• Non ci sono risultati.

Nel controllo della dinamica dei cambiamenti globali del clima, le foreste svolgono un ruolo importante perché contribuiscono a regolare il ciclo del carbonio, anche se occorre tenere presente che la loro sopravvivenza e la loro funzionalità è fortemente influenzata e minacciata da tali cambiamenti. Recenti studi di diversa fonte, basati su simulazioni, presuppongono che le aree già a forte tensione, sia climatica (alte temperature, scarsa piovosità) che per pressioni antropiche, saranno sottoposte ad effetti più marcati e dannosi a causa dei cambiamenti climatici (MARINO et al.,

2005).

Tutto ciò è spiegato dal fatto che gli impatti dei cambiamenti climatici sono in massima parte dipendenti dai sistemi naturali. Dove esistono ecosistemi sufficientemente stabili e più vicini alle condizioni naturali, si avrà maggiore resistenza ai mutamenti del clima e, quindi, si avrà maggiore possibilità di continuare ad erogare i servizi ecosistemici dai quali dipende il grado di prosperità e il futuro benessere. Per questo gli ecosistemi devono essere al centro di qualsiasi politica di adattamento ed è pertanto necessario ridurre tutte le azioni che ne causano la frammentazione, il degrado, l'eccessivo sfruttamento e l'inquinamento (LIBRO

VERDE, 2007).

Svariati sono i fattori di disturbo che, nella regione mediterranea, hanno compromesso i processi naturali che regolano la funzionalità e l’evoluzione degli ecosistemi forestali.

Tutte le trasformazioni nell'utilizzo del suolo, dalla foresta alle coltivazioni agrarie, al pascolo, agli incendi, allo sfruttamento irrazionale del territorio, hanno provocato danni molto gravi e non facilmente risanabili. Molte superfici boschive sono state depauperate e impoverite. Si sono manifestati frequenti e gravi fenomeni erosivi che hanno costituito un'ulteriore minaccia per il territorio. Ha iniziato a manifestarsi il grave fenomeno della desertificazione aggravata dall'aumento degli incendi boschivi, emblema della crisi attuale. Per tutto ciò, in Italia vengono considerate maggiormente a rischio la parte meridionale del paese e le aree montane, anche se è vero che a scala nazionale si registra una espansione delle superfici forestali (INFC, 2005).

Quanto esposto evidenzia i forti stress fisiologici subiti dalle piante forestali, che vengono limitate nel loro vigore vegetativo e predisposte a forme progressive di degrado. Questa condizione è resa ancor più grave dal fatto che la maggior parte degli ambienti forestali mediterranei è storicamente sottoposta a disboscamenti, incendi e allo sfruttamento agro-pastorale intensivo, oltre a presentare caratteristiche

33 di instabilità ecologica anche per motivi climatici, orografici e pedogenetici. Tutti questi fattori creano notevoli difficoltà per il ritorno delle cenosi degradate verso formazioni forestali. Questo stato di fragilità appare ancora più evidente negli impianti monospecifici, con specie esotiche o indigene piantate fuori dalle loro zone di origine, che presentano rischi di disequilibrio che diventano maggiori, quanto più le stesse sono al limite del loro areale potenziale. Il “deperimento del bosco” appare come la conseguenza più evidente dei mutamenti climatici, sia nei popolamenti di conifere che di latifoglie. Questo fenomeno, in continua crescita, è caratterizzato dal progressivo degrado della vegetazione fino a morte completa delle piante. Questi fattori, innescati da stress di varia natura, sono inoltre aggravati dagli attacchi di patogeni e fitofagi. Esistono notevoli difficoltà, a causa della complessità eziologica del fenomeno, nel definire e applicare misure efficaci di prevenzione e, nonostante i numerosi studi, il deperimento del bosco costituisce ancora oggi il principale problema sanitario delle foreste mediterranee (FRANCESCHINI et al., 2008).

Va tuttavia rilevato che, un aumento delle concentrazioni di CO2 può avere non solo

effetti negativi ma anche alcuni effetti positivi. L'anidride carbonica come gas serra è responsabile del principale effetto negativo, infatti il costante aumento della temperatura degli ultimi decenni e stato messo in relazione diretta, con sempre maggiore affidabilità, con il parallelo aumento della concentrazione di questo gas. Mentre i potenziali benefici derivano dalla stimolazione dell’attività fotosintetica e dal miglioramento dell’efficienza dell’uso idrico delle piante. L’effetto fertilizzante dell’aumento di CO2 può essere peraltro ridotto o neutralizzato dall’eventuale

presenza di fattori limitanti, quali la disponibilità di azoto nel suolo, o dal possibile incremento della respirazione sia delle piante che del suolo, stimolata dall’aumento della temperatura dell’aria.

Per quantificare e comprendere meglio il ruolo delle foreste nel bilancio globale di carbonio, occorre effettuare studi di lungo periodo finalizzati alla stima dell’assorbimento netto di carbonio nell’ecosistema forestale. I metodi classici inventariali, basandosi su relazioni allometriche tra il diametro a petto d’uomo e la biomassa delle piante, forniscono stime pluri-annuali della produzione primaria netta. Le relazioni allometriche sono spesso limitate alla sola componente epigea, sono sviluppate per lo più per formazioni coetanee e monospecifiche e, per loro natura, non considerano le dinamiche del suolo che, insieme ai processi di produzione primaria, determinano il bilancio netto di ecosistema. (MARINO et al., 2005; BARFORD et al., 2001)

Molti sono gli approcci metodologici proposti per l’identificazione e la valutazione dei danni economici derivanti dal cambiamento climatico per proporre e sviluppare strategie e politiche di adattamento e mitigazione. Appare pertanto plausibile ipotizzare una serie di probabili impatti gravanti sul sistema economico, strettamente connessi ad una lettura specifica del territorio (dal livello locale a quello internazionale), all’arco di tempo preso in esame (danni a breve, medio o lungo termine) ed, in ultimo, al settore considerato (agricoltura, selvicoltura, turismo ecc.). Per quanto concerne specificatamente il settore forestale, dobbiamo inevitabilmente

34 tenere in considerazione due aspetti: da un lato il carattere di multifunzionalità dei soprassuoli e quindi la necessità di definire a priori l’ambito funzionale da studiare e, dall’altro, la tipologia di danno economico da valutare, quantificabile ad esempio come perdite monetarie da alterazioni climatiche ed eventi estremi o derivanti da spese di mitigazione del rischio.(BERNETTI et al., 2010).

Facendo riferimento a quanto proposto nel “Libro Bianco” della Commissione Europea “L’adattamento ai cambiamenti climatici: verso un quadro d’azione europeo” (LIBRO BIANCO, 2009), il rischio di danni da cambiamenti climatici è stato considerato come conseguenza dell’azione di due fattori: la vulnerabilità del sistema in esame e la sua resilienza.

Per vulnerabilità s’intende il grado di suscettibilità di un sistema agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e la sua incapacità a farvi fronte; includendo la variabilità del clima e gli eventi meteorologici estremi. La vulnerabilità dipende dalla natura, dall’entità e dalla velocità dei cambiamenti climatici e dalle variazioni cui è esposto un determinato sistema, dalla sua sensibilità e dalla sua capacità di adattamento. Al contrario, per resilienza (IPCC, 1997b) s’intende la capacità dello stesso sistema di assorbire le perturbazioni mantenendo la stessa struttura e le stesse modalità di funzionamento di base. Vulnerabilità e resilienza dei sistemi agroforestali antropizzati dipendono, in sintesi, da due ordini

di fattori: le caratteristiche ambientali, definite da variabili ecologiche, morfologiche e geologiche e la possibilità del sistema socio-economico locale di intervenire attivamente e autonomamente per mitigare il danno. Entrambe le categorie di variabili agiscono a livello strettamente locale, e debbono quindi essere stimate e georeferenziate per poter definire politiche di intervento efficaci (BERNETTI et al., 2010).

4.1.1. - Effetti dei cambiamenti climatici sulla vegetazione

I principali elementi che agiscono sulle specie animali e vegetali, quali, l’aumento della temperatura, il cambiamento del regime delle precipitazioni e dei venti, le variazioni di frequenza e intensità degli eventi estremi, definiscono le caratteristiche ambientali come la disponibilità dei nutrienti fondamentali per lo sviluppo dei produttori primari, la copertura dei ghiacci e, in mare, l’intensità dei moti convettivi e avvettivi, la trasparenza e il livello stesso delle acque. Tutte le specie sia animali che vegetali, possono rispondere a tali variazioni adattandosi alle nuove condizioni, in base alla loro plasticità fenotipica, attraverso la selezione di varianti genetiche la cui fisiologia permetta la sopravvivenza nelle nuove condizioni (MATTM, 2009). Tutti questi fenomeni di disturbo possono condurre ad una risposta alternativa o complementare come lo spostamento nel tempo delle fasi del loro ciclo di vita oppure nello spazio, cioè verso latitudini o profondità della colonna d’acqua, dove le

35 condizioni siano ancora adeguate o lo siano divenute. L'insieme dei cambiamenti fisiologici, fenologici, demografici, geografici di singoli individui o specie porta inevitabilmente a modificare le relazioni trofiche, competitive e, più in generale, interspecifiche. Quanto esposto comporta il realizzarsi di impatti complessi e, in ultima analisi, la modificazione degli ecosistemi e della loro biodiversità. Escludendo i processi che avvengono su tempi propri dell’evoluzione biologica, gli effetti del cambiamento climatico su specie ed ecosistemi possono essere raggruppati nelle seguenti principali categorie (IUFRO, 2009):

a) impatti sulla fisiologia e sul comportamento; b) impatti sul ciclo vitale;

c) impatti sulla distribuzione geografica;

d) impatti sulla composizione e sulle interazioni delle specie nelle comunità ecologiche.

È necessario considerare i tempi di risposta che caratterizzano i diversi processi influenzati dal cambiamento climatico, dai tempi brevi per gli impatti sulla fisiologia (giorni-mesi), a quelli più lunghi per le variazioni di areale (anni-decenni), fino alle scale tipiche dei processi evolutivi (centinaia di anni-millenni).

a) Impatti sulla fisiologia e sul comportamento

Sulla vegetazione forestale, il più immediato e riconoscibile effetto dei cambiamenti climatici è l'impatto che, certamente, questi fenomeni determinano sulla fisiologia e sulla fenologia delle piante. Alle medie latitudini, in massima parte, la temperatura dell’aria regola le fasi fenologiche primaverili come la germogliazione, il dispiegamento fogliare e la fioritura. La fase fenologica autunnale prevede un maggior numero di variabili. Numerose possono essere le variabili presenti nell'ambiente esterno che possono influenzare le fasi fenologiche, siano esse più o meno direttamente legate al clima, come, per esempio, i livelli di CO2, la

concentrazione di Ozono e i cicli dell’attività solare. Numerosi studi hanno registrato alle medie latitudini dell’emisfero settentrionale un anticipo dell’avvento delle fenofasi primaverili, più marcato per gli eventi fenologici propri delle primissime fasi dell’inizio della stagione vegetativa (ad es., rottura delle gemme, prima fioritura). Anche i dati riguardanti le fasi di fenofasi autunnali, pur tenendo conto dell’incertezza legata alle osservazioni di questa stagione, hanno rilevato che l’anticipo primaverile è accompagnato da un ritardo dell’inizio autunnale con conseguente allungamento della stagione vegetativa in tutte e due le estremità (MATTM, 2009).

L’evoluzione nei generi Fagus, Quercus, Prunus, Fraxinus, ha determinato la fissazione di cicli fenologici definiti in un percorso vegetativo annuale caratterizzato da una dormienza indispensabile per il superamento dei freddi invernali da una parte, e per il completamento di cicli ormonali endogeni dall’altra. Un incremento nei

36 valori di temperatura può avere un effetto negativo sulla dormienza riducendone la durata, con conseguente rallentamento delle attività ormonali. Queste rivestono ruolo essenziale sulla differenzazione a fiore che, nel caso sopra indicato, può essere bloccata. La pianta di per sé può avere garantita la sopravvivenza, ma non la sua capacità rigenerativa: in questo caso l’estinzione è solo rimandata (GIANNINI, 2013). Confermando studi riconosciuti ormai generalmente legittimi, tutti i programmi europei di monitoraggio delle foreste (incluso il Programma CONECOFOR italiano) basati su ricerche confermate da tutto il mondo accademico come universalmente valide, indicano un anticipo medio di 3 giorni ogni 10 anni di tutte le fasi vitali delle principali specie forestali (emissione delle foglie, fioritura e fruttificazione). Negli ultimi 50 anni, quindi, tutti i cicli naturali delle foreste hanno subito un anticipo di circa 15 giorni, in grado di provocare gravi danni all’equilibrio delle componenti vegetali, animali e del suolo delle nostre foreste, contribuendo alla loro progressiva disgregazione (PETRICCIONE, 2007).

Molteplici studi, con riferimento a questo processo, sono concordi nel rilevare una variazione della stagione vegetativa, sia partendo da dati fenologici provenienti da esercizi a scala europea, sia da modellizzazioni sulla base dei parametri climatici sia, infine, da dati acquisiti attraverso rilevamento satellitare. Queste osservazioni hanno segnalato variazioni della stagione vegetativa, soprattutto per anticipi della fase primaverile, da 0.12 a 0.43 giorni anno, sino ad 1.16 giorni anno, per il periodo 1982- 1999 nelle zone temperate della Cina. Rispetto a questi dati, va segnalato che, mentre l’anticipo della fase primaverile sembra avere un effetto generalmente positivo sul bilancio del carbonio degli ecosistemi terrestri, il ritardo della chiusura autunnale può determinare effetti controversi con, ad esempio, la perdita di carbonio negli ecosistemi boreali (SCARASCIA MUGNOZZA et al., 2010).

b) Impatti sul ciclo vitale

Molteplici sono i fattori che interagendo fra di loro sono causa di mortalità di una pianta, da una particolare sequenza di stress climatici, dal ciclo vitale degli insetti parassiti fino alle malattie. La siccità può funzionare come un fattore causale che può portare alla mortalità quelle piante già poste sotto stress da ''fattori predisponenti'' come la vecchiaia, le mancanza di nutrienti nel terreno, l’inquinamento atmosferico, l'attacco di agenti patogeni e fungini. Di seguito si elencano alcuni esempi di impatti connessi alla siccità:

- l'estrema siccità e il calore uccidono gli alberi attraverso la cavitazione di colonne d'acqua all'interno dello xilema;

- la carenza d'acqua causa stress, provocando limitazioni metaboliche che riducono la fissazione del carbonio, riducendo la capacità della pianta di difendersi dagli attacchi da parte di agenti biotici, quali insetti o funghi;

37 - giorni prolungati di elevato calore possono determinare un aumento nell’abbondanza delle popolazioni di agenti biotici, consentendo loro di attaccare con maggior efficacia una pianta già in stress da siccità.

Bassi potenziali idrici del tessuto durante la siccità possono dunque vincolare il metabolismo della pianta, impedendo così la produzione e la traslocazione di carboidrati, resine e altri prodotti del metabolismo secondario, per la difesa contro gli attacchi biotici.

L'aumento della temperatura aumenta il deficit di pressione di vapore e l'evaporazione nell'atmosfera. Tutto ciò si traduce in una maggiore perdita di acqua attraverso la traspirazione con la chiusura degli stomi nel caso di specie mesofite, oppure decresce il margine di sicurezza da guasto idraulico nel caso di specie xerofite. L'aumento delle temperature può influire sullo stoccaggio del carbonio degli alberi in modo particolarmente negativo, perché il tasso di carboidrati consumato e richiesto dal metabolismo cellulare (respirazione ) è fortemente legato alla temperatura.

Altri impatti sulla vegetazione possono essere causati dagli agenti inquinanti. Le foreste sono profondamente influenzate dal cambiamento climatico e dall’inquinamento che agiscono sulle proprietà chimiche del suolo, sulla crescita degli alberi, sulla biodiversità, sul livello di sensibilità delle piante agli stress, sul rischio d’incendio, sulle risorse idriche, sul loro valore ricreativo, ecc. Il cambiamento climatico può alterare gli effetti degli inquinanti sugli ecosistemi terrestri. A loro volta, gli inquinanti possono modificare le risposte degli ecosistemi agli impatti derivanti dal cambiamento climatico (GRASSI, 2005).

Tradizionalmente, gli impatti sugli ecosistemi forestali vengono trattati separatamente per l’inquinamento e il cambiamento climatico. Peraltro, gli effetti combinati dei vari fattori legati a questi fenomeni possono significativamente differire dalla somma dei loro effetti separati, a causa di una serie di interazioni sinergiche o antagoniste (PAOLETTI, 2007).

L’anidride solforosa (SO2), i nitrati NOx e NH3, come anche i vapori di HNO3,

possono avere effetti fitotossici diretti, ma solo ad alte concentrazioni. Le forme gassose di azoto e i composti azotati solubili in acqua contribuiscono al complesso fenomeno dell’eutrofizzazione. L’ozono è l’inquinante con il più alto potenziale fitotossico e si prevede che, entro il 2100, la metà delle foreste mondiali sarà esposta a livelli potenzialmente tossici (FLOWLER et.al., 1999).

I fattori del cambiamento climatico che provocano l’apertura degli stomi come per esempio l’incremento della temperatura, aumentano la sensibilità delle piante agli inquinanti gassosi come SO2 e O3. I fattori che comportano la chiusura degli stomi,

quali stress idrico e aumento della CO2, aiutano a proteggere la pianta dagli

inquinanti gassosi. I fattori del cambiamento climatico che conducono a un periodo di accrescimento più lungo (riscaldamento) aumentano l’esposizione delle piante agli

38 inquinanti, mentre i fattori che abbreviano il periodo di crescita (stress idrico) riducono l’esposizione e quindi il danno (PAOLETTI, 2007).

c) Impatti sulla distribuzione geografica

Le tendenze climatiche in atto e quelle previste dagli scenari dell’IPCC sposteranno verso nord, a latitudini più elevate, le condizioni climatiche ed ambientali tipiche dell’area mediterranea. Questo significa che tutti gli ecosistemi del Mediterraneo tenderebbero a “migrare” verso l’Europa centro occidentale e settentrionale. La rapidità del cambiamento climatico in atto è però di gran lunga maggiore della velocità di colonizzazione di nuovi spazi della quale sono capaci le specie vegetali, soprattutto quelle dominanti nelle foreste. Nei prossimi anni è da attendersi quindi una progressiva “disgregazione” degli ecosistemi forestali, dei quali solo poche componenti potranno migrare in aree più adatte ai mutati scenari climatici, mentre la maggior parte di esse saranno destinate all’estinzione, almeno a livello locale (PETRICCIONE et al., 2008).

La frammentazione del territorio, legata alla presenza delle attività umane, può essere in grado di bloccare le potenziali “rotte” migratorie delle piante che non sempre sono adatte ad una colonizzazione intermedia, a causa di differenti caratteristiche climatiche ed edafiche. Va inoltre rilevato che le specie vegetali ed animali posseggono ognuna una diversa capacità e velocità di dispersione e colonizzazione: bisogna quindi pensare che si possa assistere alla progressiva disgregazione degli ecosistemi forestali che non saranno in grado di fronteggiare i cambiamenti climatici. Già nel passato, durante le diverse ere geologiche, abbiamo assistito, in seguito a rilevanti modifiche climatiche, allo spostamento delle specie forestali. Va però evidenziato come nelle attuali condizioni queste migrazioni dovrebbero avvenire ad una velocità più elevata che nel passato, velocità che è stata valutata in 1,5-5,5 Km all’anno nella direzione dei Poli e 1,5-5,5 m in altitudine. Da quanto esposto si deduce che dal punto di vista della biodiversità si potrebbe assistere a una riduzione temporanea della composizione specifica in alcune aree, dovuta alla degradazione o scomparsa delle foreste presenti, con la conseguente nascita di strutture più varie a causa delle variazioni ambientali (GIORDANO et al., 2008).

Una visione molto pessimistica fa intravedere scenari e paesaggi molto diversi anche a causa della componente fattore-tempo. La scomparsa di molte specie, per ridotto funzionamento eco-fisiologico, può essere molto veloce, mentre l’immigrazione può richiedere anche tempi assai lunghi, per cui è probabile che il processo sostituivo non sempre si manifesti attraverso un cammino lento, bensì con percorsi caratterizzati da fasi spazio/tempo distinte. Grandi speranze vengono riposte nella plasticità genomica delle singole specie e nelle capacità di queste di sopravvivere in microambienti favorevoli (GIANNINI, 2013).

I valori relativi al tasso evolutivo e alla velocità di immigrazione di questi ultimi, in un contesto generale, raggiungono valori molto bassi. Gli alberi forestali sono gli

39 organismi viventi con caratteristiche dimensionali massime, ma sono “costretti” a stare immobili anche per millenni (GIANNINI, 2013).

La velocità di occupazione è bassa, soprattutto nel caso di specie che:

– raggiungono la maturità sessuale in età avanzata se presenti all’interno del bosco: 70-100 anni;

– producono abbondante seme in anni anche molto distanziati nel tempo: 15-30 anni; – producono, in molti casi, seme pesante che cade, in massima parte, in prossimità della proiezione della chioma;

– sono caratterizzati da cicli successionali mediamente lunghi: 300-400 anni.

d) Impatti sulla composizione e sulle interazioni delle specie nelle comunità ecologiche

Le piante che crescono in modo relativamente lento, possono morire rapidamente. Per esempio un albero vecchio 200 anni può essere ucciso da una grave siccità anche in pochi mesi o, in base agli eventi, in pochi anni. Per cui una veloce mortalità di alberi adulti può provocare cambiamenti dell'ecosistema molto più in fretta di quanto si avrebbe con una graduale transizione guidata dal ciclo biologico delle piante. Questo fenomeno, conosciuto col nome di foreste del “die-off”, che costringe le piante ad adattarsi bruscamente alle nuove condizioni climatiche con effetti devastanti, produrrà cambiamenti sociali ed ecologici alquanto rilevanti (ALLEN, et al., 2009).

Va rilevato, inoltre, che la mortalità delle foreste su vasta scala potrebbe condurre, a livello regionale o globale, ad un cambiamento nel bilancio del carbonio. Dato che le foreste immagazzinano molto più carbonio rispetto all'atmosfera, con una consistente ed estesa moria di piante si assisterebbe al rilascio di nuovo carbonio nell'atmosfera. Si può presumere che il deperimento del bosco dovuto alla siccità, sia conseguenza della sua mortalità, questo fenomeno potrebbe trasformare le foreste tropicali da “sink di carbonio” in una grande fonte di emissione di CO2. Nel corso di questo

secolo, si potrebbe assistere ad una potenziale limitazione della capacità delle foreste del mondo di agire come serbatoi di carbonio nei prossimi secoli.

Rispetto al primo fenomeno, un aumento della temperatura media di 2-4 °C potrebbe

Documenti correlati