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The Tragedie of Dido, Queene of Carthage

SCENA PRIMA

Si apre il sipario e appare Giove che si dondola Ganimede sulle ginocchia. Mercurio giace addormentato.

GIOVE

Vieni, dolce Ganimede, e gioca con me,

checché ne dica Giunone, ti voglio proprio bene GANIMEDE

Grazie tanto! A che mi serve il tuo amore se non mi difende dai suoi colpi bisbetici? oggi, mentre vi riempivo le coppe

con in mano la pezzuola di seta per farvi bere,

rovesciai qualche goccia e lei mi allungò un tal ceffone da farmi colare il sangue dalle orecchie.

GIOVE

Che? Come osa colpire il tesoro del mio cuore? Per l’anima di Saturno e il mio crine spaventa-terra che, scosso tre volte, schianta i monti, torri di Natura, giuro che, se una sola volta ancora si arrabbia con te, l’appendo come meteora tra cielo e terra,

legata, mani e piedi, a corde d’oro, come già feci quando attaccò Ercole. GANIMEDE

Oh, potessi vedere questo bello scherzo, Che risate col fratello di Elena!

Poi convocherei gli dèi allo spettacolo:

dolce Giove, se mai ho trovato grazia ai tuoi occhi o ti piacevo, vestito d’ali d’aquila,

concedi questo dono alla mia bellezza immortale e io starò sempre tra le tue braccia splendenti. GIOVE

Che cosa, birbantello mio, potrei mai negarti? il volto della tua età riflette tali piaceri ai miei occhi che io, sciolto dai i tuoi raggi fiammeggianti,

ho spesso spinto indietro i destrieri della notte che ti avrebbero nascosto alla mia vista:

siedi sulle mie ginocchia e comanda a tuo piacere, controlla il Fato superbo e taglia il filo del tempo; perché tutti gli dèi non sono ai tuoi comandi e cielo e terra i confini della tua gioia? Vulcano danzerà per farti ridere,

e le mie nove figlie canteranno se sei triste: al pavone di Giunone strapperò il vanto iridato e ne farò ventagli per rinfrescarti il volto,

i cigni di Venere spargeranno le piume d’argento per addolcire i sonni del tuo letto:

Ermes non si vanterà più delle sue ali se le sue piume sono il tuo capriccio: tutte quante, come questa, gliele strapperò.

[Strappa una penna dalle ali di Mercurio] Di’ anche solo: «che bel colore che hanno»:

ed eccoti qui, mio piccolo amore, queste gemme intrecciate

[Gli dà gioielli] che la mia Giunone indossava il giorno delle nozze;

mettile intorno al collo, tesoro mio, e adorna braccia e spalle col mio furto. GANIMEDE

Vorrei un gioiello per il mio orecchio e una bella spilla per il cappello: allora, cento volte ti abbraccerei. GIOVE

E li avrai, Ganimede, se sarai il mio amore.

Entra Venere

VENERE

ah, è così! Te ne stai lì seduto a giocare con questo ragazzino lezioso e femmineo mentre il mio Enea vaga sui mari,

ed è preda dell’orgoglio dei flutti.

Oh Giunone, falsa Giunone, nel fasto del suo cocchio trainato nei cieli da destrieri della stirpe di Borea, ingiunse ad Ebe di virare le ruote eteree

sul ventoso paese delle nubi,

e lì, trovato Eolo in una trincea di tempeste scortato da mille orrendi fantasmi,

umilmente lo implorò della nostra rovina

e gli ordinò di affondare mio figlio e tutto il suo seguito. Ecco, i venti subito spalancarono le porte di bronzo e tutta l’Eolia insorse in armi:

o Troia, misera, ora sei predata sul Mare e le onde di Nettuno sono guerrieri invidiosi; il cavallo di Epeo, mutato nell’Etna,

si erge pronto a sfondare le loro mura di legno, e Eolo, come Agamennone, chiama a raccolta i marosi, suoi fieri soldati, a far bottino: guarda: avanza la notte come Ulisse, a intercettare il giorno, nuovo Dolone:

ohimé! Le stelle, catturate come i cavalli di Reso, il buio le spinge fuori dalle tende di Astreo. Cosa mai farò per salvarti, figlio mio dolce,

mentre le onde minacciano il nostro mondo di cristallo, e Proteo, sollevando alte colline di tempesta

è già pronto a farsi gioco di lui in cielo. Falso Giove, è così che ricompensi la virtù? Nemmeno la pietà risparmia dal dolore? Allora muori, Enea, da innocente,

ché questa fede non è ripagata. GIOVE

Frena gli affanni, Citerea,

ché salda è la sorte errante di Enea,

e le sue membra esauste avran presto ristoro, tra le belle mura che da tempo gli ho promesso, Ma dal sangue germoglierà la sua buona sorte, prima che sia re sulla città di Turno

o sia spinta al sorriso chi ora è in collera: tre inverni sarà in guerra coi Rutuli prima di domarli infine con la spada e tre intere estati così perderà

per aggiogare quelle feroci menti barbare: compiuto ciò, Troia misera, così a lungo spenta, dalle ceneri rialzerà il capo

e di nuovo fiorirà ciò che prima era morto. Ma Ascanio, miglior opera di bellezza, che del sole ha la forma radiosa,

porrà il suo trono tra le torri stellate

che il terrigeno Atlante gemendo sostiene;

nessun confine se non il cielo cingerà il suo impero, le cui porte di lapislazzuli, cesellate col suo nome, faranno fretta al grigio sorgere dell’alba

perché sazi gli occhi della sua fama istoriata. Così, per trecento anni il regale scettro di Roma resterà con la fiera stirpe di Ettore

finché una principessa sacra, gravida di Marte, porterà alla gloria un doppio parto

le cui gesta eterneranno Troia. VENERE

Come dar credito a queste parole suadenti

Quando ancora mare e sabbie assediano le loro navi e Febo, come nelle polle Stige, rifiuta

di tuffare le trecce negli abissi Tirreni? GIOVE

Di questo disporrò immediatamente:

Ermes, svegliati e corri al regno di Nettuno, poiché il dio dei venti ora lotta col Fato e assedia il virgulto dei nostri lombi regali; comandagli di richiamare le sue tempeste

e di saldarle ai ferrei ceppi di Vulcano

poiché, fiere, osano insidiare la quiete di un nostro caro. Venere addio, a tuo figlio penserò io.

Vieni Ganimede, mettiamoci all’opera.

Escono Giove e Ganimede.

VENERE

Mari inquieti, lasciate queste gonfie sembianze e blandite Enea con volto sereno;

il suo carico leggiadro vi farebbe fieri se i cieli, gravidi di nubi infernali,

non vi avessero celato la sua gloria radiosa. Pietà di lui, Oceano; fallo per me,

che un tempo uscii dai tuoi acquei lombi, e nacqui dalle tue bolle spumose:

Tritone, lo so, dà fiato con gioia alla tromba e perciò avrà pietà dei suoi travagli,

e chiamerà Teti e Cimotoe per soccorrerlo nei suoi stenti

Entrano Enea, Ascanio, Acate e altri

Ma che vedo? Mio figlio che giunge ora a riva: oh Venere, quale letizia ti avvince

e i tuoi occhi trovano gioie a lungo cercate: grande Giove che tu sia onorato, ancora, per questo aiuto così provvido nel bisogno. Qui, in questo arbusto, mi nasconderò, mentre il mio Enea si consuma in lamenti e riempie cielo e terra dei sui tormenti. ENEA

Voi figli di affanno, compagni nella sorte, la sventura di Priamo c’insegue per mare e il ratto di Elena c’incalza il calcagno. A quanti pericoli siamo scampati? Scilla ringhiosa e gli scogli ululanti

Le scogliere del Ciclope e il cupo seggio di Ceraunia: tutto superaste, e siete ancora in vita.

In alto i vostri cuori: il fato ci è ancora amico, e se mutano i cieli, forse torneranno i bei giorni in cui Pergamo vantava tutto il suo splendore. ACATE

Prode principe troiano, tu solo sei il nostro dio; con le tue virtù, ci liberi dagli affanni

e tieni invita le nostre speranze per gioie venture; un tuo solo sorriso rischiara il cielo cupo

e il tuo ciglio ne comanda la notte e il giorno; benché ora la sofferenza sia estrema,

e noi la mappa stessa della sventura in tempesta, di nuovo il sole maturo scioglierà le sue trecce, per darci la vita e il calore di un tempo,

e con i piccoli d’ogni sua fiera

la foresta rimpinguerà le nostre magre scorte. ASCANIO

Padre, svengo, buon padre, della carne! ENEA

Ahimé, figlio caro, dovrai aspettare

il fuoco per la selvaggina che abbiamo cacciato: buon Acate, prendi esca e acciarino

e facciamo un fuoco per scaldarci

e arrostire le vivande trovate su questo lido. VENERE

Guarda quali nuove arti impone il bisogno! [A parte] A cosa ti sei ridotto, mio dolce Enea?

ENEA

Ecco, tieni questa candela e va’ a preparare un fuoco troverai foglie e rami caduti in abbondanza

presso questi boschi per cuocere la carne. Ascanio, tu asciugati le membra inzuppate; io con il mio Acate esploro i dintorni

per capire su che lidi i venti ci hanno sbattuto e se vi abitano uomini o fiere.

[Escono Ascanio e gli altri] ACATE

L’aria è piacevole e il suolo adatto per sostenere uomini e città: mi meraviglia molto il non vedere per terra impronte umane.

VENERE

È il momento di fare la mia parte: Ehi, giovani! Avete visto per via una delle mie sorelle qui in giro cinta al fianco di una faretra

e coperta di pelle di leopardo maculata? ENEA

Una così non l’ho vista né udita:

ma come posso chiamarti, bella giovane? All’apparenza non sembri mortale

né le tue parole tradiscono origine umana. Sei una dea che inganni in nostri occhi e celi il tuo fulgore in quest’effimera forma; sia tu pure la fulgida sorella del sole

vivi felice e al colmo di ogni gioia

e allevia i nostri stenti con una sola grazia: insegnaci sotto quale buon cielo

ora respiriamo e come si chiama questo mondo su cui ci gettò la furia della tempesta.

Dillo, dillo a noi che ne siamo ignari e questa mia destra incrinerà i tuoi altari con montagne di candidi sacrifici. VENERE

Non sono degna di un tale onore, straniero: è costume delle vergini tirie portare

arco e faretra in questa foggia modesta e vestirsi di porpora per l’occasione per correre più agilmente per le piane e superare nella caccia il dentuto cinghiale. Quanto alla terra di cui chiedi,

è il regno punico, ricco e potente, unita alla nobile città di Agenore la reale sede della bassa Libia dov’è regina la sidonia Didone. Ma chi sei tu che così m’interroghi? Da dove vieni e dove mai andrai? ENEA

Di Troia sono, Enea è il mio nome, cacciato dalla guerra dal regno natio, ho preso il mare per cercare l’Italia e la mia stirpe discesa dal sommo Giove;

con due dozzine di navi frigie ho solcato gli abissi sulla via mostrata da mia madre Venere;

ma di tutte queste appena sette sono salve in porto e così rovinate e gonfie di onde

che ogni marea giostra nei loro fianchi di quercia e tutte quante, disperso il carico,

han come sola zavorra il peso dei flutti. Me sventurato, lo sa Dio, ignoto e indigente, traverso questi deserti di Libia, da tutti respinto; mi scaccia l’Europa e la vasta Asia,

senza un tetto se non il cielo. VENERE

Chiunque tu sia, il fato ti assiste se ti guida a questi lidi accoglienti. Avanti, per Giove, affrettati a corte, dove Didone ti accoglierà sorridendo. Quanto alle navi che credi perdute Non una è perita nella tempesta, ma giunsero salve, non lungi da qui:

e così ti lascio a ciò che hai in sorte,

augurando buona fortuna ai tuoi passi erranti. ENEA

Acate: è mia madre quella che fugge! La riconosco da come muove i passi.

Fermati, dolce Venere, non fuggire tuo figlio! Troppo crudele a lasciarmi così,

perché sovente m’inganni con queste ombre? Perché non posso parlarti, mano nella mano, e raccontarti le mie pene come a una madre? Ma tu te ne vai e mi lasci qui solo

A tediare l’aria con verbosi lamenti.

SCENA II

Entra Iarba, seguito da Ilioneo, Cloanto, Sergesto e altri.

ILIONEO

Seguite, Troiani, seguite questo galantuomo e raccontategli le vostre pene.

IARBA

Chi mai siete e che cosa cercate? ILIONEO

Miseri di Troia, odiati dai venti

che, in ginocchio, ti implorano il favore che si chiede nell’indigenza più penosa: salva, salva le nostre navi dal fuoco crudele e risparmia la nostra vita, preda di ogni dispetto! Noi non veniamo, noi, a oltraggiare i vostri libici dèi o a rapire dai santuari i vostri penati;

le nostre mani non cercano prede proibite né offesa armata di sorta:

tale audacia rifugge i nostri miti pensieri, i nostri lividi recenti, senza vittoria, vietano al cuore di albergare speranze. IARBA

Ma dite, Troiani, se siete Troiani, verso quali fertili terre eravate diretti prima che Borea vi avvinghiasse le vele? CLOANTO

V’è un luogo, da noi chiamato Esperia, antico impero potente per le armi e ricco dei fertili solchi di Cerere bella, che ora chiamiamo Italia, dal nome di chi a lungo vi regnò in pace.

Questa la rotta;

quando a un tratto sorse il cupo Orione a spingere la navi su secche sabbiose, dove l’Austro, con fiato salmastro, le disperse su scogli rovinosi. Di lì, in pochi scampammo a terra; gli altri, temo, sono avvolti dalle onde. IARBA

Prodi guerrieri, lasciate queste sterili paure: Cartagine sa come curare la angosce.

SERGESTO

Sì, ma una stirpe barbara minaccia le navi e ci nega rifugio sulla spiaggia;

in folla accorrono alla riva

e c’impediscono di posar piede a terra. IARBA

Io stesso farò sì che non vi molestino: tu e i tuoi uomini sarete a corte a banchetto e ogni Troiano sia qui benvenuto

come Giove nella povera casa di Bauci. Venite con me: v’introdurrò alla regina,

che, ben oltre, nei fatti confermerà quanto dico. SERGESTO

Grazie, nobile sire, per questa grazia inattesa. Se potessimo rivedere il volto di Enea,

allora, spero, ricambieremmo il favore

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