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SOLUZIONE TRACCIA 5: DELITTO DI INDUZIONE INDEBITA, NATURA E FORMA TENTATA

Cassazione penale sez. VI, 06/02/2020, dep. 27/02/2020, n.7971

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia di primo grado del 19 ottobre 2018 con la quale, all'esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Pavia aveva condannato G.M. in relazione al reato di cui agli artt. 110, 112, 56, 81 cpv. e 319-quater c.p., per avere, in (OMISSIS) tra l'(OMISSIS), in concorso con C.M.

e altri (nei cui riguardi si era proceduto separatamente), compiuto atti idonei e diretti in maniera non equivoca a indurre P.M., Ch.Se., F.G. e Ca.Pi.Lu., soci e componenti del consiglio di amministrazione della Cantine Terre d'OltrePo, in quel periodo sottoposti ad indagini in un procedimento penale pendente dinanzi all'autorità giudiziaria pavese, a corrispondere indebitamente la somma di 250.000 Euro: condotta posta in essere con abuso da parte della C. della qualità di pubblico ufficiale, in quanto cancelliere della sezione penale del Tribunale di Pavia, la quale, in occasione di vari incontri sollecitati o organizzati dal G., prospettando agli interlocutori sviluppi delle indagini pregiudizievoli sotto il profilo economico in termini di sequestri di beni e confische di aziende, aveva rappresentato loro la possibilità di ottenere benefici quali il ritardo della richiesta di rinvio a giudizio e sconti di pena in primo e in secondo grado, anche in ragione delle conoscenze da lei vantate presso la Corte di appello di Milano; non riuscendo nell'intento in quanto i soggetti avvicinati non avevano aderito alle proposte, in alcuni casi dopo aver consultato i propri difensori.

Rilevava la Corte territoriale come le doglianze difensive fossero infondate, poichè le emergenze processuali erano idonee a ritenere integrati gli estremi del delitto tentato contestato; e come l'imputato non fosse meritevole del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ovvero di una riduzione della pena inflitta dal primo giudice.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l'imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti quattro motivi.

2.1. Violazione di legge, in relazione all'art. 319-quater c.p., e vizio di motivazione, per illogicità, per avere la Corte di appello erroneamente confermato la condanna di primo grado benchè le carte del procedimento, in specie i verbali delle dichiarazioni rese dai destinatari delle richieste, avessero comprovato che il G. aveva agito come extraneus rispetto alla condotta posta in essere dal pubblico ufficiale C.: la quale, facendo riferimento alla necessità di affidarsi ad avvocati milanesi e, genericamente, alla connessa possibilità di influire sulle decisioni che, nel procedimento in corso a carico dei suoi interlocutori, sarebbero state adottate dalla Corte di appello milanese, non aveva affatto abusato delle sue qualità, dato che tali condotte non avevano avuto alcun nesso con le funzioni da lei esercitate quale cancelliere della sezione penale del Tribunale di Pavia: l'assenza di

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qualsivoglia collegamento funzionale tra quelle proposte e lo specifico ruolo pubblicistico dalla stessa rivestito dell'ufficio giudiziario pavese era, dunque, circostanza che aveva escluso la possibilità di integrare gli estremi degli elementi oggettivi della fattispecie incriminatrice addebita.

2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 56 e 319-quater c.p., e vizio di motivazione, per illogicità, per avere la Corte distrettuale ingiustificatamente effettuato una valutazione ex post e non ex ante circa l'idoneità degli atti compiuti a determinare un condizionamento, ovvero un timore o un metus, nei soggetti passivi: omettendo di considerare le caratteristiche in sè della proposta formulata dai coimputati del G., nonchè di tenere conto che, all'epoca dei fatti, il procedimento penale a carico dei destinatari di quella richiesta si trovava ancora nella fase delle indagini, tant'è che essi avevano finito per ritenere quelle richieste una "bufala"; ed invece valorizzando, ai fini della configurabilità del tentato, una circostanza del tutto marginale, quella che i prevenuti, dopo aver ricevuto quella pretesa, si fossero consultati con i loro familiari.

2.3. Violazione di legge, in relazione all'art. 346-bis c.p., per avere la Corte lombarda omesso di riqualificare i fatti accertati in termini di tentato millantato credito, eventualmente anche a norma della disciplina come modificata dalla L. n. 3 del 2019: posto che la condotta dell'autrice della richiesta di denaro (somma non consegnata, non essendo stata la richiesta accettata) era praticamente consistita nel vantarsi di avere conoscenze e di poter influire su personale in servizio presso la Corte di appello di Milano, senza che dell'esistenza di tali conoscenze e relazioni fosse stata poi acquisita prova alcuna.

2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 132,133 e 62 bis c.p., e vizio di motivazione, per illogicità, per avere la Corte di merito irragionevolmente negato all'imputato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e una riduzione della pena irrogata dal primo giudice, nonostante dalle emergenze processuali fosse emerso che il G. era stato un mero intermediario e che la sua condotta era stata tutt'altro che decisiva, essendosi interrotta nel luglio del 2016, quando lo stesso

"era uscito completamente di scena" ed i computati si erano rivolti ad un altro intermediario, tal O.;

che i fatti non potevano essere qualificati come gravi, dato che le persone offese non avevano subito alcun metus, che l'indagine penale non aveva avuto alcuna forma di condizionamento e che la possibilità di influire sul personale della Corte di appello era rimasta espressione di una mera millanteria; e che non era stato neppure chiarito se il G., peraltro incensurato, che non aveva avanzato personalmente alcuna pretesa, fosse certo che sarebbe stato destinatario di una parte del denaro di cui era stata chiesta, da altri, la consegna.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.

2. Il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato.

Come noto, per la configurabilità del delitto di induzione indebita a dare o promettere di cui all'art.

319 quater c.p. è richiesto che l'agente, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, abbia abusato della sua qualità o dei suoi poteri: elemento, questo, essenziale per la sussistenza di tale

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reato contro la pubblica amministrazione poichè, in assenza di una siffatta forma di abuso, l'interessato potrebbe essere chiamato a rispondere della sua condotta a diverso titolo, ad esempio di estorsione o tentata estorsione eventualmente aggravata dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio.

Tuttavia, pur indicando quella norma due figure fungibili, nel senso che per intergare gli estremi del delitto de quo è sufficiente la ricorrenza di una o dell'altra forma di abuso, è evidente come l'abuso delle qualità connota il reato sotto l'aspetto soggettivo, a differenza dell'abuso delle funzioni che lo caratterizza sotto l'aspetto oggettivo. Ed infatti, la prima ipotesi si concretizza nella condotta di chi si avvale del proprio status, dunque della propria posizione all'interno della pubblica amministrazione, per rafforzare la pressione induttiva rivolta verso il destinatario della richiesta di denaro o di altra utilità; la seconda ipotesi di abuso si traduce, invece, nel paventato esercizio o nel prospettato mancato esercizio dei poteri propri dell'ufficio o del servizio ricoperto dall'agente.

Alla luce degli indicati risultati dell'interpretazione letterale della norma incriminatrice in argomento, nei quali è possibile riconoscere l'eco delle soluzioni esegetiche offerte dalla giurisprudenza di legittimità nella definizione dell'analoga formula contenuta nell'art. 317 c.p. a proposito del reato di concussione (al riguardo si veda Sez. 6, n. 10604 del 12/02/2014, Ramello, Rv. 259896), è possibile sostenere che, ai fini della configurabilità del delitto di induzione indebita di cui all'art. 319 quater c.p., la nozione di "abuso dei poteri" è riferibile ai soli casi in cui la condotta rientri nella competenza tipica dell'agente, sia cioè una manifestazione delle sue potestà funzionali pur se esercitate per uno scopo diverso da quello per il cui soddisfacimento l'agente sia stato investito; mentre la nozione di "abuso delle qualità" postula una condotta che, indipendentemente dalle specifiche competenze proprie del soggetto attivo, si manifesta quale strumentalizzazione della posizione di preminenza dallo stesso agente ricoperta nei confronti del privato, posizione fatta valere in maniera tale da rendere credibile e idonea l'induzione all'indebita promessa o dazione di denaro o di altra utilità.

Di tali regulaeiuris la Corte di appello di Milano ha fatto buon governo, osservando - con una motivazione, integrata anche da consentiti rinvii a quella di primo grado, nella quale non sono riconoscibili lacune o vizi di manifesta illogicità - come la stretta interrelazione causale tra la forma di abuso della qualità contestata agli imputati e l'induzione esercitata verso le vittime fosse stata comprovata dalle acquisite emergenze processuali: le quali avevano dimostrato che la C., che

"continuamente aveva acquisito informazioni da suoi colleghi sul processo penale nel quale erano indagate le persone offese", alle quali, dunque, ella si era presentata come persona ben a conoscenza dei dettagli di quella indagine e come colei che avrebbe potuto concretamente far ottenere dei vantaggi già durante la pendenza del procedimento proprio dinanzi al Tribunale di Pavia, dove ella era cancelliere della sezione penale, giungendo a prospettare persino un ritardo nella definizione della richiesta di rinvio a giudizio, A tal fine la prevenuta aveva accreditato la possibilità di far ottenere ai quattro componenti del consiglio di amministrazione coinvolti nella inchiesta giudiziaria una serie di significativi "vantaggi" illeciti, laddove avessero accettato di consegnare la cospicua

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somma di denaro di cui ripetutamente era stata sollecitata la consegna, fornendo una serie di dettagli che avevano reso attendibile il suo accreditarsi come impiegata di quell'ufficio giudiziario che, proprio per il suo ruolo, avrebbe potuto in vario modo incidere sui tempi e sugli esiti del quel procedimento: per il teste Ca., la C. si era proposta di presentargli "persone importanti e molto influenti... in grado di fermare le indagini e far cadere quindi tutto l'impianto accusatorio", mentre il G. gli aveva garantito "non ci sarebbero stati più blitz in cantina, nessun controllo... visto l'interessamento anche della cancelliere di Pavia... la cosa poteva davvero andare in porto"; per il teste c.l., la C. aveva fatto "capire loro che avrebbe potuto aiutarli nel procedimento penale intervenendo nelle sedi giudiziari di Pavia e di Milano"; per il teste c.a., la C. aveva cercato di accreditare la sua "possibilità di influenzare il procedimento della cantina", mostrando loro delle sue foto mentre era in toga, mentre in seguito, rispondendo ad una telefonata del G. che, alla presenza di una delle persone offese, l'aveva chiamata per avere notizie, aveva dimostrato di essere ben a conoscenza degli sviluppi di quella indagine, comunicando loro che pubblico ministero "non si sarebbe fermato e sarebbe andato fino in fondo".

3. Anche il secondo motivo del ricorso è infondato.

Costituiscono iusreceptum nella giurisprudenza di legittimità i principi secondo i quali il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all'art. 319 quater c.p., non integra un reato bilaterale, in quanto le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto si perfezionano autonomamente ed in tempi diversi, sicchè il reato si configura in forma tentata nel caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente (Sez. 6, n. 35271 del 22/06/2016, Mercadante, Rv. 267986); e, in tema di tentativo, l'idoneità degli atti non va valutata con riferimento ad un criterio probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso, bensì in relazione alla possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone, di modo che l'azione, valutata "ex ante" e in relazione alla sua realizzazione secondo quanto originariamente voluto dall'agente, risulti qualificata dalla capacità di attuare il proposito criminoso (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 17988 del 06/02/2018, Mileto, Rv.

272810).

Di tali indicazioni interpretative la Corte di appello di Milano ha fatto corretta applicazione, rilevando - con argomenti che restano esenti da censure di illogicità - come la idoneità della condotte poste in essere dalla C. e dagli altri correi fosse stata comprovata dai dati conoscitivi che ella e i suoi correi avevano dimostrato di avere a disposizione: circostanze da cui era stato possibile evincere che, a fronte delle reiterate pretese di consegna di denaro, che pure avevano destato

"perplessità" nei destinatari, questi non erano stati affatto convinti della inutilità di dare seguito alle richieste, tanto da averne discusso tra loro, ciascuno con i propri familiari e alcuni anche con i rispettivi avvocati che li difendevano nel procedimento nel quale erano indagati, e che solo in seguito essi si erano determinati a non consegnare quanto loro domandato.

4. La questione di diritto posta dal ricorrente con il terzo motivo del suo atto di impugnazione è al limite della ammissibilità, in quanto avente ad oggetto la tematica della corretta qualificazione

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giudica delle condotte accertate che la difesa ho posto per la prima volta solo con l'odierno atto di impugnazione, avendola sottratta alla cognizione del giudice dell'appello dinanzi al quale erano state sollevare esclusivamente censure in ordine alla sussistenza della condotta sotto il profilo oggettivo.

Tuttavia, pur a voler ritenere che quella sull'esatta individuazione della fattispecie incriminatrice applicabile rientri tra le questioni rilevabili in ogni stato e grado del giudizio, la doglianza difensiva è priva di pregio.

E' pacifico che il delitto di millantato credito, figura ora assorbita in quella di traffico di influenze illecite in conseguenza delle modifiche introdotte dalla L. n. 3 del 2019, puniva la condotta di chi, anche senza rivestire una qualifica pubblicistica, si fa dare o promettere denaro o altra utilità quale prezzo della propria mediazione verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, presso il quale l'agente millanta un credito: condotta che oggi, nella nuova formulazione dell'art.

346 bis c.p., è sanzionata indipendentemente dalla effettiva esistenza delle relazioni, che l'agente può sfruttare o anche solo vantare di avere con un pubblico funzionario.

Nel reato di induzione indebita a dare o promettere utilità (così come nel reato di corruzione, in cui la posizione tra il pubblico funzionario e il privato è paritaria), il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio pone in essere un'azione prevaricatrice per indurre taluno a dare o promettere denaro o altra utilità non per remunerare la sua iniziativa mediatoria (vera o presunta) presso altro agente pubblico, ma direttamente per remunerare la propria attività, posto che - come si è innanzi anticipato - la norma prevista dall'art. 319 quater c.p. prevede che il soggetto attivo abbia abusato delle proprie qualità o dei propri poteri pubblicistici.

In tale ottica, va riconosciuta la correttezza della soluzione adottata dai giudici di merito che, pur senza essere investiti direttamente della questione relativa alla configurabilità di un delitto diverso da quello contestato, hanno chiarito come il G. fosse stato chiamato a rispondere da extraneus della condotta posta in essere dalla C., la quale, intraneus, perchè cancelliere del Tribunale di Pavia, non si era affatto limitata a promettere un interessamento in favore degli indagati in relazione al momento in cui il processo penale a loro carico fosse eventualmente giunto dinanzi al giudice di secondo grado, ma aveva prospettato vantaggi che avrebbe potuto far ottenere ai prevenuti già nel corso del primo grado del procedimento, durante la sua pendenza dinanzi al Tribunale di Pavia dove ella prestava servizio e dove, pertanto, abusando delle sue qualità, aveva reso credibile la possibilità di influire sulle sorti di quel processo. Con la conseguenza che il fatto di vantare anche non meglio definite "entrature" altri uffici giudiziari avrebbe potuto comportare la contestazione a carico della C. e dei suoi correi di un concorrente reato di millantato credito, senza però escludere che la loro condotta avesse già integrato, per le ragioni innanzi tratteggiate, gli estremi del contestato delitto di tentata induzione indebita.

5. Il quarto e ultimo motivo del ricorso è manifestamente infondato.

Il ricorrente ha preteso che in questa sede di legittimità si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito ha esercitato il potere discrezionale a lui

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concesso dall'ordinamento ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della quantificazione della pena irrogata: esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.

Nella specie, del tutto correttamente - con decisioni sorrette da un apparato argomentativo congruo, dunque non sindacabile in sede di legittimità - la Corte di appello di Milano ha ritenuto ostativo al riconoscimento delle attenuanti generiche e alla riduzione della pena, peraltro già infitta in misura prossima al limite edittale minimo, la oggettiva gravità delle condotte poste in essere dall'imputato, il ruolo tutt'altro che secondario da lui svolto nella vicenda, che in più occasioni aveva accompagnato la C. presenziando agli incontri con le persone offese, nonchè la intensità del dolo manifestata nel porre in essere una condotta pervicace, sviluppatasi in un arco temporale non breve.

6. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell'erario delle spese del presente procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2020

63 TRACCIA N. 6

Nel corso dell’estate del 2020, approfittando della chiusura per ferie di molti esercizi commerciali del paese Beta, Tizio metteva a segno una serie di furti.

Allarmati dall’aumento esponenziale dei furti, i carabinieri della locale caserma decidevano di sorvegliare, tramite l’installazione delle telecamere, gli unici due esercizi commerciali ancora non violati.

Ignaro dell’iniziativa delle Forze dell’ordine, Tizio si introduceva proprio in uno dei due locali sorvegliati, un negozio di materiale elettrico, al fine di appropriarsi dei costosi fili in rame ivi presenti.

Caricato il materiale nella propria automobile ed avviatosi verso l’uscita del parcheggio, Tizio veniva incrociato dai Carabinieri che avevano seguito tutto lo sviluppo dell’azione criminosa.

Simulando dapprima la resa, con una complessa manovra di guida, riusciva a fuggire dal parcheggio. A seguito di un lungo inseguimento, Tizio finiva poi con l’impattare rovinosamente contro la barriera del vicino casello autostradale.

Il candidato rediga parere pro veritate in merito alle fattispecie penali configurabili nella specie.

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SOLUZIONE TRACCIA 6: FURTO, CRITERIO DISTINTIVO TRA CONSUMAZIONE E