• Non ci sono risultati.

Come noto, il settore dell’immigrazione è diventato compe- compe-tenza della Comunità europea a partire dal 1999, nell’ambito

dell’obiettivo di realizzare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. In particolare, l’art. 63, n. 3, lett. b), TCE ha intro-dotto una competenza concorrente dell’allora Comunità in materia di lotta all’immigrazione e al soggiorno irregolari, compreso il rimpatrio dei clandestini, sulla base dell’inse-rimento nel Trattato CE del titolo IV, relativo a «visti, asi-lo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone», residuando il metodo intergo-vernativo nei soli settori della cooperazione penale, rimasta nell’ambito del terzo pilastro.

Obblighi di riammissione, variamente articolati, erano comunque già previsti in clausole ad hoc introdotte in accor-di internazionali accor-di accor-diverso contenuto conclusi dalla Comu-nità, sulla base dell’art. K.1, par. 3, del trattato di Maastricht, per la realizzazione della «politica di immigrazione e la poli-tica da seguire nei confronti dei cittadini dei paesi terzi»8. In tali settori il Consiglio, su iniziativa di qualsiasi Stato mem-bro o della Commissione, poteva adottare posizioni comu-ni o elaborare convenziocomu-ni da adottare conformemente alle rispettive norme costituzionali degli Stati membri (art. K.3).

Ed anche in precedenza la Comunità aveva predisposto mo-delli standard, contenenti semplici forme di armonizzazione, da proporre agli Stati membri per la stipula di accordi bila-terali di riammissione9.

Sulla base delle nuove competenze della Comunità in materia introdotte dal trattato di Amsterdam, il Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999 ha esplicitamente invitato «il Consiglio a concludere accordi di riammissione o a includere clausole tipo in altri accordi fra la Comunità europea e i paesi terzi o gruppi di paesi pertinenti»10. Anche in altri punti delle stesse conclusioni, dedicati più esplicita-mente alla lotta contro l’immigrazione clandestina e ai reati internazionali ad essa collegati, veniva richiamata la neces-sità per gli Stati di origine e transito di adempiere ai loro obblighi di riammissione nei confronti dell’Unione e degli Stati membri11.

Sulla base di tali indicazioni, il Consiglio Giustizia e affari interni (GAI) del 2 dicembre 1999 ha adottato una decisio-ne volta a definire un modello europeo di clausole di riam-missione negli accordi comunitari e negli accordi misti12, conferendo alla Comunità autonoma facoltà di concludere accordi di riammissione. Il Consiglio europeo ha inoltre sot-tolineato la necessità di istituzionalizzare clausole di riam-missione in tutte le tipologie di accordo: comunitario, misto

o bilaterale. Il Consiglio ha distinto fra cittadini delle parti contraenti, nei cui confronti sussiste l’obbligo – anche con-suetudinario13 – di riammissione, e cittadini di Stati diversi e apolidi, verso i quali gli Stati membri hanno comunque un obbligo di rispetto dei diritti fondamentali.

Nello specifico, le clausole-tipo decise dal Consiglio pre-vedevano che la Comunità europea e lo Stato terzo conve-nissero «di cooperare per prevenire e controllare l’immigra-zione clandestina». A tal fine il paese terzo concordava di riammettere i propri cittadini presenti illegalmente nel terri-torio di uno Stato membro dell’Unione europea, su richiesta di quest’ultimo e senza ulteriori formalità. Gli Stati membri dell’Unione europea e lo Stato terzo si impegnavano altresì a fornire reciprocamente i documenti di identità necessari a tal fine e a disciplinare gli obblighi specifici di riammissione per cittadini di altri paesi e di apolidi. Tale clausola tipo, tuttavia, non ha trovato piena e pacifica applicazione. Già l’accordo di partenariato per lo sviluppo delle relazioni fra l’Unione europea e i paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico), approvato il 4 febbraio 2000, conteneva una clausola di ri-ammissione che, in relazione ai cittadini di paesi terzi e agli apolidi, annoverava disposizioni diverse rispetto a quelle in-dividuate dal Consiglio del dicembre 1999.

Il Consiglio europeo di Tampere ha poi evidenziato la necessità di prestare attenzione anche «a norme sulla riam-missione interna»14. In proposito il governo finlandese aveva avanzato una proposta per introdurre nel sistema dell’Unio-ne un regolamento idell’Unio-nerente la determinaziodell’Unio-ne degli obbli-ghi fra Stati membri in materia di riammissione di cittadini di paesi terzi15. Il progetto di regolamento avrebbe dovuto applicarsi ai casi in cui un cittadino di un paese terzo non soddisfacesse o non soddisfacesse più le condizioni vigenti per l’ingresso o il soggiorno nel territorio di uno Stato mem-bro. In siffatti casi, risultava necessario determinare lo Stato

membro competente a occuparsi del problema, poiché i cit-tadini di paesi terzi trovati illegalmente presenti nel territo-rio di uno Stato membro avrebbero dovuto in via pterrito-rioritaria essere rinviati nel paese d’origine o in un altro paese terzo in cui fossero stati autorizzati a entrare. L’art. 8 della proposta prevedeva che, quando potesse provarsi che un cittadino di un paese terzo avesse «illegalmente attraversato la frontiera di uno Stato membro per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo», tale Stato membro avesse

«l’obbligo di riammettere il cittadino in questione», salva la prova che questi avesse «vissuto in un altro Stato membro per almeno sei mesi prima che si [fosse] accertato che non soddisfa[ceva] o non soddisfa[ceva] più le condizioni in vi-gore per l’ingresso o il soggiorno. In tal caso quest’ultimo Stato membro [avrebbe avuto] l’obbligo di riammettere il cittadino in questione». Esso prevedeva inoltre che l’obbli-go di riammissione incombesse «allo Stato membro compe-tente per il controllo dell’ingresso del cittadino di un paese terzo nel territorio degli Stati membri», o allo Stato in cui il cittadino del paese terzo fosse entrato legalmente senza obbligo del visto, e di lì fosse passato in altro Stato membro (art. 9). Seguiva poi una serie di disposizioni sulle modalità di esecuzione del rinvio, sulla prova d’ingresso, sui termini per la riammissione, sulle modalità di transito in altro Stato membro e sulle spese di trasporto per la riammissione. Tale proposta, tuttavia, dopo essere stata discussa in prima lettu-ra dal Parlamento europeo, è stata successivamente ritilettu-rata, per via delle numerose critiche rivoltele dalla Commissione per le libertà e i diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, fra cui il mancato rispetto di una strategia concor-data fra gli Stati membri, in contrasto con le previsioni del Consiglio europeo di Tampere16.

Anche le successive riunioni del Consiglio europeo aveva-no ribadito la ferma intenzione di inserire una clausola sulla

gestione congiunta dei flussi migratori e sulla riammissione obbligatoria in caso di immigrazione illegale in ogni futuro accordo di cooperazione, di associazione o equivalente17. Sif-fatte previsioni, tuttavia, fino al novembre del 2004 non ave-vano introdotto quadri generali entro cui calare le clausole.

Il Consiglio europeo, invece, nell’ambito del c.d. Programma dell’Aja, ha riconosciuto natura prioritaria alla conclusione di accordi di riammissione18, nell’ambito di un approccio globa-le in materia di immigrazione e mobilità (Global Approach to Migration and Mobility19), attribuendo valore strategico prioritario ai paesi alle frontiere esterne dell’Unione (paesi del Mediterraneo meridionale e del partenariato orientale)20. Del resto, già il Consiglio europeo di Laeken del dicembre 2001 aveva evidenziato come la politica sui flussi migratori, in particolare sulla riammissione, dovesse essere integrata nella politica estera della UE e che rimpatrio e riammissione costi-tuissero una delle dimensioni di una politica globale della UE sulla migrazione nei confronti dei paesi terzi.

L’entrata in vigore del trattato di Lisbona, che ha elimina-to la ripartizione in pilastri del sistema dell’Unione, unifican-do in particolare la cooperazione civile e penale, ha risolto le perplessità suscitate in dottrina dalla commistione di tali aspetti nella lotta all’immigrazione irregolare, che presenta-va profili appartenenti ad entrambi i pilastri21.

Nel TFUE la conclusione degli accordi dell’Unione ha trovato riconoscimento in una base giuridica esplicita (l’art.

79, par. 3). Essa però si limita a recepire nel Trattato quanto già posto in essere dalla Comunità sulla base dell’art. 63, par.

1, lett. b), punto 3, TCE, che riconosceva alla stessa compe-tenza ad adottare misure in materia di immigrazione e sog-giorno irregolare, compreso il rimpatrio delle persone resi-ding without authorisation, in combinato disposto con l’art.

300, par. 2, TCE, relativo alla competenza della Comunità a concludere accordi con altri Stati.

Il trattato di Lisbona risulta invece realmente innovativo in relazione alle procedure di adozione dell’accordo, rico-noscendo un maggior ruolo al Parlamento europeo, in pre-cedenza solo consultato. Infatti, l’art. 218, par. 6, lett. a), n.

v, prevede che il Consiglio adotti la decisione di concludere l’accordo «previa approvazione del Parlamento europeo».

3. Nonostante l’inserimento nel Trattato sul funzionamento