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1.

Al principio del 396 il poeta Claudio Claudiano pubblicò il primo dei due libri In Rufinum, composti per attaccare la memora di colui che – per poco meno di un anno, fino al suo assassinio avvenuto il 27 novembre 395 – era stato l’uomo più potente della metà orientale dell’impero566.

Divenuto alla morte di Teodosio consigliere e guida del giovane imperatore Arcadio, Rufino era ben presto entrato in conflitto con il generale Stilicone, tutore in Occidente del fratello minore di Arcadio, Onorio – nonché protettore e mecenate dello stesso Claudiano.

Nei primi versi dell’opera, le Furie, riunite nelle loro sedi sotterranee, decidono di mettere fine allo stato di pace che regna nel mondo: perché ciò possa avvenire, Megera consiglia alle sorelle di porre al comando dell’impero il suo antico pupillo Rufino e lo raggiunge nella terra di cui egli è originario – la Gallia567. Qui, assunte le sembianze di un vecchio, profetizza a Rufino il dominio del

mondo568. Il luogo esatto dell’apparizione viene descritto con queste parole:

Esiste un luogo dove la Gallia distende il suo ultimo lido, proteso alle acque di Oceano, là dove è detto che Ulisse abbia evocato, con sangue libato, il popolo muto dei morti. Là il lamento si ode sommesso delle ombre

che volano con tenue stridore; là gli abitanti vedono pallide immagini, le figure dei morti vagare.569

Come si vede, la caratterizzazione del luogo corrisponde perfettamente all’ethos dei personaggi: due esseri malvagi, votati alla distruzione, non possono che trovarsi a loro agio in un ambiente così tetro, infestato dagli spiriti dei morti. Può invece stupire la scelta di collocare in Gallia l’episodio omerico della nekyia, cioè l’incontro di Ulisse con le anime dei defunti descritto nel libro XI dell’Odissea: è un’innovazione che sembra non avere paralleli nella letteratura precedente, sebbene la ricostruzione (anche molto fantasiosa) del viaggio di Ulisse fosse un esercizio tutt’altro che inconsueto570; ma questa collocazione serviva evidentemente ad amplificare il carattere lugubre

dell’incontro tra Rufino e Megera. A prima vista, dunque, il testo di Claudiano non sembra riferirsi a una geografia particolare; il locus horridus scelto da Megera per la sua risalita sulla terra andava

566 PLRE I, Rufinus 18, pp. 778-781. 567 Claud., Ruf. 1.25-115.

568 Claud., Ruf. 1.123-161.

569 Claud., Ruf. 1.123-128: Est locus extremum pandit qua Gallia litus / Oceani praetentus aquis, ubi fertur Ulixes / sanguine libato populum movisse silentem. / Illic umbrarum tenui stridore volantum / flebilis auditur questus; simulacra coloni / pallida defunctasque vident migrare figuras.

570 Cfr. H.L. Levy, Claudian’s in Rufinum: An Exegetical Commentary, Princeton 1971, p. 39; J-L. Charlet, Claudien. Œuvres, tome II, 1ère partie: poèmes politiques (395-398), Paris 2002, p. 194.

collocato necessariamente in Gallia, date le origini di Rufino (nato a Elusa, l’odierna Eauze, in Aquitania), ma di questo luogo spettrale si dice soltanto che è un litus extremum, disteso verso l’Oceano – troppo poco, apparentemente, per individuare un punto preciso.

Negli anni Venti, tuttavia, Eduard Norden pensò di poter riconoscere il luogo descritto da Claudiano nell’area intorno alla città di Bononia (oggi Boulogne-sur-Mer), sulla costa settentrionale della Gallia, di fronte alla Britannia571. La posizione liminare del luogo rende in effetti plausibile

l’identificazione, ma in mancanza di altri elementi questo naturalmente non basta. In effetti, Harry Levy ha contestato la possibilità di identificare con precisione il luogo menzionato da Claudiano – sempre ammesso che a un luogo preciso l’autore intendesse riferirsi: dai versi in questione – una costa desolata e scarsamente abitata – non si dovrebbe trattare comunque di una città, e tanto meno di una città ricca di traffici come doveva essere allora Bononia572. In effetti, il carattere infernale dei

personaggi giustifica la scelta di Claudiano di ambientare l’incontro tra Rufino e Megera in una sorta di anticamera dell’oltretomba, dove lo stesso Ulisse era entrato in contatto con le anime dei morti; non era necessario, forse, aggiungere altro – a parte insistere sul contesto gallico, dato che da lì proveniva il terribile Rufino: nei versi successivi si dice infatti che il ferale murmur emesso da Megera al suo uscire dalla terra scuote i campi dei Senoni (Senonum quatit arva) e paralizza il Reno (Rhenus proiecta torpuit unda). In mancanza di altre informazioni questo luogo sembrerebbe destinato a rimanere senza nome, un non-luogo geografico del tutto, o quasi, immaginario.

A meno che questa ambientazione non apparisse affatto ai contemporanei vaga e indefinita come appare a noi: lo suggerisce un passo famoso dello storico Procopio di Cesarea, posteriore di un secolo e mezzo alla descrizione di Claudiano.

2.

Nella Guerra gotica Procopio riferisce di alcuni fatti riguardanti l’isola di Brittia. Lo storico narra che Radigis, figlio di Ermegisclo, re dei Varni (un popolo germanico stanziato sulle coste del Mare del Nord), si trovò costretto alla morte del padre a rompere il fidanzamento con la sorella del re degli Angli e a sposare la propria matrigna. Questo condusse a una guerra tra gli Angli e i Varni; dalle loro sedi sull’isola di Brittia, gli Angli allestirono una poderosa spedizione finché Radigis, sconfitto, dovette acconsentire a sposare la principessa.

Il racconto di questi fatti fornisce a Procopio l’occasione di dilungarsi in un excursus riguardante l’isola di Brittia, nella quale è possibile riconoscere alcuni tratti della Britannia romana: lo storico bizantino riferisce che molto tempo prima era stato costruito su quest’isola un lungo muro (evidente

571 E. Norden, Die germanische Urgeschichte in Tacitus Germania, Leipzig-Berlin 1920, p. 187. 572 Levy, Claudian’s in Rufinum, p. 39.

riferimento al Vallo di Adriano) che ancora ai suoi giorni separava una gran parte dell’isola dall’altra; al di qua e al di là di questo muro – continua Procopio – le condizioni geografiche e atmosferiche sono molto diverse, se non addirittura opposte – proibitive per la vita di uomini e animali al di là del muro, molto più favorevoli al di qua, con abbondanza di alberi da frutto, acqua, campi coltivati. A un certo punto, però, la descrizione dell’isola di Brittia s’interrompe bruscamente e Procopio annuncia in tono solenne di dover almeno accennare a una storia che ha dell’incredibile e alla quale egli non crede assolutamente, sebbene valga la pena di essere raccontata per il gran numero di persone che asseriscono di avervi assistito e – addirittura – preso parte. Ecco quel che dice Procopio:

Giunto a questo punto del mio racconto, non posso non fare accenno ad una storia che è piuttosto una favola e che a me sembra del tutto incredibile, benché sia costantemente riportata da un numero infinito di persone che sostengono di aver eseguito loro stessi queste cose e di aver obbedito alle parole che personalmente hanno udito; tuttavia, non mi sentirei di tralasciarla completamente, per non cadere nella nomea di non aver voluto, nella mia descrizione dell’isola di Brittia, portare alla conoscenza qualcuno degli avvenimenti là accaduti.573

Procopio racconta che sulla riva dell’Oceano, di fronte all’isola di Brittia, sono situati alcuni villaggi di pescatori i cui abitanti, sudditi dei re franchi, sono tuttavia dispensati da tempo dal pagamento del tributo in ricompensa del gravoso servizio da loro svolto. Costoro infatti traghettano sull’isola di Brittia le anime dei morti. A turno, quando sentono a tarda notte battere alla porta e una voce invisibile li chiama all’opera, essi si dirigono subito verso la riva, ignari di quale forza li spinga a fare questo. Là trovano delle barche vuote: ma quando vi salgono, queste affondano fin quasi all’orlo, come se fossero piene; essi prendono allora a remare, compiendo in un’ora un tragitto che in condizioni normali a stento compirebbero in un giorno e una notte. Appena giungono all’isola di Brittia, la barca riemerge dall’acqua come fosse stata privata del carico; essi però non vedono nessuno: solo dicono di sentire una voce che sembra chiamare per nome tutti i passeggeri, specificando di ognuno la posizione sociale, il nome del padre o – nel caso delle donne – quello del marito. Una volta compiuto il viaggio e aver fatto sbarcare gli invisibili passeggeri, i pescatori ritornano immediatamente al loro villaggio574.

È stato da tempo suggerito che i villaggi di pescatori di cui parla Procopio vadano collocati sulle coste dell’antica Armorica, una regione della Gallia nord-occidentale corrispondente in parte all’attuale Bretagna575. Ma il racconto di Procopio richiama anche, irresistibilmente, la descrizione

di Claudiano – quel non meglio precisato luogo della Gallia dove si riuniscono le anime dei morti.

573 Procop., BG 4.20.47. 574 Procop., BG 4.20.48-58.

Claudiano parlava infatti di una costa (litus) remota (extremum) protesa verso l’Oceano (Oceani praetentus aquis): senza nessuna forzatura quella che s’intravede è l’immagine della Bretagna, la stessa che traspare dal nome celtico della regione, Armorica, la “terra che sta di fronte al mare”576.

Con ogni probabilità, Claudiano e Procopio facevano entrambi riferimento a un nucleo di leggende relative alla Gallia settentrionale e, nello specifico, all’area armoricana. È possibile allora che il riferimento al litus gallico (che a noi appare tanto vago e impreciso al punto da rendere il luogo non identificabile) risultasse invece al pubblico di Claudiano immediatamente comprensibile, data la sinistra fama che circondava la regione. L’inedito accostamento con l’episodio omerico della nekyia si spiega dunque con l’affinità tra le due situazioni – quella del mito di Ulisse e quella attuale – entrambi concernenti l’incontro dei vivi con le anime dei morti.

Resta naturalmente da stabilire in che modo Procopio, scrivendo verso la metà del VI secolo a Costantinopoli, sia venuto a conoscenza di racconti così dettagliati riguardanti la lontana Armorica e l’ancor più remota isola di Brittia. Ciò che egli riferisce, infatti, non è una semplice curiosità raccolta in qualche testo etnografico o un puro sentito dire: al contrario, Procopio dà l’impressione di aver raccolto le sue informazioni direttamente dagli abitanti di quelle regioni. Che questi fossero presenti in gran numero a Costantinopoli appare poco probabile; tutt’al più si può supporre che Procopio abbia potuto raccogliere le notizie riguardanti i traghettatori di anime in occasione di un’ambasceria franca a Giustiniano – da lui stesso documentata – alla quale presero parte anche alcuni rappresentanti degli Angli; ma si tratta naturalmente di un’ipotesi non dimostrabile577. Quel

che è certo è che doveva esistere un nucleo di miti e credenze piuttosto compatto riguardante l’area armoricana, la cui fama si estendeva – a quanto pare – ben oltre i confini della Gallia: questo nucleo, risalente con tutta probabilità a un sottofondo culturale celtico, era incentrato su una serie di esperienze estatiche relative al viaggio dei vivi nell’aldilà e al contatto con le anime dei morti578.

Ma queste non sono le uniche testimonianze relative al persistere nell’area armoricana di questo strato celtico: un passo della celebre Vita di san Martino redatta sul finire del IV secolo fornisce altro, significativo materiale che ci consente di addentrarci ulteriormente in questa zona poco illuminata della storia della Gallia.

576 Da are, “davanti” o “accanto”, e mare, “mare”, cfr. N.K. Chadwick, The Colonization of Brittany from Celtic Britain, in Proceedings of the British Academy 51 (1965), p. 235 e n. 1. Andrà poi almeno menzionato

il fatto che fino a non molto tempo fa in alcune zone della Bretagna si credeva ancora che le anime dei morti fossero trasportate con delle imbarcazioni sull’isolotto di Tévennec, dopo essere salpate da Capo Raz: cfr. A. Hofeneder, Die Religion der Kelten in den antiken literarischen Zeugnissen, III, Von Arrianos bis zum

Ausklang der Antike, Wien 2011, p. 477. Sul passo di Claudiano e Procopio, cfr. Ginzburg, Storia notturna,

pp. 83-85.

577 Procop., BG 4.20.10; su questo, cfr. Hofeneder, Religion der Kelten, III, p. 476. 578 Ginzburg, Storia notturna, p. 85.

3.

In una delle sue peregrinazioni nel territorio della diocesi di Tours, poco dopo la sua elezione a vescovo della città, l’ex soldato Martino s’imbatté per caso nella sepoltura di un uomo che la falsa opinio degli abitanti riteneva essere stato un santo martire. «Ma Martino – racconta il suo biografo Sulpicio Severo – non credendo alla leggera a una tradizione incerta, si mise a domandare con insistenza ai presbiteri e ai chierici più anziani d’indicargli il nome del martire e la data della sua passione». Era turbato – continua il biografo – dal momento che la tradizione si mostrava oscura su questo punto. Non osando, tuttavia, abolire il culto dell’ignoto martire senza un’indagine accurata, Martino decise prudentemente di astenersi per qualche tempo dal frequentare il luogo, per non dare l’impressione di avallare la devozione del vulgus.

Ma ecco che un giorno, accompagnato da alcuni fratelli, Martino si reca al sepolcro, prega il Signore di mostrargli chi sia sepolto lì e quali siano i suoi meriti: quella che segue è una vera e propria scena di necromanzia, che sembra richiamare il già citato episodio omerico della nekyia:

Allora rivoltosi alla sua sinistra vede stare lì appresso un’ombra sordida, truce; ordina di dirgli il suo nome e i suoi meriti. Essa rivela il proprio nome, ammette i propri crimini: era stato un brigante, giustiziato per le sue colpe; nulla aveva in comune con i martiri, dato che a loro spettava la gloria, a lui la punizione. Era del resto incredibile, per quanti assistevano alla scena, sentire la voce di uno che parlava, e tuttavia non vedere nessuno. Allora Martino raccontò loro ciò che egli aveva potuto vedere e ordinò di rimuovere da quel luogo l’altare e in questo modo liberò il popolo dall’errore di quella superstizione.579

Richiamato al mondo dei vivi dai poteri teurgici di Martino, il falso martire si rivela per quello che è veramente: un brigante, scambiato per un santo dal popolo dopo la sua esecuzione. Ciò che viene descritto da Sulpicio, dunque, non è un innocente fraintendimento, ma un drammatico e spettacolare capovolgimento di ruolo. Per capire come ciò sia potuto accadere è necessario però prima fare un cenno alla realtà economica e sociale della Gallia all’epoca di Martino.

Come noto, la crisi del III secolo si era abbattuta in modo grave sulla metà occidentale dell’impero romano, e aveva fatto sentire i suoi effetti soprattutto in Gallia, tanto che per alcune regioni situate nel lontano settentrione (dove la romanizzazione aveva preso avvio solo tardivamente e in maniera più superficiale) si può a ragione parlare di una vera e propria «rottura» rispetto ai primi secoli di

579 Sulp. Sev., V. Mart. 11: Tum conversus ad laevam videt prope adsistere umbram sordidam, trucem; imperat nomen meritumque loqueretur. Nomen edicit, de crimine confitetur: latronem se fuisse, ob scelera percussum, vulgi errore celebratum; sibi nihil cum martyribus esse commune, cum illos gloria, se poena retineret. Mirum in modum, vocem loquentis qui aderant audiebant, personam tamen non videbant. Tum Martinus quid vidisset exposuit iussitque ex loco altare, quod ibi fuerat, submoveri, atque ita populum superstitionis illius absolvit errore.

dominio romano580. Il susseguirsi di incursioni barbariche e di carestie, il tracollo delle attività

produttive e la richiesta pressante di tributi e leve militari, avevano provocato, soprattutto negli strati più bassi della popolazione, un malessere diffuso, al quale neppure l’esperimento politico dell’imperium Galliarum aveva saputo porre rimedio581.

L’insofferenza nei confronti delle élites politiche e militari aveva così preso la forma, sul finire del secolo, di un vasto movimento di rivolta, noto alle fonti con il termine di Bagauda, il cui nucleo principale doveva essere costituito da contadini e pastori, ma a cui presero parte anche gruppi di soldati disertori e bande più o meno numerose di briganti professionisti582. La sollevazione si scelse

come capi gli ignoti Amando ed Eliano e raggiunse in breve proporzioni così preoccupanti da spingere il nuovo augusto Diocleziano (rimasto unico imperatore a partire dall’estate del 285) a nominare cesare il compagno d’armi Massimiano e a conferirgli l’incarico di pacificare la Gallia. A distanza di alcuni anni il retore Mamertino, ricordando in un panegirico in lode dello stesso Massimiano la campagna militare da questi condotta al principio del 286, scelse di soffermarsi sul carattere stravagante di questa guerra, combattuta da personaggi grotteschi – monstra biformia come li definisce, metà soldati e metà contadini. Proprio il carattere ambiguo e mostruoso di questi nemici consente al panegirista di indulgere in una similitudine dal sicuro effetto retorico: come i Giganti anguipedi (perfetta immagine dei rustici ribelli, figli della Terra e creature dalla doppia

580 L’espressione è di P. Galliou, L’Armorique romaine, Brest 20052, pp. 325-331; cfr. anche Id., Monde des morts et monde de vivants dans les campagnes de l’Armorique romaine, in A. Ferdière (éd.), Monde des morts, monde de vivants en Gaule rurale. Actes du Colloque ARCHÉA/AGER, Tours 1993, pp. 241-246. 581 Sull’imperium Galliarum, cfr. J.F. Drinkwater, The Gallic Empire: Separatism and Continuity in the North-Western Provinces of the Roman Empire, A.D. 260-274, Stuttgart 1987; W. Eck, Das Gallische Sonderreich: Eine Einführung zum Stand der Forschung, in T. Fischer (Hrsg.), Die Krise des 3. Jahrhunderts n. Ch. und das Gallische Sonderreich, Wiesbaden 2012, pp. 63-84; D. Hoyer, Turning the Inside Out: The Divergent Experiences of Gaul and Africa during the Third Century AD, in D. Slootjes, M.

Peachin (eds.), Rome and the World Beyond Its Frontiers, Leiden 2016, pp. 67-95.

582 Sul fenomeno della Bagauda, cfr. Thompson, Peasant Revolts; B. Czúth, Die Quellen der Geschichte der Bagauden, Acta Un. de A. József nominatae, Acta ant. et arch. IX, Szeged 1965; S. Szádeczky-Kardoss, s.v. Bagaudae, RE, Suppl. XI (1968), coll. 346-354; D. Lassandro, Le rivolte bagaudiche nelle fonti tardo- romane e medievale, in Invigilata Lucernis 3-4 (1981-82), pp. 57-110; J.F. Drinkwater, Peasants and Bagaudae in Roman Gaul, in Classical Views 3 (1984), pp. 349-371; Id., Patronage in Roman Gaul and the Problem of the Bagaudae, in A. Wallace-Hadrill (ed.), Patronage in Ancient Society, London-New York

1989, pp. 189-203; Id., The Bacaudae of Fifth-century Gaul, in Id., Elton, Fifth-century Gaul, pp. 208-217; H. Maas, Bemerkungen zur Rolle der Volksmassen in der Zerfalls-und Untergangsphase des Weströmischen

Reiches, in Klio 67 (1985), pp. 536-561; J.C. Sánchez León, Les sources de l’histoire des Bagaudes: traduction et commentaire, Paris 1996; D. Lambert, Salvian and the Bacaudae, in S. Diefenbach, G.M.

Müller (Hrsg.), Gallien in Spätantike und Frühmittelalter. Kulturgeschichte einer Region, Berlin-Boston 2014, pp. 255-276. Il termine Bagauda designa sia la rivolta in sé sia gli stessi rivoltosi; la tradizione manoscritta oscilla tra la grafia Bagauda e Bacauda: per la forma adottata qui, cioè Bagauda, seguo C.E. Minor, ‘Bagaudae’ or ‘Bacaudae’?, in Traditio 31 (1975), pp. 318-322. L’etimologia del termine è senza dubbio di origine celtica e deriva probabilmente da *bāgā-, guerra, con suffisso celtico -aud-. Il significato del nome sarebbe dunque quello di “combattenti” (cfr. Szádeczky-Kardoss, Bagaudae, col. 347). Le fonti concordano sul fatto che furono i rivoltosi stessi, o comunque le popolazioni celtiche locali, a dare al movimento di rivolta tale denominazione (cfr. Aur. Vict. 39.17; Eutrop. 9.20; Hieron., Chron. 287).

natura) furono sconfitti dagli dèi olimpi grazie all’aiuto di Ercole, così ora i Bagaudi sono stati sottomessi da Massimiano erculio, associato al potere supremo dal giovio Diocleziano:

[L]a potenza di Roma minacciava di cadere e tu le venisti in soccorso unendoti all’imperatore: un intervento davvero provvidenziale, come quello del tuo Ercole, che venne in aiuto di Giove vostro signore un tempo in pericolo per la guerra portata dai Giganti, nati dalla terra, ed ebbe gran parte nella vittoria: Ercole dimostrò di non aver ricevuto il cielo dagli dèi più di quanto non l’avesse loro restituito. Peraltro, non erano simili ai Giganti, mostri dalla doppia natura, i nemici che apparvero in questa terra? e non so, o Cesare, se sia stata più la tua forza a piegarli o la tua clemenza a renderli miti. Essi, contadini inesperti di ogni attitudine militare, avevano voluto farsi soldati: l’aratore era divenuto fante, il pastore cavaliere, il campagnolo aveva devastato i propri campi come avrebbe fatto un barbaro nemico.583

Come suggerito dalle parole del panegirista – Massimiano ha certo fatto uso di fortitudo, ma è dovuto ricorrere anche alla clementia – è lecito supporre che la guerra contro i Bagaudi non si sia risolta in un trionfo completo: lo stesso Mamertino deve prendere atto di un certo fastidio di

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