vigilanza, la deducibilità dei contributi e le regole in materia di anticipazioni, trasferimenti e riscatti, ha come punto cardine il conferimento del trattamento di fine rapporto dei lavoratori dipendenti ai fondi pensione. È questa la soluzione al problema della necessità d’integrazione delle minori prestazioni previdenziali pubbliche che il legislatore ha di fatto privilegiato, andando a delineare un sistema che, anche con modalità tacite di adesione, trascorsi i sei mesi dal momento dell’assunzione, obbliga la presa di decisione da parte del singolo lavoratore riguardo alla destinazione del TFR che altrimenti può anche mantenere in azienda. Inoltre, veniva fissata nel 30 giugno 2007 la data finale entro la quale i lavoratori dovevano decidere in merito alla destinazione del proprio TFR e, con l’obiettivo di non creare troppi problemi all’equilibrio patrimoniale e finanziario delle imprese gravate dalla fuoriuscita di questo capitale, ha previsto delle misure fiscali compensative per le imprese stesse.
Si delinea così l’attuale struttura della previdenza complementare che si regge in parte sulla destinazione del TFR maturando ai fondi pensione e in parte sulla destinazione di risparmio a scopo previdenziale a forme di previdenza individuale di tipo assicurativo.
2.1.2: Le forme pensionistiche complementari
Le forme pensionistiche complementari alle quali abbiamo fatto più volte riferimento si possono suddividere in diverse categorie, a seconda dei soggetti che le costituiscono oppure che possono aderirvi. Ciascun soggetto, infatti, può scegliere il tipo di forma al quale versare il proprio risparmio secondo il principio della libertà individuale di adesione; libertà di adesione non implica, però, assoluta libertà di scelta, difatti, una volta aderito a una di queste forme, non vi è libertà recesso; è invece possibile scegliere incondizionatamente la forma più gradita anche se c’è un limite temporale di almeno due anni di permanenza per avere la possibilità di mutare la destinazione del proprio risparmio.
Le forme pensionistiche che possono essere scelte si suddividono tra fondi pensione o piani individuali pensionistici. Mentre le forme pensionistiche individuali non sono altro che un contratto di assicurazione sulla vita stipulato, in modo individuale, con una compagnia di assicurazione o con una banca autorizzata, per quanto riguarda i fondi pensione diverse sono le tipologie. Si trovano fondi negoziali, i c.d. fondi chiusi, in quanto istituiti da rappresentanti dei lavoratori su base aziendale datori di lavoro nell’ambito della contrattazione nazionale, di settore o aziendale oppure in base ad accordi tra datori di lavoro e lavoratori appartenenti a un determinato territorio o area geografica. Ne derivano fondi istituiti su base aziendale, per categoria o professione oppure per area geografica. Destinatari di questi fondi sono solo i lavoratori dipendenti, sia privati che pubblici, ai quali il fondo si rivolge sulla base dell’appartenenza ad una determinata categoria tra quelle sopracitate. Sono fondi ad adesione collettiva la cui attività consiste essenzialmente nella raccolta delle adesioni e dei contributi, nell’individuazione della politica di investimento delle risorse la cui attuazione viene affidata a soggetti esterni specializzati nella gestione finanziaria come Banche, Assicurazioni o SGR ed, infine, nell’erogazione delle prestazioni.
Altra categoria di fondi sono i c.d. fondi aperti, il cui nome deriva dalla possibilità di aderirvi concessa a qualsiasi lavoratore, senza alcun vincolo di appartenenza aziendale, categoriale o professionale. Vengono istituiti su iniziativa di intermediari finanziari che vengono autorizzati espressamente a fornire l’attività dalla Banca d’Italia e dalla Consob, superato un procedimento di autorizzazione; si identificano in banche, società di intermediazione mobiliare (SIM), assicurazioni e società di
gestione dei fondi comuni di investimento che, oltre ad istituire il fondo ne ha in mano anche la gestione finanziaria. Il capitale raccolto e investito costituisce un patrimonio separato ed autonomo rispetto a quello della società secondo l’art. 22 del Testo Unico della Finanza, che viene finalizzato esclusivamente all’erogazione delle prestazioni previdenziali e non potrà essere attaccato dai creditori della società nell’eventualità di un suo, seppur improbabile, fallimento.
Un’ultima categoria di fondi pensione prende il nome di fondi preesistenti; sono forme pensionistiche complementari così chiamate perché istituite già prima del Decreto Legislativo 124 del 1993 che ha disciplinato, per la prima volta, la previdenza complementare. L’adesione a questa tipologia di fondo avviene su base collettiva e l’ambito dei destinatari è individuato dagli accordi o contratti aziendali o interaziendali. Tali fondi presentano caratteristiche peculiari rispetto ai fondi istituiti successivamente.
Ogni fondo disporrà poi di più linee d’investimento che consentono all’aderente di scegliere il giusto grado di rischio che intende sopportare. La gamma di possibilità è, infatti, vasta e va da linee completamente obbligazionarie prive di rischio e completamente garantire fino a spingersi a linee d’investimento totalmente azionarie e quindi altamente volatili.
Tutte le risorse raccolte e investite dai fondi pensione, oltre a costituire come detto patrimonio distinto e autonomo da quello delle società a garanzia di solvibilità del fondo, devono anche essere depositate presso una banca c.d. “depositaria”, distinta dal gestore, in modo da prevenirne usi impropri. La banca suddetta è obbligata a compiere le istruzioni impartite dal fondo ma verificando che le stesse non siano contrarie alla legge, allo statuto del fondo e ai criteri d’investimento. È perciò responsabile per le operazioni che compie il fondo e offre un’ulteriore tutela ai soggetti che decidono di aderire alla previdenza complementare.
La tutela degli aderenti è salvaguardata anche dall’autorità preposta alla vigilanza sui fondi pensione, per l’appunto denominata “Commissione di vigilanza sui fondi pensione”. È un’autorità con personalità giuridica di diritto pubblico che svolge le funzioni di controllo sulle attività che sono compiute dai fondi e monitora l’andamento del mercato cercando di stimolarne l’espansione. L’attività di controllo viene svolta affinché siano rispettate le leggi per quanto riguarda l’ambito di
riferimento dei fondi pensione mentre sono riservate alle tradizionali autorità di regolazione dell’economia finanziaria le funzioni di controllo delle attività svolte da banche, assicurazioni e SIM. La vigilanza su queste imprese è quindi svolta, secondo le regole di ripartizione delle competenze e a seconda degli obiettivi del controllo disposti dalla loro generale normativa, dalla Banca d’Italia, dalla Consob e dall’Isvap.
2.1.3: La contribuzione e il conferimento del TFR
Il finanziamento delle forme di previdenza complementare ha subito notevoli modifiche con la riforma attuata dal d. lgs. n. 252 del 2005. Sostituendo quasi integralmente il d. lgs. n. 124 del ’93 ha permesso la contribuzione alle diverse forme sia ai lavoratori, principali destinatari della disciplina dei fondi pensione, sia ai datori di lavoro che ai lavoratori autonomi o parasubordinati59. Però, dato che i regimi di
previdenza complementare necessitano dell’utilizzo di risorse finanziarie aggiuntive rispetto a quelle assorbite dal sistema previdenziale di base, solo i lavoratori che fanno parte delle categorie economicamente più forti sono in grado di attuare una contribuzione importante in modo continuativo. Si crea perciò un problema, in quanto è riscontrato che, “in assenza di consistenti integrazioni, il puro e semplice
versamento di contributi previdenziali è di per sé impossibilitato a garantire una sufficiente consistenza della posizione economica complementare” 60. Se da un lato gli
autonomi e i liberi professionisti hanno sempre avuto un trattamento pubblico più svantaggioso e fin dalla giovane età hanno la consapevolezza di dover attuare una contribuzione alternativa con una percentuale del reddito dichiarato ai fini IRPEF, per quanto riguarda i contributi versati dai dipendenti, la situazione si complica: mentre la contribuzione dei lavoratori subordinati del settore pubblico “deve essere definita
in sede di determinazione del relativo trattamento economico, secondo procedure coerenti alla natura del rapporto di impiego”61, per i dipendenti privati il legislatore ha
59 D.lgs. 5 Dicembre 2005, n. 252, Art. 8.
60 Bessone M., Previdenza Complementare, Cap. 1, Previdenza complementare e fondi pensione, lineamenti generali della disciplina, Giappichelli editore, Torino, 2000, Pag. 17.
privilegiato la destinazione dell’accantonamento annuale del trattamento di fine rapporto62.
Il TFR è stato previsto dal codice civile nell’art. 2120 con le modifiche apportate dalla legge n. 197 del 1982; si identifica come una retribuzione differita, che viene corrisposta al lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro e commisura alla retribuzione percepita durante il periodo di servizio presso il medesimo datore di lavoro. Conosciuto in passato più popolarmente con il termine di liquidazione, spetta a tutti i lavoratori dipendenti compresi, dal 1996, i dipendenti del settore pubblico. Non è previsto per i rapporti di Co.co.pro. ed in genere, per i rapporti di lavoro autonomo. Parlando di TFR, è importante sapere che corrisponde al 6,91% della retribuzione utile anche se l’azienda sostiene effettivamente un costo del 7,41% dovendone versare all’INPS lo 0,50% immediatamente. Ne consegue che ogni anno, la quota di TFR accantonata, corrisponde a circa una mensilità dello stipendio.
I motivi della scelta del legislatore in merito all’utilizzo di questa componente della retribuzione sono di vario genere: innanzitutto, come già confermato, è solo con l’uso dei periodici accantonamenti di questo trattamento che si rende concretamente possibile formare quella “massa critica”, quell’ingente stock di risorse finanziarie aggiuntive, che è necessario accantonare per un utile, decollo della previdenza complementare. Inoltre, si tratta di una forma d’impiego che, se non immediatamente ma almeno nel medio-‐lungo termine, dovrebbe garantire importanti vantaggi sia per i singoli lavoratori sia per la collettività; infatti, la confluenza degli accantonamenti periodici del TFR ai fondi pensione, teoricamente, dovrebbe assicurare dei rendimenti maggiori ai singoli lavoratori. Questo perché, mentre la quota che viene accantonata in azienda gode di una rivalutazione annua ogni 31 dicembre pari a 1,5% in misura fissa più il 75% dell’inflazione (aumento dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati), calcolata attraverso il regime dell’interesse semplice, escludendo perciò il cumulo degli interessi, la quota destinata a iniziative di previdenza complementare viene rivalutata dagli interessi che il gestore è in grado di corrispondere attraverso l’impiego in iniziative redditizie delle
62 Art. 1. Comma 2. Lett. e, nn. 1 e 2. Legge n. 243 del 2004, nell’attuazione datane dal D. lgs. n. 252 del 2005 modificato e integrato dalla Legge n. 296 del 2006.
risorse finanziarie raccolte. In più, il calcolo degli interessi avviene attraverso il regime finanziario dell’interesse composto, il che include nel capitale da rivalutare anche gli interessi passati che subiscono di anno in anno una rivalutazione. Inoltre, lo sviluppo dei fondi pensione e del relativo mercato si presta ad alimentare nuovi canali finanziari che incentivino lo sviluppo delle attività produttive e, conseguentemente, l’occupazione, garantendo benefici a tutta la collettività63.
La scelta di puntare sul TFR come strumento per un definitivo decollo della previdenza complementare è divenuta operativa con l’accordo dell’autunno 2006 tra il Governo Prodi e le parti sociali, Confindustria e sindacati, che ha anticipato di un anno, al 1° gennaio 2007, la data di attuazione della riforma della previdenza integrativa prevista dal D.lgs. del 2005. La normativa, prevede la possibilità per i