2. Modernità, secolarità e condizioni della fede.
2.2 Secolarizzazione e «condizioni della credenza»
L‟autore prende le mosse dalla presunta condivisione di questo giudizio: che quella in cui vivono attualmente gli abitanti del mondo occidentale (o, più precisamente, «nord-atlantico», come egli lo definisce) sia un‟«età secolare»31. Subito dopo, tuttavia, egli osserva come questo giudizio comune non presupponga, come dovrebbe, un accordo sostanziale quanto al significato che viene attribuito ad una condizione sulla quale a parole si dice convenire.
Sembrerebbe un‟affermazione quasi scontata questa con cui Taylor riscontra una scarsa chiarezza intorno al significato della secolarizzazione. Tuttavia nel suo segnalare la distanza che ancora ci separa da una pacifica interpretazione del significato della secolarità, egli non intende tanto alludere alla rediviva querelle, che è stata pocanzi brevemente ricostruita, sul destino della religione e sul legame tra la modernità e la secolarizzazione. O almeno, non solo a questo.
Non è questa questione che sta primariamente a cuore all‟autore de L’età
secolare, benché in itinere si riesca evidentemente a intravedere e
ricostruire, almeno sommariamente, la predisposizione dell‟autore in questo specifico dibattito. Il lettore che abbia familiarità con la caratteristica cautela argomentativa e l‟equilibrio che contraddistinguono lo stile filosofico di questo autore e la sua ricerca costante di posizioni mediane, probabilmente
31 «Che cosa significa dire che viviamo in un‟età secolare? Più o meno tutti concordano che
questo è in qualche senso vero, e con “tutti” intendo noi occidentali, o, in altri termini, coloro che vivono nell‟area nordatlantica – sebbene la secolarizzazione si estenda anche parzialmente, e in modi diversi, oltre questa regione geografica» (L’età secolare, cit., pag. 11).
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ne dedurrà che ancora una volta Taylor predilige la reticenza allo schieramento franco ed esplicito. Ma, se questa critica può avere le sue buone ragioni in altre occasioni, su questo punto il Canadese non ha probabilmente torto nel voler parzialmente ignorare il diverbio. In questo caso gli si può probabilmente dare ragione dato che qui, forse più che in ogni altra disputa, il cuore della questione tende a venire eluso dal frastuono dei posizionamenti estremi che distolgono volontariamente l‟attenzione da esso. Le posizioni più sfumate, che hanno probabilmente più chance di avvicinarsi alla realtà delle cose – in genere più complessa di ogni semplificazione –, tendono ad essere sopraffatte dalle polarizzazioni e dalle dicotomie forzate.
Più realistico è invece, come fa il nostro autore, rinunciare alla presunzione di poter prevedere gli esiti della secolarizzazione. Dedurre la piega che prenderanno in futuro gli sviluppi della religione e dell‟ateismo è quasi impossibile. Per il momento è evidente che la non credenza e l‟indifferenza religiosa sono diventate strade largamente percorse, nelle nostre società occidentali (europee, come sarebbe meglio aggiungere in questo caso). Però, dall‟altro lato, ci sono diverse buone ragioni per immaginare che la natura esitante della nostra età le terrà ancora a lungo lontane dal divenire delle posizioni imperturbate.
Come andranno davvero le cose, è difficile dirlo ora. In ogni caso, Taylor si adopera per farci capire che la verità è ormai lontana dalle posizioni che si sono contrapposte a lungo soprattutto in passato.
Molteplici sono gli indizi che smentirebbero quanti hanno descritto la condizione moderna come la liberazione dai vincoli religiosi e metafisici del passato o quanti hanno visto in essa la conquista di una moralità più matura. L‟evidenza dei fatti, nel primo caso, e i crimini che anche la modernità ha conosciuto, nel secondo, sono motivi di imbarazzo per quanti davano per
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buone queste letture32: oramai sappiamo che questi sono stati legati a lungo a delle parziali illusioni.
Ma, dall‟altro lato, proprio la secolarizzazione moderna ha messo a disposizione certe condizioni che si sono rese ormai irrinunciabili, come la laicità della spazio pubblico, che – almeno nelle intenzioni – deve dare al cittadino pari opportunità di espressione, qualunque siano le sue convinzioni religiose e metafisiche. Ciò rende anacronistica, e perfino inaccettabile, la nostalgia di quanti guardano ad un passato in cui la società era esplicitamente cristiana, la fede solida, e Dio dava una direzione certa alla condotta morale.
Come si diceva, Taylor sembrerebbe dirci che sul tavolo della discussione che ha per oggetto il fenomeno, per altri versi incontestabile, della secolarizzazione esistono delle questioni più profonde e fondamentali che non sono ancora state veramente abbordate dalle considerazioni abituali. In questo senso, il quesito con cui apre, e a cui cerca di dare una risposta attraverso i lunghi e faticosi capitoli in cui si snoda la narrazione storica di A
Secular Age, - perché fosse «virtualmente impossibile nella nostra società
occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile»33 - è solo in apparenza banale. Parimenti, il modo in cui in genere si risponde – adducendo come ragione il processo stesso di secolarizzazione o l‟avvento della prospettiva razionale della scienza – non è altro che un modo inconsapevole per rispedire al mittente la domanda.
32 Il XX secolo, in questo senso, è stato testimone di come la religione non sia l‟unico fonte
della violenza. Nel secolo appena concluso, alcuni dei più grossi crimini contro l‟uomo sono stati infatti perpetrati proprio da culture e regimi politici che avevano apertamente osteggiato la fede.
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Il problema che non ci si è veramente posti è quale sia il significato profondo della «secolarità». Taylor è certo che la «transizione da una società in cui la fede in Dio era incontestata e, anzi, non problematica, a una in cui viene considerata come un‟opzione tra le altre e spesso non come la più facile da abbracciare»34 abbia significato, e significhi tuttora, qualcosa per la qualità della credenza. Ancor più radicalmente, egli è convinto che ciò non possa non aver avuto delle implicazioni profonde al livello del vissuto fenomenologico della fede.
Quello quindi che dobbiamo sforzarci di capire è quale sia il significato profondo, nonché le ragioni radicali, del passaggio da una società che era stata apertamente e integralmente cristiana (e in cui il rifiuto di Dio era quasi inconcepibile) ad una in cui l‟ateismo, o comunque la non credenza, è diventato ad un certo punto per molti un‟opzione dotata di senso. A questa domanda radicale troveremo delle risposte solo parziali nelle analisi consuete, le quali si dedicano per lo più all‟evacuazione del religioso dalla politica e dalle altre sfere pubbliche (fenomeno che Taylor chiama secolarizzazione 1) o alla registrazione e allo studio del dato sociologico legato al declino della fede in Dio e della pratica attiva (che il Canadese denomina secolarizzazione 2)35.
Rivolgersi, invece, ad un terzo significato della secolarità, trascurato eppure ben più incisivo degli altri due, il quale verte intorno alle «condizioni della credenza»36 racconterà molto di più delle modificazioni della fede di quanto non facciano il secolarismo delle istituzioni o l‟analisi dei dati che rivelano il numero di quanti frequentano le Chiese.
34 Ibid., pag. 13. 35 Ibid., pagg. 13-15. 36 Ibid., pag. 13.
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Per quanto questi due passaggi siano oggettivamente importanti, il resoconto che il filosofo ci offre decide di relegarli in una posizione secondaria e dedicare loro uno spazio relativamente marginale. Intenzionalmente, essi rimangono per così dire sullo sfondo rispetto a quel cambiamento che prima di ogni altro egli vuole fare uscire dall‟ombra: la profonda evoluzione della sensibilità.
Non si è mancato di rilevare come questo possa essere considerato il principale merito dell‟analisi tayloriana, quello di incoraggiare un fecondo spostamento della prospettiva abituale del problema a favore di un approccio francamente illuminante37. Esso predilige un modo di sondare il secolarismo dal suo interno, che punta all‟eminente significato fenomenologico dell‟età secolare. Queste sono le ragioni per cui Taylor ci consegna, perlomeno a livello di intenzioni programmatiche, un lavoro ricostruttivo che procede dal basso, cioè dal livello della sensibilità e delle condizioni immaginative degli uomini, all‟alto, alludendo da un lato agli esiti istituzionali del secolarismo e dall‟altro alle manifestazioni più elevate della produzione culturale, sfiorando il tema della divergenza tra gli apparati teorici (come nella rappresentazione abituale del confronto scienza- religione).
Più precisamente, la rivoluzione sotterranea (che è, se vogliamo, la radice o il presupposto degli sviluppi alti raggruppati nella secolarizzazione 1 e 2) è un cambiamento che ha coinvolto «l‟intero contesto di comprensione entro cui avvengono la nostra esperienza e ricerca morale, spirituale o religiosa»38. Secondo Taylor, nel corso della modernità si è a poco a poco modificato ed è stato profondamente riplasmato lo sfondo implicito della
37 Robert Bellah, “The Rules of Engagement. Communion in Scientific Age”, Commonweal, New York, Sept 12, 2008, pagg. 15-21.
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nostra esperienza cosciente del mondo, quello che può essere accostato all‟heideggeriano senso pre-ontologico del mondo39.
Per la portata delle trasformazioni che ha comportato, il passaggio al Tempo Nuovo ha avuto un significato letteralmente eclatante, coinvolgendo l‟ordine economico e politico così come l‟ambiente sociale e l‟universo culturale. I concetti e le più importanti mutazioni che hanno dato sostanza alla nostra modernità – l‟individualismo, il mercato, la secolarità, l‟autogoverno democratico, per citarne solo alcuni – hanno infatti un carattere complessivamente inedito e sarebbero stati tutt‟altro che agevolmente concepiti in epoche precedenti. Ovviamente, tutto ciò ha richiesto dei tangibili e seri mutamenti materiali, tuttavia non si può verosimilmente ipotizzare che il nuovo ordine moderno non abbia anche richiesto, insieme a tutto ciò, una concomitante riplasmazione degli immaginari, una modificata percezione di se stessi e del mondo da parte degli uomini. In sostanza, come il filosofo ci racconta ne Gli immaginari
sociali moderni40, si deve presumere che buona parte di quelle trasformazioni sia stata pensabile perché ad un certo punto gli individui occidentali hanno cominciato ad immaginare se stessi, il proprio agire nel tempo storico e la natura della società in modi radicalmente diversi.
Sarà utile cercare di capire ancora meglio questa “virata”, questo sforzo che Taylor incoraggia a scendere ad un livello d‟analisi della modernità ancora più “basso” e concreto, che prende la forma di una originale attenzione verso il vissuto morale. Essa non è una predilezione estemporanea, evidentemente.
A nostro parere, questa posizione – come molte altre espresse in svariate occasioni dall‟autore – implica certe fondamentali premesse esposte dalla
39 Ididem.
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sua complessa antropologia filosofica, così influente nel determinare la peculiarità della sua proposta teorica. Pare infatti che questa abbia offerto al filosofo Canadese alcuni punti fermi che uniti insieme formano qualcosa come un immaginario fil rouge del suo itinerario riflessivo, un insieme di motivi che torna e si ripete, ricevendo magari vesti concettuali nuove e talora sintesi teoriche più complesse e sofisticate, nelle varie aree problematiche con cui egli si è misurato. È così che in alcuni assunti concettuali della sua singolare teoria della soggettività e dell‟agire umano, che Taylor ha elaborato in uno sforzo teorico pluridecennale, troveremo anche la radice di quella intrinseca propensione umana a “fantasticare” su di sé, sul mondo e sulla propria vita in società.
È anche grazie anche ad un precoce ma duraturo confronto con la scuola fenomenologica, e soprattutto con Merleau-Ponty41, che già nelle prime embrionali formulazioni della propria teoria dell‟agire umano consegnate ai lavori iniziali, il filosofo di Montreal comprendeva l‟esperienza umana come una originaria apertura al mondo, che ancora l‟agente ad esso al contempo carnalmente e moralmente.
Taylor così crede che la caratteristica precipua dell‟agire umano sia quella di collocarsi in un certo «ambiente intenzionale», uno spazio non neutro o
41 Come lui stesso ammette in un paio di occasioni, Taylor ha contratto un debito decisivo,
soprattutto agli inizi del proprio percorso teorico, nei confronti di Merleau-Ponty. Il confronto con il fenomenologo francese, seppur non esplicitato, è stato estremamente influente nell‟elaborazione di quell‟idea di «intenzionalità» che è centrale nella concezione tayloriana dell‟agire. Quest‟ultima si impone come una originale sintesi che ha provato a mettere a frutto in modo congiunto i contributi della filosofia analitica e della fenomenologia. Cfr. Antropologia filosofica, etica e politica del riconoscimento, cit., pagg. 312-313 e Charles Taylor, “Reply and Re-Articulation”, in James Tully (ed.), Philosophy in
an Age of Pluralism. The Philosophy of Charles Taylor in Question, Cambridge University
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omogeneo, ma per lo più denso di caratterizzazioni qualitative che acquistano una particolare rilevanza agli occhi del soggetto. L‟esperienza umana del mondo è così una originaria esperienza morale, benché il soggetto non crei ex novo i propri valori, ma si limiti a portare a piena articolatezza (articulacy) una grana morale che espone il tessuto stesso del mondo.
È un‟accezione piuttosto capiente di moralità quella sposata dal pensatore canadese. Essa, in particolare, prende forma in una formulazione, per così dire, ancipite della vita morale individuale. Secondo il nostro autore, infatti, l‟attività morale e conoscitiva che si dipana dal nostro scambio vivente con il mondo ha una natura solo in parte esplicita e consapevole. La nostra esperienza morale possiede un corposo lato incarnato ed emotivo: l‟espressione originaria della nostra personale inclinazione verso certi valori andrà ricercata nei sentimenti e in certi prodotti pregiudiziali carichi di una particolare colorazione morale. Ciò non toglie che parte di questa produzione spontanea, anche carnalmente ancorata al nostro sentire emotivo, possa essere esplicitata e meglio formulata razionalmente. Essa sarà allora assunta (o rifiutata) grazie ad uno sforzo di consapevole «articolazione» (articulation) razionale. Resta però il fatto che spesso in queste spontanee predisposizioni morali, proprio perché non esplicitamente formulate, si celano le vere ragioni morali, magari inconfessate, che muovono una persona ad accettare una visione del mondo, o un‟altra. Questi presupposti messi a disposizione dall‟analisi antropologico-morale dovrebbero aiutarci a meglio comprendere la conformazione complessiva che Taylor riconosce all‟esperienza umana. L‟attribuzione di senso al mondo – che è un gesto in parte inconsapevole – è un fatto universale, una evidente costante antropologica, a suo avviso.
In particolare, l‟apertura intenzionale al mondo ha la forma di una peculiare attività almeno in parte immaginativa. Il proprium dell‟azione umana è il
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fatto di essere la sintesi di un modo tutto particolare di vedere la realtà e rispondere a ciò che prende in essa forma. Non la reazione alla mera percezione del mondo è ciò che la connota, bensì una più sofisticata capacità di «immaginare» il mondo e di esperirlo attraverso il prisma dei particolari significati che in esso si vedono in gioco.
Ciò di cui ha bisogno questa attività immaginativa così vitale per l‟essere umano non è però un lavoro solitario, o almeno quest‟ultimo non è che una componente del modo in cui ci apriamo al mondo. Uno sfondo di intelligibilità offerto da un sapere tacito condiviso è infatti sempre alle spalle dei modi in cui ciascuno percepisce se stesso, la qualità della sua azione e la natura delle varie relazioni sociali. La mia azione racchiude un qualche senso della realtà, e questo viene più o meno consciamente ricavato da quello che Taylor chiama «immaginario»: quello speciale sapere condiviso, caratterizzato da un contenuto tematico scarsamente articolato, che offre i significati comuni di cui ha bisogno una certa società. Il termine «immaginario» cerca di rendere la qualità talvolta opaca di questa competenza pre-teoretica condivisa.
Ora, è un atto trans-storico, potremmo dire un tratto trascendentale, il bisogno che ha l‟azione di nutrirsi almeno in parte degli immaginari. Come cornice formale dell‟agire umano, questo speciale sapere tacito comune ha bisogno di esplicitarsi, e le varie formulazioni storico-determinate della competenza immaginativa saranno le forme particolari nelle quali esso si materializza.
Così, anche il nostro complesso immaginativo moderno sarà una di queste storie particolari. Come tale, esso sarà portatore di una genesi culturale peculiare, quella che ha condotto al nostro modo (provvisorio e rivedibile) di guardare alla realtà. Era soprattutto ne Gli immaginari sociali moderni che Taylor si sforzava di evidenziare i dettagli concreti dei nuovi universi immaginativi moderni, quei modi praticamente privi di precedenti storici
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secondo i quali buona parte degli abitanti delle società occidentali ha cominciato ad immaginare se stessa, il mondo e il potenziale di azione di cui dispone in esso42.
Pur non avendo la pretesa di restituire il fascino e la complessità dell‟antropologia filosofica tayloriana, questa breve digressione ricostruttiva, di cui si specifica l‟inevitabile incompletezza, si rendeva tuttavia a nostro parere utile in virtù di quelle continuità e quei rimandi che, come si è già accennato, legano i vari momenti della riflessione del Canadese. Proprio il guadagno di certe premesse antropologiche, che non solo vengono tenute ferme, ma ricevono anche continui approfondimenti e integrazioni – L’età secolare è uno di questi – consente di comprendere il carattere alternativo ed innovativo della posizione tayloriana nel dibattito sulle ragioni dell‟incredulità.
Quando si cerca di spiegare come mai nel corso della modernità sia diventato così difficile credere, ci si affida ad una lettura classica che motiva questa perdita di plausibilità della fede con l‟avvento della scienza, ovvero presupponendo che la responsabilità si trovi nella sostituzione delle teorie di riferimento delle persone e nello spostamento del centro di produzione della conoscenza a favore di una visione razionale del mondo.
Il filosofo si trova ad incontrare e discutere più volte nel corso de L’età
secolare questa rappresentazione usuale del dibattito come scontro
epistemologico tra visioni del mondo religiose e secolari. A questo approccio, che accredita l‟idea che la scienza abbia “vinto” sulla religione dimostrando una volta per tutte l‟illusione della credenza in Dio, Taylor oppone molteplici obiezioni. Anzitutto, egli ritiene che rappresentare la scienza e la religione come sistemi teorici contrapposti (ovvero sistemi che
42 Cfr. “La modernità immaginata” [Introduzione di Paolo Costa a Gli immaginari sociali moderni], in Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, cit., pagg. 7-15.
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esprimono posizioni opposte su un unico oggetto, l‟esistenza di Dio) deformi la loro comprensione autentica. In secondo luogo, le loro conclusioni sull‟insostenibilità di una posizione di fede nell‟età della scienza sono affrettate – oltre che parzialmente errate – e trascurano le vere ragioni della diffusione dell‟incredulità.
Il legame tra ascesa della scienza e declino della fede esiste, ma è grossolano identificarlo con la presunzione che la scienza abbia confutato una volta per tutte ogni visione religiosa del mondo. Il discorso scientifico non smentisce in toto l‟intero universo della credenza religiosa: come la religione (in genere) non pretende di dimostrare che Dio esiste, così neppure la scienza, a rigori, può vantarsi di aver fornito l‟argomento teorico decisivo capace di dimostrare il contrario. Gli argomenti forniti dalla scienza rendono solo più difficile sostenere certe posizioni tradizionali43. Per di più, anche ammettendo, per ipotesi, che dalla scienza sia venuta una contestazione teorica alla fede, ugualmente una spiegazione tutta centrata sulla teoria non riuscirebbe davvero a spiegare l‟intensità e l‟estensione con cui si è diffusa l‟incredulità, e, con ciò, l‟avvento della secolarità.
La considerazione antropologico-morale del senso integrale dell‟apertura umana al mondo ci ha fatto capire che le posizioni teoriche esplicite riconosciute dalle persone rappresentano solo la parte visibile e razionalmente articolata della loro Weltanschauung, che ha un peso relativamente modesto nelle discriminazioni e scelte della loro vita morale. Le complesse ragioni per cui nella modernità credere è diventato così difficile non si trovano tanto nella cogenza del nuovo apparato teorico messo in piedi dalla scienza, ma nel fatto che, da allora, si sono imposte
43 Come si racconterà nel nostro secondo capitolo, la prima, nel tempo, a dissolversi è stata
la vecchia religiosità del mondo incantato, caduta quasi implacabilmente sotto i colpi del nuovo universo disincantato della scienza.
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nuove visioni e un complesso di valori correlati che sono apparsi più problematicamente conciliabili con la fede. La cornice immanente, la ragione strumentale e l‟istanza di controllo e oggettivazione sono alcuni di