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CAPITOLO 1: FOOD & MADE IN ITALY

1.3 Il Made In Italy

1.3.3 La situazione attuale

Durante gli anni 80 e I primi anni 90, l’export italiano ha tuttavia sofferto di una qualità sul mercato mondiale che appariva come inadeguata alla domanda. È divenuta famosa la frase presente nell’edizione di Luglio 2003 di The Economist “Except for being rotten, it is a success” (“Tralasciando il fatto che è marcia, è un successo”), riferita alla situazione di difficoltà dell’economia italiana, nonostante la qualità media dei prodotti fosse ancora elevata e dal 1973 il PIL era comunque cresciuto in maniera maggiore rispetto gli altri Stati europei. Per correre ai ripari e frenare quest’inversione di tendenza, il Governo di allora ha modificato il tasso di cambio della lira, permettendo una maggiore esportazione dei propri beni, a costo della svalutazione della moneta nazionale. La produzione italiana ha ricevuto grandi attenzioni durante gli scorsi decenni, grazie alla combinazione di qualità e varietà del suo export, specialmente nel campo della moda di alta fascia, nelle calzature, nella gioielleria, nell’arredamento e nell’alimentare.

In particolare, lo sviluppo e la crescita dei distretti industriali di materie prime e di prodotti finiti hanno portato a innovazione e specializzazione nella produzione. Collaborando nella fase operativa, grazie alla condivisione di pratiche produttive e spesso anche degli stessi materiali, le imprese di questi distretti riescono a reagire più velocemente ai cambiamenti della domanda e a fronteggiare le grandi multinazionali estere. I distretti italiani rappresentano uno dei pilastri per l’economia industriale del nostro Paese nonostante siano solo il 4,5% del totale delle imprese italiane3, esse rappresentano il 6,9% del valore aggiunto totale dell’industria italiana e addirittura il 25,6% dell’export totale. Negli ultimi anni, anche i distretti hanno dovuto affrontare numerose difficoltà nei mercati, a causa delle modifiche nelle abitudini di consumo mondiali, a differenti richieste da parte dei “nuovi ricchi”, in particolare dall’Oriente, e dei recenti focolai d’innovazione, presenti nelle stesse regioni asiatiche come la Cina e dalla West Coast statunitense. Per fronteggiare queste minacce, le imprese dei distretti devono ridefinire il loro approccio al consumatore, più sofisticato rispetto al passato, con il quale non condivide lo stesso linguaggio, cultura e tradizione, grazie ad una comunicazione più targettizzata e interattiva, nuovi canali (Di Maria e Finotto, 2008).

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L’Italia, per quanto riguarda il settore dei prodotti agricoli, ha una bilancia commerciale negativa, in quanto il suolo italiano a disposizione per le colture è relativamente scarso, data la conformazione del territorio; inoltre, la frammentazione dell’offerta, con una miriade di piccoli produttori locali, molte volte autonomi, e la ridotta quantità di consorzi e l’alto costo ella manodopera, creano le condizioni affinché il costo di produzione dei prodotti agroalimentari italiani rimanga alto rispetto alla media del mercato (Carbone e Henke, 2012). In questo scenario, i produttori alimentari italiani non possono pensare di riuscire a competere in base al prezzo, ma devono ricercare la qualità e metodi di produzione più efficienti.

Negli ultimi vent’anni, tuttavia, le aziende dell’agroalimentare italiano hanno compreso le nuove dinamiche del mercato estero, puntando più sulla qualità che non sul prezzo contenuto; nelle loro strategie competitive, i produttori si sono focalizzati principalmente su attributi quali l’autenticità, la naturalezza dell’artigianato, una forte identità italiana, origine, tipicità e tradizione (DI Maria e Finotto, ibidem).

Sulla base dei risultati di uno studio compilato da ISMEA, nel 2012 si è avuto un incremento del 6,1% su base annua dell’export agroalimentare italiano (toccando quota 29,3 miliardi di euro), specialmente grazie all’esportazione verso i paesi Extra-UE (+12,9% verso questi); in particolare, i prodotti con le migliori performance sono stati quelli del comparto dolciario e dei prodotti da forno, il settore enologico e la pasta in generale.

Nel 2013, i prodotti agroalimentari Made in Italy, ovvero l’insieme dei prodotti freschi e trasformati ai quali viene riconosciuta tipicità italiana, hanno costituito il 70% delle esportazioni agroalimentari totali, quest’ultima percentuale in continua e stabile crescita negli ultimi venti anni. Dai dati a disposizione, si può dedurre che il Paese ha un netto saldo positivo per quanto riguarda l’export di vino, frutta e ortaggi (queste categorie compongono anche la percentuale principale dell’export italiano), mentre è netta importatrice di carne, pesce e prodotti di colture industriali. Con riferimento alle singole categorie di prodotto, i vini in bottiglia rappresentano, con oltre il 16% sul totale delle esportazioni agroalimentari, il bene più esportato all’estero, seguiti da pasta, formaggi in generale, pelati e conserve di pomodori e salse e altri condimenti. Gli ortaggi e la frutta fresca, che fino agli anni ’80 hanno rappresentato una voce importante delle esportazioni, ora hanno ceduto la loro quota a

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favore delle salse e condimenti, segno di un cambiamento delle abitudini alimentari verso una maggiore rapidità di lavorazione e preparazione degli alimenti.

Tabella 6: Bilancia agroalimentare per settore (in milioni di €)

2012 Peso in %

Settori Export Import Saldo Export Import

TOTALE AGROALIMENTARE, DI CUI: 31851 39532 -7681

Vino e mosti 4691 305 4386 14,73% 0,77%

Frutta fresca e trasformata 3989 2706 1283 12,52% 6,85%

Ortaggi freschi e trasformati 3099 1983 1116 9,73% 5,02%

Cereali, riso e derivati 4629 4038 591 14,53% 10,21%

Altre bevande 1527 994 533 4,79% 2,51%

Florivivaismo 665 470 195 2,09% 1,19%

Oli e grassi 1677 2827 -1150 5,27% 7,15%

Latte e derivati 2244 3507 -1263 7,05% 8,87%

Colture industriali e derivati 497 3879 -3382 1,56% 9,81%

Animali e Carni 2620 6345 -3725 8,23% 16,05%

Ittico 521 4294 -3773 1,64% 10,86%

Fonte: Nazioni Unite – Comtrade (2012)

Il Paese che importa la maggior quantità di prodotti agroalimentari MII è la Germania, con oltre 5.345 milioni di Dollari (quasi il 20% dell’export totale), seguita da Francia, USA e Gran Bretagna, con una quota del 10% circa ciascuno. Rispetto ai decenni precedenti, dove la Germania deteneva una quota addirittura del 28%, si può notare un minore peso degli altri stati europei e un’apertura verso i mercati emergenti dei Paesi dell’Europa dell’Est, Russia, Cina, e Sud-Est asiatico. In particolare, con riferimento ai prodotti più esportati, gli Stati Uniti sono i maggiori importatori di vini imbottigliati, mentre la Germania rappresenta il maggiore partner commerciale per quasi tutte le altre categorie di prodotti.