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Sindacalismo fascista e corporativismo

(1922-1945)

1. Avviare una discussione sul sindacalismo fascista vuol dire occu­ parsi del corporativismo, e in pari tempo seguire le vicende dei sinda­ cati fascisti implica interessarsi delle corporazioni: nell’ambito del fasci­ smo ormai assunto al potere, si può distinguere eventualmente fra un primo periodo, nel quale i sindacati del regime coesistono — seppure in posizione privilegiata — con quelli liberi, e in un’epoca più tarda, che comincia col ’26 per terminare soltanto col ’43, nella quale hanno im­ portanza predominante le corporazioni e il dibattito sul corporativismo. In effetti, ciò che conta veramente non è tanto valutare le strutture ufficiali, che possono esser state prevalentemente pura forma e prive di contenuto, quanto esaminare il dato sostanziale, i problemi del lavoro e dei lavoratori nello Stato fascista, e quindi tener conto degli schemi en­ tro i quali i lavoratori stessi furono inquadrati (anche se la loro adesione e il vantaggio che ne trassero furono minimi), cioè in conclusione espri­ mere un giudizio su ciò che fu lo « Stato corporativo ».

Gaetano Salvemini, già alla fine del 1935, aveva messo in luce l’im­ portanza di quella che stimava la creazione fascista più originale: il pas­ saggio dal sindacato di classe allo Stato corporativo, che egli riteneva es­ sere per il fascismo non unicamente una « misura difensiva » contro il bolscevismo internazionale, ma soprattutto un sistema « destinato non solo a sostituire le viete istituzioni democratiche in Italia, ma anche a condurre il mondo intero verso una più alta forma di civiltà » il di­ scorso del Salvemini, benché venato da passione politica, non era affatto 1

1. Gaetano Sa lv em ini, Under thè Axe of Fascism, New York, The Viking

Press, 1936, ora nella traduzione italiana di Alessandro Schiavi, Sotto la scure del

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ironico: egli individuava nel fascismo raffermarsi delle forze ostili alla classe operaia, il trionfare di una reazione sia a livello politico sia sul piano economico, capace di propagarsi dall’Italia mussoliniana a molti altri paesi, insomma una creazione « stupefacente » per la « soluzione del­ lo spinoso problema » delle relazioni fra capitale e lavoro (come scrive­ va un personaggio da lui citato, il professore di Princeton P . M. Brown). Il movimento operaio scompariva di fronte all’« autorità », alla « gerar­ chia », e il Salvemini ne concludeva che, « poste sia pur anche nella luce più favorevole, nelle organizzazioni legali fasciste le masse dei gregari non hanno una maggiore autorità degli animali in una società per la pro­ tezione degli animali stessi » 2.

La concezione dello Stato corporativo fu sicuramente innovatrice nei confronti della prassi sindacale tradizionale: e conseguentemente fu ab­ bondante, negli anni del regime, la letteratura sui sindacati fascisti e an­ cor più sulle corporazioni. Basti pensare che, in una sua bibliografìa edita nel 1942, il Gradilone, già allora studioso di storia sociale, poteva pre­ sentare circa 1.100 pagine di richiami bibliografici in m erito3, mentre erano numerosi i tentativi di sintesi, nei quali veniva presentato come naturale e regolare il passaggio dall’associazionismo libero al sindacalismo fascista e infine alle corporazioni4: il risultato più incisivo nella storio­ grafia era senza dubbio quello del Fanfani, nel quale, sulla scia dell’inse­ gnamento cattolico-sociale, si parlava della « vitalità », non solo in Italia ma in tutta l’Europa, del principio corporativo, e si constatava che « il corporativismo fascista è tornato all’idea di una costituzione organica della società » 5.

In campo « teorico », invero, nonostante il gran numero degli scritti pubblicati nel ventennio, sono pochissimi quelli che emergono; fra essi si possono menzionare i numerosi saggi di Ugo Spirito, che cercò di ve­

2. Ivi, p. 75.

3. Alfredo Gradilone, Bibliografia sindacale corporativa (1923-1940), Ro­

ma, Istituto nazionale di cultura, 1942 (pp. v iii-1103). La letteratura recente di maggiore importanza è oggi ripresa da Piero Melograni, Bibliografia orientativa sul fascismo. II, « Il Nuovo Osservatore », V II, 1966, n. 54, pp. 966-970 (capitolo Le corporazioni e il mondo del lavoro).

4. Si vedano, fra i molti scritti a disposizione: G. Cao, Dal sindacalismo di classe allo Stato corporativo, Napoli, 1933; Edoardo Malusardi, Elementi di storia del sindacalismo fascista, Lanciano, Carabba, 193 83; Giu s e p p e Botta i, Dalla corpo-razione romana alla corpocorpo-razione fascista, Roma, Istituto di studi romani, 1939; Giu lio Giacchero, Storia del movimento sindacale europeo, Firenze, 1940; Ar­

mando Lodolini, La storia sociale del lavoro, Roma, Unione editoriale d ’Italia,

19412. . ,

5. Amintore Fanfani, Il problema corporativo nella sua evoluzione storica,

SINDACALISMO FASCISTA E CORPORATIVISMO 6 5 dere nel corporativismo il momento di sintesi e d’incontro fra individua­ lismo e statalismo, fra liberalismo e socialismo, che poneva la « realtà concreta del gruppo », tesa a « colmare l’iato e a rendere effettiva la dia­ lettica dei due termini opposti »; con tutta evidenza lo Spirito cercava di dedurre gli elementi teorici dalla realtà esistente, dove appunto il con­ trasto di classe poteva venire eliminato per il trionfare del potere, orga­ nizzato gerarchicamente, di una classe ai danni di un ’altra 6. Più chiaro di quello dello Spirito era però il discorso sulle corporazioni di Carlo Costamagna, nella voce dedicata all’argomento dall’enciclopedia Treccani, per cui esse avevano lo scopo diretto di superare il « divampare della lot­ ta di classe », ponendo in evidenza « l’imperiosa esigenza della maggiore compattezza organica delle singole comunità politiche e della riafferma­ zione, quindi, dell’unità nazionale, nel senso economico, oltre che in quello politico » 7.

Per ciò che riguarda la pubblicistica più recente, posteriore al ’45, si può innanzi tutto constatare un fatto, ovvio del resto: il graduale abban­ dono, via via che ci si allontana dagli avvenimenti descritti, della lette­ ratura passionale, tipica di u n ’epoca di forti contrasti. In sostanza, in questo settore si è andati oltre la storiografìa salveminiana, nella quale i dati di fatto venivano soprattutto interpretati in chiave emotiva per at­ tribuire immediatamente un giudizio di valore, e che ha avuto natural­ mente in passato una sua ragion d ’essere: si rileva che oggi, se non sono moltissimi gli studi e gli interventi sul sindacalismo e sul corporativismo fascisti, se ne hanno a disposizione almeno alcuni che offrono descrizioni sufficientemente precise. Manca però tuttora un esame completo, che ne osservi lo sviluppo storico, inquadrandolo nella dinamica politica, nella quale le organizzazioni sindacali orizzontali formarono un elemento di staticità e di freno. Un indice di questa scissione, o semplicemente di vo­ luta misconoscenza dei dati di fatto, può esser giudicato il testo dell’Ho- rowitz: l ’autore in questo caso abbandona l’abituale vacuità (se non faziosità) per ignorare semplicemente il problem a8.

6. I saggi principali di Ugo Spir ito sulTargomento vennero raccolti in Critica

dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930; fondam enti dell’economia corporativa,

Milano, 1932; Capitalismo e corporativismo, Firenze, Sansoni, 19343. Si veda inol­ tre il volume miscellaneo La crisi del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1933, con pre­ fazione di Giuseppe Bottai, e con scritti di G. Pirou, Werner Sombart, E. F. Dur- bin, E. M. Patterson, Ugo Spirito.

7. Carlo Costamagna, Corporazione, in Enciclopedia italiana, Roma, 1931,

voi. XI, p. 465.

8. Si vedano i fuggevoli cenni ai sindacati fascisti e alla Confederazione delle corporazioni fasciste in Daniel L. Horow itz, Storia del movimento sindacale in Italia, Bologna, Il mulino, 1966, pp. 282 e 284.

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2. Si esaminano ora brevemente le opinioni più significative sui sin­ dacati e sulla politica sociale del fascismo.

Nello studio sulle connessioni tra fascismo e capitalismo, risalente alla fine degli anni trenta ma pubblicato in Italia soltanto nel ’56, Daniel Guérin constatava la minima incidenza del sindacalismo fascista per il periodo nel quale era esistita una possibilità di organizzazione libera, e, per contro, eliminata questa, il suo disintegrare ogni tentativo di resi­ stenza, superando la « lotta di classe » attraverso la pura e semplice so­ praffazione del movimento operaio 9; pur tenendo conto del carattere di denuncia, più che non di osservazione storico-critica, del testo del Gué­ rin, non si può non rilevare come la sua analisi sia stata sufficientemente realistica: il che è stato puntualmente comprovato da ricerche più vicine a noi nel tempo. Infatti, tanto il Valiani che il Catalano e l’Aquarone, soffermandosi sulla situazione dei lavoratori sotto il regime (il secondo e il terzo, in particolare negli anni venti, il primo, nel decennio seguente), rilevano come il fascismo abbia favorito il grande capitale, in una sorta di reciproco do ut des, col privare i lavoratori delle conquiste sociali del ’19- ’21: erano causa di ciò non solo le determinazioni politiche di vertice, per cui veniva lasciata mano libera ai datori di lavoro, ma anche la stessa organizzazione sindacale del fascismo, che non era cresciuta spontanea­ mente, ma aveva potuto imporsi « grazie alla vittoria fisica e politica dei fasci, dall’alto in basso » 10. In effetti, rovesciando quanto s’è detto, si vede come negli anni fino al ’26 il fascismo abbia potuto affermarsi non­ ostante la forza rilevante del movimento operaio organizzato liberamente, che mantenne per lungo tempo ancora una notevole capacità di resisten­ za; ma quest’ultimo mancava ormai nelle organizzazioni sindacali di pro­ spettive politiche, era guidato da dirigenti riformisti, che non intende­ vano superare i limiti delle rivendicazioni esclusivamente sindacali: don­ de la sconfitta globale e la soppressione finale.

Al sindacalismo libero il fascismo, fin dal ’25, intese sostituire l’orga­ nizzazione corporativa delle diverse componenti del mondo del lavoro;

9. Daniel Gu ér in, Fascismo e gran capitale, Milano, Schwarz, 1956, pp. 177

segg.

10. Leo Valiani, Il movimento operaio sindacale sotto il fascismo (1929- 1939), in Dall’antifascismo alla resistenza, Milano, Feltrinelli, 1959, pp. 39 segg.

e 53; Franco Catalano, Le corporazioni fasciste e la classe lavoratrice dal 1925 al 1929, « Nuova Rivista Storica », LXIII, 1959, n. 1, pp. 55-59; cfr. infine il cap. Verso lo Stato corporativo, in Alberto Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 110-168 (si consultino anche i molti docu­

menti ripresi nell’appendice). In generale si veda, di Alessandro Bu t t e, La fasci­ stizzazione dei sindacati e la « Carta del lavoro », in Fascismo e antifascismo (1918- 1936). Lezioni e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 293-296.

SINDACALISMO FASCISTA E CORPORATIVISMO 6 7 il fatto è che — è questa ¡’interessante tesi del Catalano — col corpora­ tivismo i dirigenti del partito e dei non forti gruppi sindacali fascisti vol­ lero rimediare il mezzo per costringere il padronato (che preferiva rivol­ gersi alle forze di classe, ostili ma effettive) a trattare con essi, e non cogli organi liberi, ai quali gli industriali, nonostante i patti stipulati nel 1923, ancora si indirizzavano, trovandosi di fronte a forze reali, con le quali dovevano fare i conti nella fabbrica. Seguì, fra il ’25 e il ’26, il preva­ lere dei sindacati fascisti, appoggiati dall’apparato burocratico dello Stato e dall’organizzazione poliziesca, e che assunsero il monopolio dell’assun­ zione, pur sempre con la resistenza delle masse operaie e nonostante la ridotta adesione e la scarsa fiducia manifestata da parecchi fra gli stessi dirigenti sindacali fascisti11 12

È pure dedicata alla disfatta del sindacalismo libero una parte del­ l’opera maggiore del Gradilone, di cui si parla a lungo in altre sezioni della presente rassegna: questi si limita a descrivere i fatti senza però esa­ minare le motivazioni politico-ideologiche alla base di essi u. Ha tuttavia il merito di considerare in un unico complesso metodologico le vicende del movimento sindacale, riuscendo a operare quei collegamenti che in altri studi sembrano essere magari più approfonditi, ma che restano set­ toriali. Così accade allorché egli segue i primi sviluppi del sindacalismo fascista, che pone al centro della propria azione lo Stato, al quale richiede di « rendere il sindacato partecipe del potere legislativo » nell’àmbito dei problemi del lavoro 13 : ma è del tutto parziale il suo pensiero rispetto alla « dissoluzione » del sindacalismo libero, per cui le « masse operaie erano stanche dei continui, inutili scioperi ed erano stanche e sempre più deluse delle continue, inutili lotte ». Con il riconoscimento giuridico veniva mantenuta teoricamente la libertà sindacale: ma il Gradilone non è capace di intravedere, come fanno invece il Catalano e il Valiani, i mo­ tivi per cui non fu consentito valersi di questa possibilità teorica, e ri­ scontra unicamente l’inanità della protesta continua, motivo semplicisti­ camente definito come determinante del decadere delle associazioni non fascistiche. Per contro, egli riconosce una certa vitalità al seguente ordi­ namento sindacale fascista, e in particolare alla Carta del lavoro (dalla prima stesura del ’27 a quella del ’34), mettendone in luce anche i rife­ rimenti con la dottrina sociale cristiana, però coll’ammissione finale che, nonostante l’affermarsi del corporativismo o, meglio, dello statalismo cor­ porativo, continuò a permanere, seppure in forma repressa, il «

duali-11. Franco Catalano, art. cit., pp. 43-51.

12. Alfredo Gradilone, Storia del sindacalismo. III. Italia, Milano, Giuffré, 1959, t. I I , pp. 123-171.

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smo » classistico 14. Si può desumere, da quanto si è detto, l’esiguo valore scientifico dello studio del Gradilone per le pagine che qui interessano, a motivo della mancanza di qualsiasi discussione a livello ideologico — a parte pochi apprezzamenti moraleggianti — e a causa del deficitario me­ todo di ricostruzione adottato: il testo ha però il merito di riunire in­ sieme in modo organico un certo numero di documenti legislativi e giu­ ridici, e di innestare il problema del sindacalismo fascista nella più ampia vicenda del movimento sindacale italiano.

La tematica è inserita in una cornice di ben altra levatura dal De Fe­ lice, nel terzo tomo della sua grande biografia mussoliniana; egli si sof­ ferma, invero non troppo a lungo, sulla creazione del ministero delle corporazioni, sulle contrapposizioni, inizialmente vivaci, tra sindacati fa­ scisti dei lavoratori e dei datori di lavoro, per inquadrare in genere le questioni sindacali e corporative nella globalità della situazione econo­ mica italiana, interpretando il risultato finale, la Carta del lavoro, quale un compromesso intercorso fra le varie componenti fascistiche I5. Pre­ gnante è in particolare l’osservazione del De Felice sull’avvio della poli­ tica sindacale-corporativa del fascismo, o meglio, come già constatò Paolo Orano, di M ussolini16: « Per comprendere veramente la nuova legisla­ zione sindacale e gli esordi della politica corporativa nel suddetto pe­ riodo, si deve partire, da un lato, da questa schematizzazione ideologico- pratica di Mussolini, e, da un altro, dal suo incontro con almeno tre fatti, più contingenti, ma non per questo meno decisivi in quelle parti­ colari circostanze: l’influenza e la concreta azione di Rocco e della destra fascista; la maggior fascistizzazione dei datori di lavoro rispetto ai lavo­ ratori, specialmente nell’industria, che faceva ritenere i primi più meri­ tevoli dei secondi di un trattamento preferenziale; il desiderio [...] di tenere a freno i sindacati fascisti e il loro capo [Rossoni] ».

Sono noti i risultati della scelta corporativa: a scapitarne fu soprat­ tutto la classe operaia, ridotta a « massa amorfa e inorganica », notava

14. Ivi, pp. 230-249. Sulla subordinazione (tramite la Carta del lavoro) del sin­ golo e dei gruppi all’interesse dello Stato, cfr. lo scritto cit. del Bu t t e, p. 293. In generale, sul sindacalismo fascista cfr. Italo Mario Sacco, Storia e dottrina sinda­ cale, Roma, Cinque lune, 1956, cap. I l i , e in particolare, sulla legislazione sinda­

cale e del lavoro del periodo, cfr. Giuliano Mazzoni, La conquista della libertà sindacale, Roma, Leonardo, 1947, pp. 159-164.

15. Renzo De Fe l ic e, Mussolini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista, 1925-1929, Torino, Einaudi, 1968, pp. 264-296.

16. Ivi, p. 279. L’Orano scrisse nel suo Mussolini da vicino (con parole ri­ prese dal Salvem ini, op. cit., p. 109): « La Carta del lavoro è il sistema filosofico

di Mussolini, è la chiave di volta del suo sistema politico, la sostanza statutaria della rivoluzione mussoliniana ».

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nel ’39 il Franck 17, ma « strumento docile, se non consenziente, della volontà di potenza mussoliniana ». Invero, non tutti gli aspetti della po­ litica sindacale-corporativa sono stati giudicati negativi da parecchi osser­ vatori (anche di parte democratica): così, ad esempio, il Butte può dar evidenza ad alcune conquiste sociali, il Giugni descrive la buona prepa­ razione culturale di parecchi funzionari delle corporazioni (a livello teo­ rico, però, e non collegata col mondo della tecnica e dell’industria), il Valiani accenna positivamente all’istituzione nel ’39 dei fiduciari di fab­ brica, e infine il Rigola parla delle stesse corporazioni come di un fatto positivo, almeno nelle linee dottrinali18. Ma, a parte gli apprezzamenti circoscritti di aspetti singoli della politica sindacale fascista, resta pur sempre valido il totale rifiuto di essa espresso da Ernesto Rossi nel li­ bro, giustamente famoso, sui « padroni del vapore », nei due capitoli dai titoli più che significativi di Sindacalismo schiavista e II bluff corpora­

tivo 19. Mentre altri studiosi, oltre a quelli menzionati, si preoccupano

soprattutto di seguire le vicende della lotta clandestina nel campo sin­ dacale contro il fascismo — e fra essi emerge il Candeloro nella sua ve­ loce sintesi di storia del sindacalismo e del movimento operaio italia­ n i 20 — il Rossi si addentra nella disamina dello stesso sindacalismo fa­ scista, prendendo in primo luogo le mosse dalla base documentaria of­ fertagli dai due volumi di ricordi personali e di documentazione dell’ex­

17. Louis Rosenstock Franck, Les étapes de l’économie fasciste italienne. Du corporatisme fasciste à l’économie de guerre, Paris, 1939, p. 13. Già nel ’30 era

apparso uno scritto dell’ex-segretario della FIOM: cfr. Bruno Buozzi - Vincenzo

Nit t i, Fascisme et syndicalisme, Paris, 1930.

18. Alessandro Bu t t e, op. cit., p. 295; Gino Giugni, Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia, « Il Mulino », V, 1956, nn. 51-52, pp. 5-8; Leo Valiani, op. cit., p. 70; Rinaldo Rigola, Storia del movi­ mento operaio italiano, Milano, Domus, 1947, pp. 492-493. Si veda inoltre: Luigi

Dal Pane, Aspetti storici dell’atteggiamento dei lavoratori di fronte al progresso tecnico e alle trasformazioni avvenute nell’organizzazione della produzione, in Lavo­ ratori e sindacati di fronte alle trasformazioni del processo produttivo, a cura di Franco Momigliano, Milano, Feltrinelli, 1962, voi. I, pp. 117-157.

19. Ernesto Ro s s i, Padroni del vapore e fascismo, Bari, Laterza, 1966 5, pp.

143-202 (la prima edizione del volume, con titolo I padroni del vapore, risale al 1955).

20. Giorgio Candeloro, Il movimento sindacale in Italia, Roma, Edizione di

cultura sociale, 1950, pp. 115-139: in effetti l’autore non prende in esame i sinda­ cati fascisti, se non per pochi cenni (pp. 127-128) relativi agli accordi di Palazzo Vidoni e alle relazioni — inizialmente difficili — di essi con l ’Ufficio internazionale del lavoro di Ginevra. Si veda anche, benché privo di dati originali, il testo di Leo

Diena, Sindacalismo italiano d ’oggi, Milano, Edizioni Allegranza, 1946, pp. 26-30,

per il quale il fascismo « ha ucciso il movimento sindacale », lasciando ai sindacati unicamente la funzione di inquadramento dei lavoratori.

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ministro per gli scambi e valute Felice G uarneri21. Quest’ultimo aveva espresso un giudizio sulla regolamentazione fascista del lavoro e delle or­ ganizzazioni operaie, come di un fatto sicuramente positivo, anche se por­ tato a compimento in malo modo per l’eccessiva burocratizzazione, e che in ogni caso contribuì a far cessare quell’« ondata di pigrizia che era stata una delle più tipiche manifestazioni di quel primo dopoguerra », ricon­ ducendo la collettività a un regime di normalità, facendo raggiungere « obiettivi di ordine nazionale », il « ripristino dell’economia nazionale », la « difesa della moneta »-e così via. Ernesto Rossi a questa visione cini­ camente ottimistica ne contrappone una realistica, che offre un quadro tragico della situazione italiana, pur nella prevalenza sull’esame storico dei giudizi pungentemente moralistici, tipici d ’altronde della sua produ­ zione pubblicistica. Il « sindacalismo schiavista » di cui egli parla è quel­ lo del riconoscimento giuridico dei sindacati, dei contratti di lavoro vin­ colanti, della magistratura del lavoro da una parte, e dall’altra dell’abo­ lizione del diritto di sciopero, affiancato in questo caso a quello di ser­ rata, ovvero, ancora, dell’assoluta impossibilità per gli operai e per i lavoratori in genere di scegliersi i propri rappresentanti, anche nell’àm­ bito dello stesso sindacalismo ufficiale: è palese che egli non si preoccupa tanto della struttura e dello sviluppo (magari involutivo!) dei sindacati stessi, quanto ha l’intento di dimostrare che essi erano una semplice mas­ sa di manovra nelle mani delle confederazioni industriali; ed è pure evi­ dente come gli riesca piuttosto facile provare questo. Così, allorché il Rossi discute del « bluff corporativo » non indugia tanto sul significato

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