Corso di Laurea magistrale
(ordinamento ex D.M. 270/2004)
in Amministrazione, Finanza e Controllo
Tesi di Laurea
Un duplice ruolo per il TFR;
previdenza e finanziamento per lavoratori e
imprese nella crisi.
Relatore
Ch. Prof. Gaetano Zilio Grandi
Correlatore
Ch. Prof. Giovanni Vaia
Laureando
Davide Meneghel
Matricola: 836289
Anno Accademico
2012 / 2013
“You never let a serious crisis go to waste”
“Non sprecare una crisi”Rahm Emanuel,
INDICE
INTRODUZIONE
7
Cap. 1 SVILUPPO DEL SISTEMA PREVIDENZIALE ED EMERSIONE DELLA NECESSITÀ DI UNA
PREVIDENZA COMPLEMENTARE 9
1.1 Partiamo dalla fine: le difficoltà a imporsi della previdenza complementare 10
1.2
La previdenza di base verso la sostenibilità
14
1.2.1 La crisi demografica, economica e della finanza pubblica 16
1.2.2 Le ragioni di un sistema pensionistico misto 22
1.2.3 Il cammino di riforma del sistema previdenziale 25 1.3 La riforma pensionistica Monti-‐Fornero (D.L. 214/2011) e i riflessi sui lavoratori 31
1.3.1 Interventi riformatori 34
1.3.2 Valutazione degli interventi 42
Cap 2 IL RUOLO CHIAVE DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE E DEL TFR NEL SISTEMA
PREVIDENZIALE ITALIANO 47
2.1 La previdenza complementare e il ruolo chiave del TFR 48 2.1.1 Il ruolo strutturale e le fonti normative della previdenza complementare 50
2.1.2 Le forme pensionistiche complementari 52
2.1.3 La contribuzione e il conferimento del TFR 54
2.2 L’andamento della previdenza complementare 58
2.2.1 Adesioni 60
2.2.2 Risorse finanziarie 62
2.2.3 Rendimenti 64
2.2.4 Costi 65
2.3 L’obbligatorietà come soluzione per la definitiva diffusione della previdenza complementare
66 Cap. 3 LE SCELTE FINANZIARIE DELLE PICCOLE E MICROIMPRESE ITALIANE E IL RUOLO
DELLA BANCA
73
3.1 Le caratteristiche del sistema imprenditoriale italiano 75
3.1.1 Le peculiarità 76
3.1.2 Indebitamento e struttura finanziaria 80
3.2 La finanza delle piccole e microimprese italiane 83 3.2.1 La scelta tra capitale di rischio e di credito 85
3.2.1.1 Convenienza economica 86
3.2.1.2 Implicazioni fiscali 92
3.2.1.3 Esigenze legate al controllo 92
3.2.1.4 Compatibilità ed equilibrio finanziario 93 3.3 Implicazioni dei problemi di asimmetria informativa sui modelli tradizionali di finanza 95
3.3.1 La “Pecking Order Theory” 97
3.3.2 La “Principal-‐Agent Theory” 98
3.4 Il rapporto con la banca 101
3.4.1 Caratteristiche del rapporto 102
3.4.2 Conseguenze del modello bancocentrico 105
3.5 Le difficoltà di accesso al credito bancario e i problemi legati ai crediti verso la Pubblica Amministrazione
106
3.5.1 La situazione 107
3.5.2 Razionamento o credit crunch? 108
3.5.3 I crediti verso la Pubblica Amministrazione 110 Cap. 4 VALUTAZIONE DEL TFR NELLE DINAMICHE FINANZIARIE PER IPOTIZZARNE UN
POSSIBILE UTILIZZO ALTERNATIVO
113
4.1 L’equilibrio finanziario tra fonti e impieghi 114
4.1.1 Attivo (Investimenti) 114
4.1.2 Passivo (Fonti) 116
4.1.3 Capitale fisso e capitale circolante 117
4.2 L’autofinanziamento o “finanziamento da indebitamento” 120 4.2.1 L’autofinanziamento della gestione reddituale 122 4.2.2 L’autofinanziamento della gestione corrente 125 4.3 Autofinanziamento e Capitale Circolante Netto (CCN) nelle dinamiche del flusso di
cassa 126
4.4 Il peso del TFR nell’autofinanziamento e valutazione dell’ipotesi di un suo passaggio
obbligato ai fondi pensione 128
4.4.1 Il TFR nella gestione dell’impresa 128
4.4.2 Benefici fiscali da considerare 129
4.4.3 Il modello per la valutazione dell’ipotesi 130
CONCLUSIONI 137
BIBLIOGRAFIA 141
INTRODUZIONE
Come suggerito dal titolo, la tesi ha come obiettivo quello di analizzare i recenti sviluppi del sistema previdenziale così da coglierne i riflessi sui lavoratori, sempre in balia di continui cambiamenti nelle normative di riferimento, e le possibili implicazioni per le piccole e microimprese che fanno da ossatura al sistema produttivo del nostro Paese.
In questo senso, la radicale riforma del sistema pensionistico, approvata ormai da due anni attraverso il famoso decreto “Salva Italia”, più precisamente con l’art. 24 del D.L. 6 Dicembre 2011 n. 201 convertito nella legge 214/2011, ha introdotto notevoli cambiamenti sia per quanto riguarda i lavoratori, sia, di conseguenza, per quanto riguarda le imprese. La ristrutturazione della normativa, con l’obiettivo di apportare modifiche al sistema per renderlo maggiormente sostenibile ed equo, in grado di fronteggiare evidenti problemi legati all’evoluzione demografica, economica e della finanza pubblica, se da un lato ha rivisto al ribasso in maniera importante le percentuali di sostituzione delle pensioni in relazione all’ultima retribuzione, rendendo necessario il ricorso a forme di risparmio previdenziale alternativo, dall’altro non ha garantito lo sviluppo definitivo della previdenza complementare lasciando notevoli dubbi sulla copertura previdenziale dei futuri pensionati. Se il problema è minore per le generazioni più giovani che hanno appena iniziato a lavorare o che si apprestano a farlo in breve tempo, grazie alla consapevolezza di dover colmare un gap previdenziale importante potendo però contare su di un periodo di tempo sufficientemente lungo, per le generazioni che si trovano a metà del loro periodo contributivo la situazione è ben più ricca di incognite non potendo sfruttare la variabile temporale.
A queste problematiche che affliggono il mondo dei lavoratori si somma una situazione difficile anche dal lato delle imprese. Non riuscendo ad adattarsi ad una situazione di concorrenza a livello globale e nella difficoltà di far emergere la qualità collegata al famoso “made in Italy”, il tessuto imprenditoriale italiano, caratterizzato soprattutto da imprese di piccola o piccolissima dimensione, si trova in una
situazione di stallo in cui perversano importanti problemi anche legati all’accesso al credito. Sulla scia della situazione di sfiducia nel mercato creditizio innescata dalla crisi prima finanziaria poi economica e infine fiscale iniziata a fine ’08, le imprese italiane stanno vivendo un forte restringimento del credito culminato con fenomeni di razionamento soprattutto per le realtà di dimensioni minori.
È sulla spinta di queste importanti problematiche che prende vita l’ipotesi valutata in questa tesi, ossia quella di un obbligo legislativo ai dipendenti affinché destinino il proprio TFR a forme di previdenza complementare con il duplice fine di far decollare definitivamente il secondo pilastro integrativo e di aprire un canale di finanziamento indirizzato direttamente alle piccole e microimprese sfruttando le potenzialità di rivoluzionati fondi pensione forti dei nuovi capitali ad essi destinati.
Per fare questo l’analisi si articola su quattro capitoli, i primi due incentrati sulla rappresentazione dell'evoluzione del sistema previdenziale per coglierne le importanti modifiche e il ruolo chiave all'interno della previdenza complementare del TFR, il terzo in cui si caratterizza la finanza delle piccole e micro-‐imprese e il loro rapporto con la banca facendo emergere le problematiche legate al loro finanziamento, mentre l’ultimo capitolo è dedicato alla valutazione dell’incidenza del TFR sull’equilibrio finanziario di queste imprese con l’obiettivo di indagare la fattibilità o meno dell’ipotesi considerata e le condizioni a cui deve essere assoggettata per poter essere implementata.
Capitolo 1:
SVILUPPO DEL SISTEMA PREVIDENZIALE ED EMERSIONE DELLA
NECESSITÀ DI UNA PREVIDENZA COMPLEMENTARE
SOMMARIO: 1.1: Partiamo dalla fine: le difficoltà a imporsi della previdenza complementare – 1.2: La previdenza di base verso la sostenibilità – 1.3: La riforma pensionistica Monti-‐Fornero (D.L. 214/2011) e i riflessi sui lavoratori
Per le imprese, su cui ricade l’obbligo del versamento degli oneri sociali1 e della
corresponsione del trattamento di fine rapporto ai propri dipendenti, entrambe grandezze che incidono in misura importante sul costo del lavoro e sul cash flow2
aziendale, ma soprattutto per i lavoratori, il tema dell’evoluzione del sistema previdenziale viene ad assumere primaria importanza. Questo perché, mai come in questi ultimi vent’anni, si è assistito ad un costante processo di riforma di questo sistema che impone ad entrambe le parti in causa di seguirne l’evoluzione in modo continuo data la grande incidenza sulla vita di tutti i giorni.
Le riforme che si sono succedute sono state tutte indirizzate a riequilibrare un sistema che, a causa delle mutate condizioni demografiche ed economiche, non era più in grado di sopravvivere e necessitava di forti correzioni per essere reso finanziariamente sostenibile e attuarialmente equo 3. Infatti, in un quadro
demografico contraddistinto dalla natalità tra le più basse d’Europa, dall’aumentare
1 Oneri sociali (def. Treccani): Insieme dei contributi, obbligatori e facoltativi, versati a organismi pubblici o privati che erogano prestazioni sociali. I contributi sociali effettivi a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori sono versati al fine di acquisire o di conservare il diritto alle prestazioni sanitarie e previdenziali; i contributi sociali figurativi sono versati dal datore di lavoro direttamente ai propri dipendenti o ex dipendenti al fine di garantire loro il godimento di prestazioni sociali (malattia, maternità, invalidità, assegni familiari ecc.).
2 Cash flow (def. Treccani): Ammontare delle operazioni attive e passive di pagamento in moneta di un’impresa in un determinato periodo di tempo («flusso di cassa»). Il c. può essere determinato per procedimento diretto, detraendo dai ricavi monetari i costi monetari o spese di gestione dell’impresa (consumi di materie, salari, spese generali, imposte, dividendi, interessi passivi ecc.), o per procedimento indiretto, sommando agli utili (o perdite di esercizio) quei costi che non comportano uscite finanziarie nel periodo considerato come le riserve per gli ammortamenti e gli accantonamenti per il trattamento di fine rapporto. Il c. è un riferimento utile per formulare un giudizio sintetico sulla redditività di un’impresa.
della speranza di vita e dal conseguente invecchiamento della popolazione, in una situazione economica avversa caratterizzata da un forte calo della produzione e dei conseguenti risvolti negativi sull’occupazione, si sono resi indispensabili degli interventi radicali per non veder minato il futuro dell’intero sistema. Questi interventi di riduzione della spesa pubblica per le pensioni e di aumento dell’età pensionabile, hanno migliorato la tenuta del sistema ma, riducendo gli interventi del c.d. Stato sociale, hanno portato a pensioni pubbliche notevolmente più basse e all’introduzione di un sistema misto indispensabile ad attenuare le difficoltà derivanti dal minor tasso di sostituzione della retribuzione una volta raggiunta la pensione.
È in questo quadro che s’inserisce il tema trattato in questo primo capitolo, ossia lo sviluppo del sistema previdenziale di base e l’emergere in misura sempre maggiore della necessità di aderire a forme previdenziali alternative; entrambi sono argomenti che necessitano di un attento approfondimento, in modo da fornire l’adeguata base informativa indispensabile per valutare l’ipotesi di destinazione obbligatoria del TFR alla previdenza complementare al fine di garantirne un possibile duplice uso innovativo per porre rimedio sia ai problemi di natura previdenziale dei lavoratori, sia al fenomeno della stretta creditizia4 per le imprese.
1.1: Partiamo dalla fine: le difficoltà a imporsi della previdenza complementare
“Pensioni pubbliche basse per una vecchiaia di ristrettezze e certezza di doverle integrare con strumenti diversi che, per la maggioranza dei lavoratori, sono altri rispetto alla previdenza complementare; e poi persistente mutevolezza delle regole previdenziali e tanta paura di non riuscire comunque a costruire nel tempo una propria posizione previdenziale per l’inadeguatezza dei propri redditi e/o per la paura di perdere il lavoro”.
4 Stretta creditizia (def. Il Sole 24 Ore): può emergere dagli spontanei andamenti dell'economia o essere provocata dalle autorità monetarie. Si ha il primo caso quando le banche sono preoccupate della solvibilità di coloro a cui prestano i soldi e quindi tirano i remi in barca, concedendo prestiti a condizioni più rigide: aumentando i tassi o chiedendo più garanzie. Si ha la stretta pilotata dalle Banche centrali quando sono queste che inducono le banche a fare meno prestiti, e questo pesante invito può assumere varie forme: alzando i tassi di interesse, o aumentando la riserva obbligatoria (la percentuale dei depositi che non è disponibile per i prestiti ma che deve essere mantenuta presso la Banca centrale, o attraverso strumenti ormai dimenticati come il ‘massimale' sui crediti (la percentuale massimo di cui una banca può aumentare i crediti rispetto all'anno prima).
È questo il quadro che viene a delinearsi leggendo il rapporto tra “lavoratori e
previdenza nella crisi”5 realizzato dalla Fondazione Censis su incarico della Covip al
fine di analizzare quanto la previdenza complementare, a oltre 13 anni dal suo pieno avvio operativo, sia riuscita ad imporsi nei lavoratori. Quello che emerge dall’indagine è un quadro altamente negativo in quanto mostra come la diffusione delle forme di previdenza integrativa, che nelle intenzioni del legislatore del tempo avrebbero dovuto dilatarsi alla totalità dei lavoratori con l’obiettivo di controbilanciare le dure diminuzioni delle pensioni pubbliche che le riforme avrebbero causato rispetto alle prestazioni promesse dalle normative previgenti, sia ancora molto scarsa rispetto alle previsioni. Ne traspare un lavoratore sfiduciato dal sistema che vede il complesso normativo come una nebulosa informe e non ha chiaro cosa deve e cosa può fare per porre rimedio alla situazione che gli è stata imposta.
Dall’indagine si evince in modo chiaro come la maggioranza dei lavoratori sia molto diffidente rispetto al tema previdenziale e soprattutto poco conscio della centralità che viene ad assumere la previdenza complementare che, più che essere vista come un “cardine strategico dell’integrazione dei trattamenti pensionistici pubblici”, come definita ne “Il gioco delle pensioni: rien ne va plus?”6 viene ancora considerata come
una forma di risparmio poco conveniente.
Il dato più importante che affiora dal rapporto e influenza l’intera evoluzione del sistema previdenziale è senza dubbio la “ridotta conoscenza degli aspetti relativi alla
previdenza complementare”. Infatti, quasi ¾ degli intervistati non possiede una
conoscenza sufficiente rispetto a questo pilastro della previdenza, problema che si ripercuote sui lavoratori stessi producendo visioni distorte della materia che inducono a prendere soluzioni non adatte. Inoltre, gli impedisce di cogliere le opportunità previste dalla normativa e, cosa più importante, di mettersi al riparo, con sufficiente anticipo, dal problema pensionistico che verrà a crearsi nel corso del tempo se ogni lavoratore non agirà personalmente nel modo opportuno garantendosi
5 Lavoratori e previdenza nella crisi: ricerca della Fondazione Censis del 2012 che, su incarico della Covip, la “Commissione di vigilanza sui fondi pensione”, ha realizzato un’ampia indagine su un campione di 2.400 lavoratori (composto da dipendenti pubblici, privati e lavoratori autonomi) focalizzata su rapporto, aspettative e bisogni informativi dei lavoratori sulla previdenza complementare.
le tempistiche adeguate per creare quel capitale che lo Stato non è più in grado di corrispondere. A identica conclusione giunge anche l’analisi della Banca D’Italia sulle “scelte previdenziali nell’indagine sui bilanci delle famiglie”7 nella quale, oltre ad
emergere una scarsa conoscenza delle regole della previdenza complementare, dove oltre il 40% degli intervistati a risposto in modo sbagliato a tutte le domande, è emersa una scarsa conoscenza anche, per chi ha aderito, della posizione individuale scelta e della rischiosità dell’investimento sottoscritto.
Le cause di questo problema vanno senz’altro ricercate, quindi, anche tra i soggetti da cui i lavoratori dovrebbero trarre le informazioni in materia previdenziale che, secondo l’indagine, sono per quasi la metà dei lavoratori dipendenti i sindacati mentre, per gli autonomi, gli intermediari finanziari e assicurativi. Buona parte dei lavoratori, circa il 15%, cerca invece di ottenere informazioni da Internet. Questi dati evidenziano come questi soggetti non siano stati in grado in questi anni di assicurare un adeguato passaggio d’informazioni verso i lavoratori nonostante il ruolo strategico che ricoprivano non rendendo attrattiva la scelta verso una previdenza complementare.
La conseguenza di questo è che l’84% degli intervistati “pensa che le regole in materia
previdenziale siano destinate inevitabilmente a mutare ancora”, e questa “incertezza delle regole e certezza della loro mutevolezza” non fa che creare apprensione
nonostante sia ormai chiaro come le più recenti riforme abbiano consolidato e completato il sistema “raggiungendo un equilibrio sostenibile nel tempo”8. Infatti,
anche nella relazione per l’anno 2011 della COVIP si precisa come l’intervento di riforma di fine 2011 permetta una “semplificazione del sistema nel suo complesso rendendolo più flessibile ed equo costituendo l’ultimo elemento di una successione di
interventi” 9 che, rendendo dipendenti le due variabili fondamentali del sistema, età di
pensionamento e importo annuale della pensione, all’evoluzione dell’aspettativa di
7 Banca D’Italia, Cappelletti G., Guazzarotti G., in Questioni di Economia e Finanza, Le scelte previdenziali nell’indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, Occasional Papers numero 77,
Dicembre 2010.
8 COVIP. Relazione per l’anno 2012, Cap. 1.2, Il settore della previdenza complementare in un nuovo modello di welfare.
9 COVIP. Relazione per l’anno 2011, Cap. 1.4, La riforma della previdenza di base in Italia e il ruolo della previdenza complementare.
vita ne garantisce un aggiornamento automatico e costante. Ciò non precluderà ulteriori riforme che permettano in futuro di correggere costantemente l’andamento del sistema, ma non modificheranno più così gravemente le basi della struttura previdenziale. È però a causa della percezione dell’incertezza delle regole che deriva una generale sfiducia nella capacità del sistema di dare sicurezza ai lavoratori nella fase della loro vita più debole, la vecchiaia.
L’indagine del Censis mostra inoltre che è per tutti questi motivi che “la previdenza
complementare non è agli occhi dei lavoratori il principale elemento del secondo pilastro” e non viene perciò percepita come “uno strumento fondamentale d’integrazione della previdenza pubblica”. Inoltre, sebbene quasi la metà degli
intervistati consideri fondamentale il secondo pilastro e sia perciò consapevole del fatto che debba costruirsi un capitale per far fronte alle esigenze della vecchiaia data la maggior scopertura del reddito rispetto al periodo lavorativo, notevoli sono le difficoltà che limitano l’accesso al sistema complementare. Nell’indagine sono suddivise sia tra fattori di contesto, caratteristiche del sistema macroeconomico attuale legati alla fase negativa del ciclo economico, come lo scarso tasso di crescita dei redditi tendenzialmente più lenti dell’avanzare dell’inflazione, le scarse possibilità di risparmio legate ad esso e la paura di perdere il lavoro venendo meno la sicurezza di entrate stabili e durature nel tempo, che in fattori specifici, caratteristiche strutturali della previdenza complementare, come l’alto peso sul reddito della quota da destinarvi e la scarsa fiducia di cui gode essendo parte di un sistema per cui, come già detto, le informazioni che raggiungono i lavoratori che dovrebbero aderirvi sono insufficienti e di scarsa qualità.
Ho deciso di presentare prima di tutto questo rapporto per evidenziare come la strada intrapresa dal sistema pensionistico necessiti di una revisione dei modi con cui le informazioni giungono ai lavoratori che necessitano di più chiarezza e di una maggiore trasparenza da parte di tutti gli organismi istituzionali con cui si interfacciano. Comprendere ciò che pensano i principali soggetti a cui si rivolge la previdenza permette di capire come sia necessario mettere ordine in una disciplina vasta e continuamente soggetta a modifiche che, nel corso della storia, hanno creato insicurezza e dubbi nei lavoratori ma anche nelle imprese. È per questo motivo che ora l’attenzione va spostata a come si è arrivati alla situazione attuale andando ad
analizzare le tappe fondamentali del processo evolutivo dell’intero sistema e le cause che hanno obbligato il legislatore ad una radicale modifica dell’impianto previdenziale al fine di non pregiudicarne la sostenibilità futura.
1.2: La previdenza di base verso la sostenibilità
Come abbiamo già ampiamente detto, molte sono state le riforme strutturali che si sono succedute nel corso di questi ultimi trent’anni e che hanno radicalmente mutato il sistema pensionistico. Sebbene siano state tutte principalmente rivolte a rendere sostenibile ed equo questo istituto, limitando la spesa pubblica, non hanno però minato le concezioni di base su cui poggiano le fondamenta della previdenza sociale. L’origine è da ricercarsi nella nascita della c.d. questione sociale, definita da Cinelli, come quell’insieme di “fenomeni sociali, economici ed etici, conseguenti alle profonde
trasformazioni determinate dalla rivoluzione industriale” 10 riflessasi in Italia attorno
alla fine del XIX° secolo. Con l’evolversi della rivoluzione industriale, l’inurbamento creò una massa di lavoratori poveri, sfruttati e ad alto rischio d’infortuni sul lavoro. L’emergere del problema sociale e umano fece sì che l’opinione pubblica si sensibilizzò rispetto ai problemi sociali del lavoro. Fu in questo contesto che vennero a delinearsi le due principali concezioni che tutt’ora reggono l’istituto della previdenza. La prima, di stampo tedesco, ha come obiettivo la protezione dei lavoratori da eventi negativi che impediscano loro di svolgere il lavoro e ottenere un guadagno, come la malattia, l’infortunio, la disoccupazione o la vecchiaia. È con l’obiettivo super partes del mantenimento dell’ordine pubblico che si rende possibile un suo finanziamento sia da parte dello Stato sia dei lavoratori e datori di lavoro; la seconda, proveniente invece dallo spirito legato al welfare state britannico conferisce allo Stato il dovere di aiutare il cittadino in uno stato di bisogno che riguardi la sua situazione economica, fisica e sociale finanziando questi interventi con l’imposizione di imposte di carattere generale.
10 Cinelli M., Diritto della previdenza sociale, Cap. 2, Origine e sviluppi del sistema previdenziale italiano, Giappichelli editore, Torino, 2007.
Lo stesso tema viene trattato anche in Persiani M., Diritto della previdenza sociale, Cap.1. L’evoluzione della previdenza sociale, Dodicesima edizione, Cedam, Padova, 2012.
Il tema della sicurezza sociale verrà accolto anche nella Costituzione repubblicana che, venuta meno l'organizzazione fascista, ha racchiuso nei primi due commi dell’art. 38 entrambe queste concezioni giustificandone interventi di entrambe le nature, sia solidaristica che di protezione. Infatti, la carta costituzionale sancisce che “ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”11, inoltre che “i lavoratori hanno diritto a che
siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”12. Si evince
una tutela solidaristica verso chi si trova in condizioni di bisogno e, come fa notare lo stesso Cinelli, questa prospettiva è presentata già nell’art. 3 della Costituzione che, infatti, prevede che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”13.
Cavalcando queste spinte ideologiche e la forte crescita economica garantita da una domanda interna sospinta dai forti bisogni creati dalle guerre e dalle nuove tecnologie, l’evoluzione del sistema di sicurezza sociale ha assistito ad un passaggio da una fase iniziale in cui il sistema era volontario e basato sui contributi dei soggetti che volevano aderirvi ad un sistema sempre più universale che disponeva tutele e diritti a fasce sempre più ampie dei cittadini. Due sono le tappe fondamentali in questo processo verso la generalizzazione del sistema che provocano forti ricadute sul sistema e, come vedremo, andranno a minarne la sua sostenibilità; la prima avviene nel 1945 quando, come precisa anche Cesari, a causa della forte crescita dell’inflazione bellica e della conseguente svalutazione delle pensioni si decise per il passaggio dal sistema a capitalizzazione a quello a ripartizione14. Mentre con il primo
i contributi versati dai lavoratori vengono investiti in attività fruttifere che permettano di garantire un’adeguata rivalutazione di questo capitale così da essere in
11 Costituzione, 1947, Art. 38 comma 1. 12Costituzione, 1947, Art. 38 comma 2.
13Costituzione, 1947, Art. 3 comma 2.
grado di pagare le pensioni future di questi stessi lavoratori, con il nuovo sistema a ripartizione i contributi versati dai lavoratori vengono immediatamente utilizzati per il finanziamento delle pensioni percepite da chi ha raggiunto l’età del pensionamento. Questa riforma, permise l’estensione delle tutele previdenziali anche a fasce di lavoratori che avevano effettuato una contribuzione scarsa o addirittura nulla. Nonostante il patto tra generazioni che era venuto a crearsi, in questo modo sembrava garantita la possibilità di finanziare sia le pensioni di allora, sia quelle di domani. La seconda tappa fondamentale di questo processo, che causò un ulteriore punto di svolta del sistema15, si compì nel 1968 quando, sulle ali del boom economico
vissuto dall’Italia in quegli anni si decise per un ulteriore azzardo: dal metodo contributivo, che aveva caratterizzato il sistema fino a quel momento, si passò al sistema retributivo che legava la pensione non più all’ammontare dei versamenti effettuati duranti gli anni lavorativi ma ad una percentuale16 della retribuzione
percepita nell’ultimo triennio. La scelta di mutare il parametro di riferimento passando dall’utilizzo del sistema di calcolo contributivo, considerato da Cinelli
“meritocratico nella determinazione della prestazione adeguata” 17, all’utilizzo del
sistema di calcolo retribuito ha, secondo lo stesso Cinelli, “chiare potenzialità
sperequative” in quanto non è più preso in considerazione il contributo complessivo
ma si premiano le categorie a cui sono corrisposti i redditi di tipo più dinamico. Fu in questo modo rimodellato un sistema di sicurezza sociale altamente vantaggioso per i lavoratori che però andava a gravare in maniera molto importante sulle casse dello Stato che, non appena il boom economico frenò la sua portata si trovò in una situazione di difficile sopravvivenza.
1.2.1: La crisi demografica, economica e della finanza pubblica
Gli azzardi della politica in materia pensionistica hanno originato un sistema che, alla fine degli anni ’60, prevedeva una pensione minima garantita a tutti i cittadini e diritti
15 Cesari R., I fondi pensione, Il Mulino, Bologna, 2007, Pag. 29 e ss.
16 La pensione venne commisurata al 65%, poi 74% della retribuzione percepita nell’ultimo triennio e agganciata, con un sistema di “scala mobile”, all’indice del costo della vita.
17 Cinelli M., Diritto della previdenza sociale, Cap. 4, L’oggetto della tutela, Giappichelli editore, Torino, 2007.
previdenziali estesi a tutte le categorie di lavoratori, sia pubblici che privati, commisurati alla retribuzione media dell’ultimo triennio lavorato. In merito al finanziamento di questo sistema, come abbiamo visto, era in vigore il regime a ripartizione che obbligava lo Stato a ingenti sovvenzioni che pesavano sempre più sulla spesa pubblica. Il raggiungimento di un sistema previdenziale così generalizzato si andrà ben presto a scontrare con tre fattori esterni, tra loro collegati, che, come sostiene Cesari, “ne andranno inesorabilmente a minare la sostenibilità futura” 18.
Il primo fattore riguarda i processi demografici che hanno investito non solo l’Italia ma, in generale, tutti i paesi occidentali. Dopo il periodo del boom economico che aveva portato ad un importante aumento della fecondità, la tendenza si è invertita e i grandi passi avanti in campo economico e soprattutto sanitario, hanno portato ad un evidente aumento della vita media e ad una forte riduzione del tasso di fecondità legato anche all’evolversi della società da agricola ad industriale, all’emancipazione della donna, non ultimo anche agli sviluppi della contraccezione. In questo quadro demografico che veniva a crearsi, come viene osservato anche da Amato e Marè, la principale conseguenza è un drastico invecchiamento della popolazione che si va a riflettere sulle risorse assorbite dalla spesa pensionistica19.
Gli squilibri creati da questo sviluppo demografico sono ben intuibili se si analizzano utilizzando le serie storiche e i dati registrati dall’Istat; ciò che meglio di tutti va ad evidenziare la dinamica demografica che colpisce il nostro paese nel corso degli ultimi cinquant’anni è l’analisi dell’evoluzione della piramide delle età. Suddividendo la popolazione per classi di età, mostra il repentino passaggio da una società a forma piramidale, tipica del periodo post boom economico, ad una società a forma romboidale. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, infatti, la struttura della società era caratterizzata da una grossa base di giovani, frutto anche dell’espansione demografica, il c.d. baby boom, originatosi dal benessere crescente degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, e da una popolazione che andava via via assottigliandosi nel numero man mano che avanzava con l’età data la corta durata della vita media. I dati registrati a fine anni ’60 mostravano una speranza di vita alla
18 Cesari R., I fondi pensione, Il Mulino, Bologna, 2007, Pag. 31 e ss.
nascita che, negli uomini si attestava intorno a 67 anni, mentre nelle donne a 72; il tasso di fecondità registrava una media di quasi due figli a mezzo per famiglia; l’indice di vecchiaia20 non superava il 38,9, per cui, il numero di giovani superava di due volte
e mezza il numero della popolazione anziana mentre l’indice di dipendenza21 era fisso
attorno al 51,5 evidenziando la presenza di 1 pensionato ogni 2 lavoratori.
Erano le condizioni ideali per un passaggio ad un sistema pensionistico di tipo ripartitivo essendo garantito il finanziamento delle pensioni di allora con i contributi dei soggetti attivi. Ma, come abbiamo detto, la struttura della società non è rimasta cristallizzata in questo stadio ma ha subito una radicale modificazione che, se da un lato ha creato miglioramenti indiscussi per la vita del singolo cittadino, dall’altro ha reso insostenibile le scelte in campo previdenziale fino ad allora istituite. Infatti, già con l’analisi dei dati registrati alla fine degli anni ’80 si nota una brusca variazione nelle caratteristiche della società: cresce la speranza di vita sia per gli uomini che per le donne, per i primi arriva a 71 anni, nelle donne a circa 78; il tasso di fecondità subisce una brusca frenata attestandosi attorno all’1,59 arretrando di quasi un punto; l’indice di vecchiaia si innalza fino a 61,7, connotando un già enorme aumento del numero degli anziani che vanno a superare la metà dei giovani mentre l’indice di dipendenza subisce un lieve avanzamento fino ad attestarsi a 53,1. La situazione è sempre più destinata ad evolversi in questo senso, infatti, i dati degli anni successivi vanno ad amplificare sempre più questa evoluzione. Alle soglie del nuovo millennio la speranza di vita grazie ai progressi della scienza subisce un ulteriore passo in avanti arrivando fino a 77 anni per gli uomini e 83 per le donne; il tasso di fecondità arretra fino all’1,25, la classica famiglia dei giorni nostri con un figlio, massimo due; l’indice di dipendenza subisce delle lievi revisioni al ribasso mentre l’indice di vecchiaia subisce un ribaltamento arrivando a 127; per la prima volta nella società italiana il numero di anziani supera il numero di giovani.
La situazione attuale rispecchia questa evoluzione in cui la speranza di vita alla nascita giunge a 79 anni per gli uomini e 84 per le donne; il tasso di fecondità,
20 Indice di vecchiaia (def. Istat): rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e la popolazione fino a 14 anni di età, per 100.
21 Indice di dipendenza (def. Istat): rapporto tra la popolazione in età non attiva (fino a 14 anni e di 65 anni e più) e la popolazione in età attiva (tra 15 e 64 anni), per 100.
seguendo l’evolversi dei fenomeni immigratori sale leggermente verso 1,4; l’indice di vecchiaia arrivando a 144,5 denota una società sempre più anziana e l’indice di dipendenza, variabile chiave per capire la sostenibilità del sistema previdenziale, rimane controllato attorno al 52,3.
Figura 1.1: Popolazione per classe di età decennale e sesso, indicatori di vecchiaia e di dipendenza
strutturale ai censimenti 1861-‐2001 e anno 2009, ai confini dell'epoca.
Ciò che, raccogliendo tutte queste dinamiche, meglio di tutto permette di evidenziare l’evolversi della società è la precedente Figura 1.1 che riassume la popolazione per
classe di età decennale comprendendo i dati disponibili dall’unità d’Italia fino ai giorni nostri evidenziando l’evoluzione dell’indice di vecchiaia e dell’indice di dipendenza strutturale. Si evince in modo chiaro come la suddivisione della popolazione tra le diverse età sia via via più equa e come la dinamica demografica stia caratterizzando l’evolversi della struttura della società verso un’ulteriore forma rettangolare della piramide dell’età.
Le ultime elaborazioni dell’Istat realizzate nell’anno 2012, prevedono, infatti, che per il 2065 la speranza di vita alla nascita abbia raggiunto gli 87 anni per gli uomini e i 91 per le donne; una tendenziale diminuzione della popolazione sarà accompagnata da uno scoppio dell’indice di vecchiaia che potrebbe schizzare fino a 257 indicando la presenza in media di più di due anziani e mezzo ogni giovane. Sono tutti indici di un generale invecchiamento della popolazione che, mantenendo un sistema previdenziale basato sul meccanismo a ripartizione, in cui la sempre crescente quota di anziani, usciti dal mondo del lavoro, è tutta a carico dei soggetti che lavorano rappresentandone sempre più un peso, provoca una facile considerazione sulla sua inevitabile insostenibilità.
Una popolazione sempre più anziana e dipendente dal sistema previdenziale potrebbe essere sostenuta da un sistema così strutturato solo con un’evoluzione economica positiva duratura che consenta un recupero dell’occupazione, del reddito e perciò della possibilità per chi lavora di finanziare il sistema. Purtroppo però, a partire dagli anni ’70 l’Italia ha assistito al fenomeno opposto, ossia ad un’importante crisi economica strutturale. Il periodo di crisi che ha avuto origine dagli shock petroliferi del periodo ’73-‐‘76, seppur con alcuni periodi di crescita economica, non si è ancora concluso e, a causa della crisi prima finanziaria, poi economica e infine fiscale, originatasi dagli Stati Uniti d’America nel 2008, sta avendo un forte impatto sull’Italia e, come analizzato dalla Covip nella relazione per l’anno 201122, anche sul
sistema pensionistico. L’attuale recessione, infatti, è conseguente ad un periodo in cui, l’espansione delle nuove tecnologie, ha prodotto un sensibile aumento della
disoccupazione raddoppiata nell’arco del decennio ’70-‐‘80, passando da un 6% ad un 12%.
Come viene fatto notare anche da Cesari, “i licenziamenti, la cassa integrazione e i
prepensionamenti hanno ridotto il numero di lavoratori dipendenti, principale fonte di
finanziamento per il sistema” inoltre, continua, “analogo effetto ha avuto, in anni
recenti, la trasformazione delle forme di lavoro con la diffusione della flessibilità, della precarietà e delle tipologie atipiche” 23. Sebbene la produttività del lavoro sia triplicata
dagli anni ’70, non ha consentito una compensazione della crescita scriteriata dei trattamenti pensionistici.
Le ricadute di tutto questo processo sono ben evidenziate nel coefficiente che più di tutti è ritenuto fondamentale per capire la sostenibilità del sistema pensionistico: l’indice di dipendenza, difatti, subirà, secondo le previsioni dell’Istat del 2012 per il 2065, un pesante balzo in avanti raggiungendo quota 82,8, creando grossi problemi ad un sistema previdenziale che vedrà una persona non attiva ogni 1,2 lavoratori. Non bastasse questo quadro, a minare la sostenibilità dell’intero sistema ci hanno pensato anche le decisioni miopi dei politici che, da metà degli anni ’70, sostenendo una progressiva espansione dello stato sociale, oltre ad aver illuso le generazioni promettendo trattamenti pensionistici che lo Stato non sarebbe stato più in grado di sostenere, hanno portato ad una fase di progressivo indebitamento l’intero sistema. Sono giunti ad uguale conclusione anche Amato e Marè che, difatti, sostengono anch’essi come “gli squilibri del nuovo contesto demografico siano stati aggravati
dall’elevatezza delle prestazioni offerte, che hanno determinato un accumulo di passività ingenti” 24.
Una finanza pubblica già di per sé in crisi dovendo sostenere anche altri importanti spese come la sanità, l’istruzione e la sovvenzione delle imprese pubbliche, si è trovata negli anni a dover finanziare sempre di più anche il sistema pensionistico. Il grafico della Figura 1.2, illustra in modo chiaro l’andamento della spesa gravante sul
Pil che, se attorno agli anni ’60 si attestava a circa il 5%, è cresciuta in maniera incessante diventando sempre più insostenibile.
23 Cesari R., I fondi pensione, Il Mulino, Bologna, 2007, Pag. 36-‐37.
Attualmente, in una situazione in cui la spesa per pensioni rappresenta, nella media europea, circa il 10% del PIL, in Italia si attesta a oltre il 16%.
Figura1.2: Spesa pensionistica totale. Anni 1980-‐2010, incidenza percentuale sul PIL.
Fonte: Istat, L’Italia in 150 anni, Cap. 2, Popolazione.
Infine, a incidere pesantemente sulla sostenibilità del sistema e a obbligare una sua profonda revisione ha contribuito, secondo Disney, anche “l’irresponsabilità fiscale dei
governi tesi alla ricerca del facile consenso nell’immediato e gli errori nelle previsioni delle variabili economiche e demografiche” 25. Si intendono in questo caso tutte quelle
manovre che hanno permesso, sulla spinta della forte crescita economica di allora, un’estensione universale delle protezioni previdenziali senza attenzione al rispetto dei futuri vincoli di bilancio e i ricorrenti e sistematici errori nelle previsioni delle principali variabili demografiche che, secondo i più, sono state fatte consapevolmente per scaricare sulle generazioni future il problema pensionistico.
1.2.2: Le ragioni di un sistema pensionistico misto
È stato fin qui evidenziato come il sistema previdenziale necessitasse di una forte revisione nella sua struttura di base per renderlo sostenibile nonostante le trasformazioni alla società indotte dall’evoluzione della situazione demografica, economica e finanziaria.
Le modifiche apportate dal legislatore s’ispirano tutte alla creazione di un sistema misto fondato su più pilastri che Amato e Marè, nelle loro analisi del sistema,