SOMMARIO: 4.1: L’equilibrio finanziario tra fonti e impieghi – 4.2: L’autofinanziamento o “finanziamento da indebitamento” – 4.3: Autofinanziamento e Capitale Circolante Netto (CCN) nelle dinamiche del flusso di cassa – 4.4: Il peso del TFR nell’autofinanziamento e l’ipotesi di un suo passaggio obbligato ai fondi pensione
La valutazione dell’ipotesi di obbligo dei dipendenti al versamento del TFR ai fondi pensione con il duplice obiettivo di far decollare definitivamente la previdenza complementare e di aprire un innovativo canale di finanziamento specifico per le piccole e microimprese, passa attraverso l’analisi del peso del TFR nella gestione delle dinamiche monetarie e finanziarie dell’impresa. Infatti, come è stato più volte esplicitato durante la trattazione, l’ipotesi sarà considerata plausibile solamente nel caso in cui non vada ad intaccare negativamente l’equilibrio finanziario di imprese già alle prese con evidenti problemi legati all’accesso al credito.
Per questo motivo, dopo aver classificato le poste di bilancio distinguendole tra impieghi e fonti, utilizzando il criterio della pertinenza gestionale per illustrare l’azione del capitale circolante netto (CCN), è stato possibile evidenziare su quali grandezze si regge l’equilibrio finanziario. A questo punto l’attenzione è stata rivolta al fenomeno dell’autofinanziamento per indagare in che modo si generi e come influenzi l’equilibrio stesso assumendo il ruolo di vera e propria fonte interna di finanziamento.
L’analisi così svolta è servita per indagare dapprima il modo in cui il TFR interviene ad influenzare la formazione dell’autofinanziamento e, in seguito, il sistema attraverso il quale questa grandezza è in grado di generare dei benefici nelle dinamiche del flusso di cassa con l’obiettivo di valutare un suo possibile utilizzo innovativo come duplice soluzione sia dei problemi previdenziali dei lavoratori, sia dei problemi finanziari delle imprese, entrambi più volte espressi all’interno dei capitoli precedenti.
4.1: L’equilibrio finanziario tra fonti e impieghi
Per comprendere appieno il ruolo strategico che assume il TFR è necessario, innanzitutto, riprendere il meccanismo di funzionamento di un’impresa classica; brevemente, qualsiasi tipo di azienda, sia essa di produzione o di servizio, attua in maniera continua e ripetitiva processi produttivi, ossia attività di acquisto, trasformazione e vendita, evidentemente più marcati per le prime e meno evidenti nelle seconde. In ogni caso, questo insieme di attività, che conduce alla creazione di un bene o di un servizio, genera dei fabbisogni a seguito degli investimenti in struttura e in capitali a veloce rotazione. Tali fabbisogni devono essere finanziati con fonti che possono derivare o dal capitale proprio o dal capitale di terzi, in misura adeguata al tipo di necessità che vanno a coprire ed in proporzioni tali da evitare eccessivi livelli d’indebitamento. Si vedrà in seguito che, a questi due principali canali di finanziamento, se ne aggiunge un altro che è originato dal funzionamento del ciclo produttivo stesso e prende il nome di autofinanziamento. Infine, i capitali investiti nell’attività dovranno produrre margini sufficienti, ossia redditi adeguati per remunerare tutti quei soggetti che hanno rischiato capitali nell’impresa231.
A questo punto, per interpretare in modo opportuno le poste che compongono il bilancio, è necessario fare chiarezza sui termini utilizzati evidenziando i caratteri del fabbisogno di finanziamento e le correlazioni con le sue possibili forme di copertura. Utilizzando l’impostazione suggerita da Cavalieri, si distinguono gli investimenti “in
relazione al tipo di fabbisogno finanziario da essi generato” e le fonti “in rapporto alla loro attitudine a richiedere risorse finanziarie per la loro estinzione” 232.
4.1.1: Attivo (Investimenti)
Secondo la loro destinazione gli investimenti si possono suddividere tra immobilizzazioni e disponibilità; sempre secondo Cavalieri, mentre l’attivo immobilizzato rappresenta l’ammontare di risorse monetarie “investite in fattori a
fecondità semplice e ripetuta”, ossia ne fanno parte gli investimenti che creano un
231 Cappelletto R., Elementi di finanza aziendale, Giappichelli editore, Torino, 2004, Pag. 98 e ss.
232 Cavalieri E., Ferraris Franceschi R., Economia Aziendale. Attività aziendale e processi produttivi, Giappichelli Editore, Torino, 2000, Pag. 415.
fabbisogno finanziario di tipo durevole la cui destinazione d’uso all’interno dell’azienda non può essere mutata pena l’impossibilità di continuare l’attività aziendale, le disponibilità raggruppano “tutti quegli investimenti che possono essere
distolti dall’attività dell’azienda senza pregiudicarne lo svolgimento” e generano, per
questo, un fabbisogno di tipo temporaneo.
Le immobilizzazioni possono essere a loro volta suddivise a seconda della stabilità nel tempo del relativo fabbisogno finanziario; mentre grandezze come le scorte di materie prime, di merci o di semilavorati, i crediti verso clienti, le scorte monetarie liquide e le partecipazioni in imprese controllate e/o collegate, man mano che vengono consumate generano sì i relativi ricavi ma devono essere continuamente ricostituite, originando un fabbisogno finanziario durevole di tipo stabile che subisce alterazioni solamente alla variazione del volume di attività aziendale, i fattori a fecondità ripetuta, sia materiali che immateriali il cui recupero sia possibile nel lungo periodo, i crediti di finanziamento e gli investimenti accessori di carattere patrimoniale e/o finanziario, tendono a generare un fabbisogno maggiormente variabile. Questi ultimi, pur originando fabbisogni finanziari di tipo durevole, tendono a non essere stabili nel tempo e ad assumere un comportamento altalenante subendo recuperi graduali per mezzo dell’incasso dei rispettivi ricavi finché non sopraggiunge la necessità di un loro rinnovo, momento in cui il fabbisogno derivato subisce un’importante espansione; ad esempio, il fenomeno della concessione di crediti di finanziamento, fa sì che le risorse monetarie investite nella fase iniziale che danno origine al fabbisogno finanziario, decrescano col tempo man mano che si riscuotono i crediti stessi. Le risorse recuperate per mezzo dei ricavi restano a disposizione dell’impresa che li utilizzerà a copertura del fabbisogno finanziario originato da altri impieghi finché non arriverà il momento di rinnovare l’impiego stesso, in questo caso, il credito. A questo punto il fabbisogno finanziario torna ad espandersi per poi iniziare nuovamente a decrescere attraverso l’ottenimento dei relativi ricavi.
Alle disponibilità fanno capo, invece, grandezze come le scorte monetarie liquide, gli investimenti in attività accessorie facilmente recuperabili, le scorte di fattori a fecondità semplice e di prodotti acquistati in eccedenza rispetto ai livelli funzionali con finalità speculative o per convenienza operativa e i fattori a fecondità ripetuta come i crediti di finanziamento liquidabili nel breve periodo. Queste risorse,
impiegate in attività facilmente liquidabili, o direttamente o per il tramite dei ricavi, originano un fabbisogno finanziario di tipo temporaneo.
4.1.2: Passivo (Fonti)
Le fonti di finanziamento raggruppano l’ammontare di denaro utilizzato dall’impresa per far fronte ai pagamenti che periodicamente si ripetono e si possono suddividere a seconda del legame temporale che le vincola alle attività dell’impresa. Si individuano, così, debiti a breve scadenza anche denominati passività correnti, debiti a medio-‐ lungo termine o passività consolidate e infine il patrimonio netto anche detto capitale permanente.
Il primo gruppo di fonti, che per sua natura è facilmente liquidabile nel breve periodo, è adatto a coprire il fabbisogno finanziario generato dalla gestione corrente, che ha sì la caratteristica di essere un fabbisogno di tipo durevole, ma è caratterizzato da una veloce rotazione ed elasticità. Rientrano in questo insieme i classici debiti verso fornitori. Il secondo gruppo è, invece, composto dai debiti di finanziamento con scadenze superiori all’anno che, avendo termini medio-‐lunghi, dovrebbero coprire quella parte di fabbisogno finanziario generato dagli investimenti in capitale fisso non coperto dal patrimonio netto; tali fonti, che prevedono piani di rientro in una o più rate, devono essere richiesti solo se l’impresa potrà contare in futuro su flussi monetari positivi generati dalla reddittività dell’impresa che la banca, attraverso il finanziamento, potrà anticipare. Per quanto riguarda il terzo gruppo, il capitale permanente è la forma di finanziamento più idonea a coprire il fabbisogno finanziario di capitale fisso che raggruppa tutte le immobilizzazioni maggiormente durevoli che formano la struttura fisica dell’impresa; infatti, non avendo vincoli di rimborso e legandosi all’impresa fino a che non dovesse essere disperso a causa di perdite, non solo garantisce la copertura del fabbisogno sopracitato ma consente con i flussi di recupero di finanziare i reinvestimenti fino alla liquidazione dell’impresa.
A questo punto, è possibile introdurre un tema importante che sarà ripreso lungo tutto il capitolo; anche se spesso vengono dimenticati nell’elencazione delle fonti, i debiti per le “indennità di fine rapporto” formano parte del capitale permanente e
assumono per questo il carattere di effettiva fonte di finanziamento233. Essendo un
vero e proprio salario differito, che matura di anno in anno e al quale sono sommati gli adeguamenti dell’importo delle annualità pregresse in relazione all’andamento del costo della vita, a causa del suo particolare meccanismo di calcolo che fa sì che possa rimanere nelle mani dell’azienda pur essendo di proprietà dei lavoratori, diventa una fonte permanente di finanziamento dell’azienda. Non tutto questo capitale può però essere ritenuto una fonte a carattere permanente in quanto, la parte relativa alle indennità da corrispondere ai dipendenti che si prevede terminino il loro rapporto di lavoro entro l’anno, fanno parte del passivo corrente dovendo essere liquidate in breve tempo. Quest’ultima grandezza si connota per essere comunque una minima parte sia nei periodi di stabilità economica, in cui i licenziamenti sono limitati, sia in periodi critici nelle imprese contraddistinte da forze di lavoro mediamente giovani; per questi motivi il capitale accantonato sotto forma di TFR assume un’importanza rilevante all’interno dell’equilibrio finanziario soprattutto delle piccole imprese anche nella fase attuale di recessione economica e di crisi creditizia.
4.1.3: Capitale fisso e capitale circolante
Gli impieghi di capitale, oltre ad essere suddivisi tra immobilizzazioni e disponibilità, secondo la funzione che assolvono all’interno dell’azienda, possono subire un’ulteriore separazione che permette di evincere informazioni aggiuntive; in questo modo, sono identificati il capitale fisso e il capitale circolante: mentre il primo si individua dall’insieme delle immobilizzazioni, ossia dall’ammontare delle risorse finanziarie, uscite e non ancora recuperate, necessarie a costruire, adeguare o rendere maggiormente efficiente la struttura produttiva dell’impresa, il secondo, anche detto capitale di giro, si identifica con quel volume di risorse necessarie ad assicurare l’adeguato funzionamento dell’azienda, originate dalla ripetitiva attività di acquisto, trasformazione e vendita. Quest’ultima grandezza genera un flusso continuo di pagamenti conseguenti ai costi e di incassi conseguenti ai ricavi, diversamente, il fabbisogno finanziario originato dal capitale fisso è di tipo durevole perché ai progressivi flussi di recupero per l’incasso di quella parte di ricavi imputati agli
233 Cavalieri E., Ferraris Franceschi R., Economia Aziendale. Attività aziendale e processi produttivi,
ammortamenti seguono ulteriori flussi di uscita per i reinvestimenti necessari per mantenere o adeguare la capacità produttiva. Quest’area non prevede, infatti, un recupero diretto del capitale investito in quanto, solo il cash flow gestionale consente di recuperarlo.
Al capitale a lenta rotazione, rappresentante degli investimenti in struttura per l’attuazione del processo produttivo, fanno parte, perciò, le immobilizzazioni materiali ed immateriali, i crediti di finanziamento e le partecipazioni; il capitale a veloce rotazione racchiude, invece, le disponibilità liquide immediate, i crediti di funzionamento e le scorte di fattori a fecondità semplice e di prodotti.
Questa ulteriore suddivisione degli impieghi è utile per individuare un’ulteriore grandezza che interviene influenzando l’autofinanziamento aziendale; si tratta del capitale circolante netto o “net working capital” che si ottiene sottraendo dal capitale circolante (lordo) l’ammontare del passivo corrente identificato dai debiti di gestione. A questo punto è importante ricordare come, secondo l’impostazione seguita, ai debiti di gestione faccia parte anche la quota di fondo TFR relativa ai dipendenti che cesseranno il rapporto di lavoro con l’azienda all’interno dell’anno di riferimento. L’identificazione del capitale circolante netto permette di esprimere “la misura in cui
l’impresa è in grado di far fronte agli impegni assunti nel breve periodo con il realizzo delle attività a breve termine”234. Consente perciò di esaminare se gli investimenti in
capitale circolante, contraddistinti da un orizzonte temporale di breve periodo, sono coperti in modo adeguato da fonti con la medesima scadenza. Come evidenziato da Cescon l’indicatore che viene a formarsi assumendo valori positivi “esprime un
margine di garanzia sulla solvibilità dell’impresa nel breve periodo”, in quanto
rappresenta una situazione in cui gli impieghi sono coperti dalle prospettive di entrata di cassa derivanti dalle gestione corrente, mentre assumendo valori negativi “indica che l’impresa sta finanziando immobilizzazioni con passività correnti
esponendosi al rischio del mercato finanziario” 235.
234 Articolo tratto da Bussola, Controllo di gestione e analisi finanziaria per le piccole e medie imprese, spazio per la discussione delle idee e delle strategie delle pmi, 28 febbraio 2013. URL:http://www.bussolacontrollodigestione.it/il-‐capitale-‐circolante-‐netto-‐e-‐il-‐suo-‐utilizzo-‐per-‐ lanalisi-‐finanziaria/
Inoltre, il capitale circolante netto può essere visto non solo in una prospettiva statica ma anche secondo una visione dinamica; infatti, una sua riduzione può generare un vero e proprio autofinanziamento per l’impresa in quanto, diminuendo il valore, minore sarà anche il fabbisogno finanziario collegato e l’assorbimento della cassa, fattori che permettono di liberare risorse liquide che possono essere destinate a migliorare alcuni processi aziendali.
Tutto quello che è stato anticipato permette di affermare che il capitale circolante netto assume un ruolo cardine nel rappresentare l’equilibrio finanziario dell’impresa che si qualifica per la correlazione e l’evoluzione in modo armonico dei rapporti tra le disponibilità e il passivo corrente, tra le immobilizzazioni che generano un fabbisogno di tipo semidurevole e il passivo consolidato e tra le immobilizzazioni a fabbisogno rigido e il capitale permanente. Una costruzione adeguata della struttura delle fonti, che generi un’evoluzione costante dell’equilibrio tra fonti e impieghi, permette un sincronico flusso tra entrate e uscite che rende finanziariamente autonoma l’impresa.
La situazione ottimale di equilibrio finanziario e l’indicazione della composizione del Capitale circolante netto (CCN) è raffigurata attraverso la tabella 4.1, anche se per le
piccole e microimprese italiane, caratterizzate da una situazione di costante sottocapitalizzazione e da alti livelli d’indebitamento, questa situazione di solidità ottimale descritta non è plausibile; infatti, la struttura tipica di una piccola o microimpresa italiana, a causa delle caratteristiche strutturali della nostra economia, vede un ruolo ridotto del capitale proprio e una preferenza per l’indebitamento a lungo termine, fattori che permettono di sfruttare il fenomeno della leva finanziaria descritto da Modigliani e Miller236 ma che espongono le imprese in caso di importanti
fasi negative del ciclo economico a gravi rischi.
Per questo, in condizioni di difficile accesso al credito e nell’impossibilità di ricorrere al capitale di rischio, emerge in modo ancor più preponderante il ruolo dell’autofinanziamento.
236 Modigliani F., Miller M.H., The Cost of Capital and the Theory of Investment, in American Economic Review., 1958.
Tabella 4.1: Equilibrio ottimale fonti e impieghi con indicazione CCN IMPIEGHI FONTI Attività correnti o Capitale Circolante Lordo (CCL) Liquidità immediate
(cassa e titoli a breve termine)
Debiti a breve termine
(vs banche, fornitori e diversi, TFR scadente entro l’anno)
Passivo corrente
Liquidità differita
(crediti commerciali, vs collegate e
controllate e diversi) Debiti a m/l termine
Passivo consolidato
Scorte di ffs e prodotti
(rimanenze merci, meterie prime, semilavorati e prodotti finiti)
(mutui, obbligazioni, fondo TFR scadente oltre l’anno)
Passività presunte
Attività fisse Immobilizzazioni (tecniche, finanziarie, immateriali)
(fondi rischi e oneri)
Capitale proprio
(capitale sociale, fondi riserva e utile d’esercizio)
Mezzi propri
Elementi del Capitale Circolante Netto(CCN)
Fonte: Elaborazione personale su impostazione Cavalieri [2000]
4.2: L’autofinanziamento o “finanziamento da indebitamento”
L’autofinanziamento è riconosciuto da Onida come l’insieme di “finanziamenti che
provengono, non dall’apporto di credito, nelle forme di conferimento di capitale proprio o di terzi, ma dalla gestione stessa dell’azienda, in virtù del conseguimento di utili netti d’esercizio e del loro mancato prelevamento”237; per questo motivo può essere
considerato come una vera e propria fonte di capitale di origine interna, in quanto si
tratta di un fenomeno, come definito dal Cavalieri, “capace di produrre un
miglioramento del preesistente rapporto tra investimenti e mezzi finanziari attinti da terzi o conferiti dalla proprietà” 238.
Diversi sono i concetti di autofinanziamento, che si originano dal modo in cui lo stesso viene osservato; attraverso una concezione ristretta si è soliti comprendere i soli utili conseguiti dall’impresa che non vengono distribuiti, secondo una concezione allargata, invece, oltre a considerare gli utili non distribuiti, si sommano anche i flussi finanziari interni prodotti dai ricavi che dell’autofinanziamento sono la fonte. Per il tipo d’analisi che si sta affrontando, però, può essere utile affrontare il fenomeno autofinanziamento ricorrendo ad una configurazione ancora più ampia includendo anche le maggiori disponibilità che emergono dal prolungamento medio delle dilazioni concesse dai fornitori e finanziatori per il pagamento dei debiti, in modo da cogliere anche l’influenza del fondo TFR nelle dinamiche finanziarie dell’impresa. Come osserva il Sorci, “in quest’ultimo caso più che di autofinanziamento nel senso
letterale del termine, vale a dire di copertura di un fabbisogno finanziario senza ricorrere a mezzi esterni, ma sfruttando quelle disponibilità che all’interno della gestione e per effetto della gestione vengono a crearsi, sarebbe più opportuno parlare di finanziamento da indebitamento, in quanto le condizioni per cui si creano le maggiori disponibilità sono legate a variazioni delle condizioni debitorie di creditori esterni”239.
Attraverso questa impostazione di autofinanziamento per certi versi al limite, tra le poste che permettono di generare mezzi finanziari all’interno del sistema impresa, è opportuno includere anche gli accantonamenti per l’indennità al personale, per imposte o tasse e analoghi, così, nonostante queste ultime grandezze siano considerate fonti di autofinanziamento solo in via particolare, la loro considerazione permette di evidenziare in modo completo la capacità dell’impresa di coprire autonomamente il proprio fabbisogno finanziario.
238 Cavalieri E., Ferraris Franceschi R., Economia Aziendale. Attività aziendale e processi produttivi, Giappichelli Editore, Torino, 2000, Pag. 200.
239 Sorci C., Considerazioni sulla relativa validità di una distinzione ancora persistente in tema di autofinanziamento, negli “Annuali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Palermo”,
4.2.1: L’autofinanziamento della gestione reddituale
La configurazione di autofinanziamento qui considerato permette di raccordare la gestione economica alla gestione finanziaria, in modo da spiegare le variazioni incluse nello stato patrimoniale attraverso le poste di conto economico, mettendo in evidenza i flussi finanziari a queste connessi; deriva, infatti, dalla differenza tra le risorse finanziarie in entrata, costituite dai ricavi, e le risorse finanziarie in uscita rappresentate dai costi per l’acquisizione dei fattori produttivi.
L’autofinanziamento rappresenta, come da definizione di Brusa et al., “il flusso
finanziario prodotto da tutte le operazioni della gestione reddituale”240, ossia da tutte
quelle operazioni che formano il reddito netto di periodo, sia legate al core business dell’impresa, sia alle attività di altra natura, come quelle finanziarie. La definizione necessità, però, di un’importante specificazione, in quanto, non tutti i componenti del reddito hanno la stessa natura dal punto di vista finanziario; come è facile capire, non tutti i costi o ricavi generano un relativo movimento di risorse finanziarie o in uscita o in entrata, ad esempio gli ammortamenti, pur essendo dei costi legati all’uso di fattori produttivi, non generano alcun flusso monetario né in entrata né in uscita per l’impresa. Per questo motivo, nell’individuazione dell’autofinanziamento inteso come un flusso finanziario, ricercando le grandezze che hanno causato movimenti di mezzi finanziari, si dovranno sottrarre dai ricavi connessi ad una variazione di cassa o di credito i soli costi di tipo monetario legati ad un esborso di cassa o ad un’accensione di debito. Il procedimento analitico così descritto prende il nome di metodo diretto; a questo si contrappone la procedura indiretta che calcola l’autofinanziamento della gestione reddituale partendo dal risultato netto. A questa grandezza somma i costi non monetari identificati, specificatamente, nelle quote di ammortamento, di accantonamento a fondi svalutazione di elementi patrimoniali e alla svalutazione di elementi patrimoniali e sottrae l’ammontare di ricavi non monetari, individuati dalle rivalutazioni di cespiti iscritti in conto economico e dall’utilizzo di riserve rilevate in conto corrente.