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TRACCE E GIURISPRUDENZA DI DIRITTO PENALE. (Con traccia per l esercitazione)

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Academic year: 2022

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TRACCE E GIURISPRUDENZA DI DIRITTO PENALE

IV

(Con traccia per l’esercitazione)

CORSO ESAME AVVOCATO 2021/2022 a cura dell’avv. Giulio Forleo

www.jurisschool.it

www.ildirittopenale.blogspot.com

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2 INDICE

Premessa………..…...….3

Traccia assegnata nella precedente dispensa………...4

Schema risolutivo………..……….….5

Traccia: Elemento oggettivo del falso ideologico………...8

Soluzione Traccia 1.………9

Traccia: Reato di frode in assicurazione e natura plurioffensiva………20

Soluzione Traccia 2………..21

Traccia: Diffamazione tramite facebook……….………..23

Soluzione Traccia 3.……….24

Traccia: Espianto ovociti e rapina………..………29

Soluzione Traccia 4……….………..30

Delitto di induzione indebita, natura e forma tentata………...56

Soluzione Traccia 5 ………..57

Furto, criterio distintivo tra consumazione e tentativo……….63

Soluzione Traccia 6………...64

Violazione degli obblighi di assistenza familiare e accordo transattivo………..69

Soluzione Traccia 7………...70

Omicidio colposo mediante omissione e omissione di soccorso………73

Soluzione Traccia 8………..74

Reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro………...105

Soluzione Traccia 9……….106

Tentativo di prostituzione minorile………..114

Soluzione Traccia 10………..115

Differenza tra tentativo e consumazione nel reato di rapina impropria………..120

Soluzione Traccia 11……….121

Reato di furto e nozione di privata dimora……….130

Soluzione Traccia 12………..131

Corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficale……….136

Soluzione Traccia 13………..137

Reato di violenza privata………..146

Soluzione Traccia 14……….147

Massime rilevanti………..150

Traccia per l’esercitazione………163

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3 Premessa Care/i ragazze/i,

in questa quarta dispensa del modulo di penale continueremo ad approfondire le tematiche connesse all’elemento oggettivo del reato, al nesso di causalità, al tentativo di reato e al bene giuridico tutelato.

Cercate di esercitarvi il più possibile cronometrando sia il tempo di risoluzione delle tracce sia quello di un’eventuale esposizione della problematica rinvenuta.

Cordiali saluti e buon lavoro.

Avv. Giulio Forleo

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TRACCIA ASSEGNATA NELLA PRECEDENTE DISPENSA

Mevio, legale rappresentante della società Beta, per portare a termine un investimento immobiliare su un terreno di proprietà dell’azienda, chiede una valutazione all’Ufficio Edilizia del Comune Gamma in merito alla possibilità di edificare su di esso.

Non essendo in possesso della documentazione necessaria, Mevio decide di formare una falsa fotocopia di un'autorizzazione edilizia in realtà inesistente e la presenta a Tizio, geometra del Comune incaricato di seguire la pratica.

Tizio, tratto in inganno dall’atto falsificato opera una valutazione positiva, rilasciando la relativa documentazione, necessaria a Mevio per costruire l’immobile.

Dopo qualche mese, però, a seguito di approfondimenti istruttori, nati dall’assenza sul documento di elementi essenziali che normalmente contraddistinguono i titoli edilizi, emerge la falsità della fotocopia e Mevio viene denunciato all’Autorità Giudiziaria per il delitto di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici ex artt. 476 e 482 c.p..

Mevio si rivolge immediatamente al vostro studio legale per conoscere le eventuali conseguenze penali della descritta condotta.

Il candidato rediga parere legale motivato.

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SCHEMA RISOLUTIVO

1) Cerchiare/Sottolineare i principali elementi in fatto che caratterizzano la traccia e che dovrete brevemente rappresentare alla Commissione:

- Mevio, legale rappresentante della società Beta chiede una valutazione all’Ufficio Edilizia del Comune Gamma in merito alla possibilità di edificare su un terreno di proprietà dell’azienda;

- Mevio decide di formare una falsa fotocopia di un'autorizzazione edilizia in realtà inesistente e la presenta a Tizio, geometra del Comune incaricato di seguire la pratica.

- Tizio, tratto in inganno dall’atto falsificato, opera una valutazione positiva, rilasciando la relativa documentazione, necessaria a Mevio per costruire l’immobile.

- Dopo qualche mese, però, a seguito di approfondimenti istruttori, nati dall’assenza sul documento di elementi essenziali che normalmente contraddistinguono i titoli edilizi, emerge la falsità della fotocopia.

- Mevio viene denunciato all’Autorità Giudiziaria per il delitto di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici ex artt. 476 e 482 c.p..

2) (INCIPIT PER INTRODURRE L’ESPOSIZIONE IN DIRITTO)

Scrivere sul foglio che “Nel caso di specie la questione giuridica da risolvere consiste essenzialmente nello stabilire se la formazione di una falsa fotocopia di un atto pubblico inesistente integri o meno una condotta penalmente rilevante”.

3) In via preliminare, analizzare gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 476 c.p.., mettendo in evidenza la differenza, contemplata da tale norma, tra le condotte di contraffazione (quando si pone fisicamente in essere un atto che prima non preesisteva) e quelle di alterazione (quando si modifica un documento preesistente e genuino).

4) Rappresentare l’esistenza di un conflitto giurisprudenziale sulla rilevanza penale della creazione di un atto che appaia come la copia (non autentica) di un documento pubblico in realtà inesistente.

5) Secondo un primo gruppo di decisioni, tale condotta non sarebbe riconducibile al tipo di cui agli artt. 476-482 c.p. (falso materiale in atto pubblico realizzato dal privato), giacché “le norme sulla falsità materiale colpiscono la contraffazione o l'alterazione dei documenti originali e sono dirette a reprimere la condotta di colui che ne crei l'apparenza; non anche la condotta di colui che utilizzi le riproduzioni di un documento, quando, per le modalità e le circostanze dell'uso, sia chiaro che si tratti di una copia (comunque realizzata) dello stesso”. Sarebbe, dunque, necessario, affinché possa dirsi violato il precetto penale che l'atto falso “presenti i requisiti di forma e di sostanza tali da farlo apparire come il documento originale o come la copia autentica dello stesso”. (Cass. pen., Sez. V, 19 gennaio 2018 n. 2297; Cass. pen., Sez. V, 27 febbraio 2015 n. 8870; Cass. pen., Sez. V, 8 marzo

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2013 n. 10959; Cass. pen., Sez. V, 12 febbraio 2008 n. 7385).

Tale conclusione troverebbe il proprio fondamento nella visione dell'offensività nei reati di falso come dipendente dal contenuto specificamente attestativo dell'atto, e pertanto non ravvisabile, nel caso della formazione della falsa copia di un documento inesistente, in assenza di condizioni che rendano la copia formalmente dimostrativa dell'esistenza del documento stesso.

6)  Secondo un altro orientamento di contenuto esattamente opposto, invece, “il reato di falso è integrato dalla formazione di un atto presentato come riproduzione fotostatica di un documento in realtà insussistente del quale si intendano viceversa attestare l'esistenza e gli effetti probatori” (Cass. pen., Sez. V, 31 gennaio n. 4651; Cass. pen., Sez. V, 15 ottobre 2012 n. 40415;

Cass. pen., Sez. VI, 12 febbraio 2008 n. 6572).

Tale conclusione troverebbe fondamento in due considerazioni: (i) la creazione di una falsa copia implicherebbe la realizzazione preliminare di un falso originale, condotta questa senz'altro riconducibile alla contraffazione, a seconda del tipo di documento, di cui agli artt. 476 o 478 in relazione all'art. 482 c.p.; (ii) in ogni caso, indipendentemente dalla creazione di un falso originale, la fede pubblica sarebbe offesa anche dalla falsa copia, implicando per sua natura una copia fotostatica l'esistenza di un originale, in realtà, appunto, inesistente, trattandosi di falsa fotocopia.

7) Indicare che sulla questione si sono pronunciate le Sezioni Unite della Cassazione che, aderendo al primo dei due orientamenti esposti, hanno affermato che “La formazione della copia di un atto inesistente, non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l'apparenza di un atto originale. A tal fine ciò che rileva non è tanto la presenza della attestazione di autenticità, quanto che la copia del documento si presentì o venga esibita con caratteristiche tali, di qualsiasi guisa, da voler sembrare un originale, e averne l'apparenza, ovvero che la sua formazione sia idonea e sufficiente a documentare nei confronti dei terzi l'esistenza di un originale conforme: in tal caso la contraffazione è sanzionabile ex artt. 476 o 477 c.p., secondo la natura del documento che mediante la copia viene in realtà falsamente formato o attestato esistente. In altri termini, per la rilevanza penale della condotta il soggetto che produce la copia deve compiere anche un'attività di contraffazione che vada a incidere materialmente sui tratti caratterizzanti il documento in tal modo prodotto, attribuendogli una parvenza di originalità, così da farlo sembrare, per la presenza di determinati requisiti formali e sostanziali, un provvedimento originale o la copia conforme, originale, di un tale atto ovvero comunque documentativa dell'esistenza di un atto corrispondente”

(Cassazione penale sez. un., 28/03/2019, n.35814)

8) Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, ai fini dell’esclusione della responsabilità penale di Mevio, valorizzare i seguenti elementi forniti dalla traccia:

- falsa fotocopia di un'autorizzazione edilizia in realtà inesistente;

- assenza sul documento di elementi essenziali che normalmente contraddistinguono i titoli edilizi.

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9) CONCLUDERE, affermando che, in linea con l’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite, la condotta di Mevio non assume alcuna rilevanza penale, essendosi risolta nella semplice presentazione di una fotocopia di un atto inesistente, sguarnita degli indispensabili requisiti, di forma e di sostanza, capaci di farla sembrare un atto originale o, comunque, documentativo dell'esistenza di un atto corrispondente. 

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8 TRACCIA N. 1

Con sentenza del Tribunale di Milano, Mevio veniva condannato alla pena di anni due di reclusione, in relazione al delitto ex art. 479 c.p..

In particolare, veniva contestato a Mevio, in qualità di presidente della terza sezione del T.A.R.

Lombardia ed estensore della decisione del ricorso cautelare proposto dal comune Beta, di aver attestato il falso, rispetto al contenuto della decisione del collegio da lui presieduto, nel dispositivo della ordinanza n. XXX, da lui redatta, con cui veniva accolta la domanda cautelare.

Nel dispositivo, infatti, veniva statuita la sospensione del provvedimento impugnato (una decisione della Commissione Europea), a differenza di quanto deliberato all'esito della discussione in camera di consiglio, "nel corso della quale il collegio a maggioranza dei suoi componenti si era espresso in senso inequivocabilmente contrario alla sospensione del provvedimento dell'Unione Europea concordando a favore della sola sospensione degli atti interni di esecuzione della citata decisione Europea".

Mevio si rivolge al vostro studio legale, al fine di appellare la suddetta pronuncia, evidenziandovi che:

- come si evince dalla lettura dell'ordinanza cautelare di cui si discute, il percorso argomentativo trasfuso nell'atto, attraverso la redazione della motivazione, si sofferma esclusivamente sui profili, normativamente imposti, del fumus boni iuris (p. 3) e del periculum in mora (p. 4);

- rimane, invece, del tutto estraneo alla motivazione il tema della sospensione dell'efficacia del citato provvedimento della Commissione Europea, trattandosi di una questione irriducibilmente estranea al procedimento cautelare innanzi al giudice amministrativo, pacificamente sfornito di giurisdizione in ordine ai ricorsi volti a far valere l'annullamento di atti delle istituzioni, degli organi o degli organismi dell'Unione Europea, che l'art. 256 del T.F.U.E. attribuisce in primo grado al Tribunale dell'Unione Europea.

Il candidato rediga il richiesto atto di appello.

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SOLUZIONE TRACCIA 1: ELEMENTO OGGETTIVO DEL FALSO IDEOLOGICO.

Cassazione penale sez. V, 21/09/2020, (dep. 09/11/2020), n.31271

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Milano confermava la sentenza con cui il tribunale di Milano, in data 26.4.2016, aveva condannato L.A. alla pena di anni due di reclusione, in relazione al delitto ex art. 479 c.p., in rubrica ascrittogli.

Secondo l'impostazione accusatoria, accolta dai giudici di merito, il suddetto imputato si sarebbe reso responsabile di falsità ideologica in atto pubblico.

Il L., infatti, in qualità di presidente della terza sezione del T.A.R. Lombardia ed estensore della decisione del ricorso cautelare proposto dal comune di Milano, diretto ad ottenere la sospensione del procedimento amministrativo avviato dal Governo per il recupero delle somme versate da

"S.E.A. s.p.a.", società partecipata dal comune, a "S.E.A. HANDLING s.p.a.", ritenute dalla Comunità Europea, con decisione C.E. 19.12.12. (SA 2140- C14/2010) "aiuto di stato", nel dispositivo della ordinanza n. 553/2013, da lui redatta, con cui veniva accolta la domanda cautelare, aveva attestato il falso rispetto al contenuto della decisione del collegio, presieduto, per l'appunto, dal suddetto L..

Nel dispositivo, infatti, veniva statuita la sospensione della menzionata decisione della Commissione Europea e del "gravato relativo procedimento nazionale di recupero somme a carico del comune di Milano", a differenza di quanto deliberato all'esito della discussione in camera di consiglio, "nel corso della quale il collegio a maggioranza dei suoi componenti (i giudici B., F. e L.) si era espresso in senso inequivocabilmente contrario alla sospensione del provvedimento dell'Unione Europea concordando a favore della sola sospensione degli atti interni di esecuzione della citata decisione Europea".

2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputato, articolando otto motivi di ricorso.

Con il primo motivo di impugnazione, il L. lamenta violazione di legge, in relazione all'art. 479 c.p., sotto il profilo della insussistenza dell'elemento oggettivo del delitto di falsità ideologica.

Premesso che la contestazione dell'illecito non coinvolge la motivazione del provvedimento, pacificamente redatta dall'imputato e depositata contestualmente al dispositivo, rileva il ricorrente come nella motivazione fossero riportati tutti i passaggi (di fatto e di diritto) concordati tra i giudici in camera di consiglio, non facendosi riferimento alcuno al potere del tribunale di sindacare la validità o l'efficacia del provvedimento con cui la C.E. aveva qualificato gli aumenti di capitale disposti in favore della "S.E.A. HANDLING s.p.a.", in termini di "aiuti di stato"; che, anzi, nella motivazione si dava atto specificamente, tra l'altro, che l'efficacia della sospensione concessa era temporalmente limitata fino alla decisione del merito della causa al riguardo pendente davanti al Tribunale dell'Unione Europea.

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Se ne deduce l'impossibilità di configurare l'elemento oggettivo del delitto di cui si discute, integrato dalla necessità che nella parte descrittiva dell'atto pubblico avente contenuto dispositivo, che costituisce presupposto necessario alle susseguenti determinazioni, si affermi volutamente l'esistenza di una situazione di fatto contraria al vero.

E', infatti, configurabile il reato di cui all'art. 479 c.p., purchè la falsità della conclusione dispositiva assunta dal giudice dipenda non dalla invalidità delle argomentazioni, ma dalla falsità delle premesse fattuali o di diritto dalle quali tali argomentazioni muovono.

Nel caso in esame, pertanto, non può ritenersi integrato l'elemento oggettivo del reato di falsità ideologica, posto che il dispositivo materialmente redatto dal presidente L., giammai si fondava su premesse fattuali o giuridiche false, ma anzi su argomentazioni condivise dall'intero collegio, con particolare riferimento anche al profilo del difetto di giurisdizione sul menzionato provvedimento della C.E., alla luce delle quali andava dunque considerato il dispositivo contestato.

Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce vizio di motivazione, sempre con riferimento alla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato ex art. 479 c.p..

Rileva il ricorrente, al riguardo, che, non avendo formato oggetto del ricorso cautelare del comune di Milano la decisione della C.E., ma solo gli atti interni volti a dare esecuzione a tale decisione, il dispositivo non poteva che essere interpretato alla luce della motivazione dell'ordinanza.

Manifestamente illogico appare poi valutare come un artificio per superare le prevedibili contestazioni dei due giudici a latere il comportamento dell'imputato, che espunse dal brogliaccio della motivazione già predisposto le esplicite censure alla qualificazione degli aumenti di capitale SEA in termini di aiuti di Stato, posto che tale condotta dimostra, piuttosto, come egli in tal modo si sia adeguato alla decisione collegiale.

Illogico e del tutto contraddittorio deve ritenersi anche l'assunto della corte territoriale, che ha valorizzato in chiave accusatoria il rifiuto dell'imputato di eliminare il riferimento alla sospensione del provvedimento della C.E. facendo ricorso alla procedura di correzione dell'errore materiale, in quanto, premesso che tale procedura non era attivabile d'ufficio, il comportamento del L. dimostra, invece, come per lui non vi fosse nulla da correggere, in quanto sin dal primo momento egli non aveva affatto inteso sospendere il provvedimento C.E., emergendo dalla motivazione dell'ordinanza che giammai l'imputato ha attribuito al T.A.R. una qualsivoglia giurisdizione in merito.

Contraddittorio ed illogico appare anche il passaggio argomentativo in cui si afferma che L. sarebbe stato pienamente consapevole dei limiti della propria giurisdizione.

Tale passaggio, inteso rettamente, avrebbe dovuto far deporre per la piena consapevolezza da parte dell'imputato della totale carenza di giurisdizione da parte del T.A.R. e, dunque, della completa inutilità della sospensione di un provvedimento della C.E., di fatto già sospeso in pendenza del giudizio innanzi al tribunale Europeo, posto che tale affermazione non si concilia con la ritenuta volontà di andare oltre i suddetti limiti, che resta priva di giustificazione logica, in quanto, da un lato, non sono emersi indebiti interessi privati al cui soddisfacimento fosse indirizzata la condotta dell'imputato, dall'altro, la tutela dei rilevanti interessi in gioco coinvolti nella decisione assunta,

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sarebbe stata comunque raggiunta se nel dispositivo fossero stati menzionati come sospesi cautelarmente i soli atti interni.

Del tutto mancante si presenta, infine, la motivazione della sentenza impugnata in ordine a due questioni, l'evidenziata inutilità della sospensione del provvedimento C.E. ed il tenore dell'ordinanza del T.A.R., così come riassunta nel documento della Commissione Europea, acquisito in appello.

Con il terzo motivo di ricorso, l'imputato lamenta il vizio di motivazione in ordine alla mancata configurabilità del falso innocuo.

Che la falsa indicazione riportata nel dispositivo sia stata del tutto inoffensiva, a differenza di quanto sostenuto dalla corte territoriale che vi ha ravvisato un vulnus al buon andamento dell'Amministrazione della giustizia, sotto il profilo della violazione degli obblighi previsti dai Trattati dell'Unione Europea, in materia di competenza e leale collaborazione e cooperazione, lo si evince dalle seguenti circostanze: 1) nessun effetto diverso da quello che si è verificato in relazione all'interesse del comune di Milano a non subire una decisione che lo costringesse a recuperare le somme da "SEA Handling" (come evidenziato dal giudice di primo grado), si sarebbe prodotto se nel dispositivo si fosse operato il riferimento ai soli provvedimenti interni, in considerazione del già evidenziato contenuto della motivazione dell'ordinanza adottata; 2) nel comunicato stampa della Commissione Europea del 23 luglio 2014, acquisito in atti, ed in particolare nello schema in esso contenuto, denominato "Riepilogo delle tappe principali", non si effettua alcun riferimento al procedimento tenutosi innanzi al T.A.R. e, tanto più quindi, al contenuto del dispositivo dell'ordinanza cautelare, senza tacere che, con riferimento al fatto di cui si discute, mai nessuna procedura di infrazione fu avviata nei confronti dell'Italia.

Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente denuncia l'inadeguatezza della motivazione anche con riferimento alla ritenuta sussistenza del dolo del delitto di cui all'art. 479 c.p..

Una volta chiarito che il presidente L. era consapevole dei limiti della giurisdizione del T.A.R.; che il provvedimento della C.E. non aveva formato oggetto di ricorso da parte del comune di Milano;

che nessun effetto diverso si sarebbe prodotto se nel dispositivo fosse stato omesso il riferimento alla sospensione del provvedimento della C.E. e che l'imputato, in definitiva, non aveva alcuna intenzione di disporre tale sospensione, ritenendo che l'ordinanza non sospendesse il provvedimento in questione (come si evince dal contenuto delle stesse deposizioni testimoniali), l'elemento soggettivo del reato di cui si discute, nella sua duplice dimensione rappresentativa e volitiva, appare indimostrato.

Al riguardo risulta meramente apodittica e manifestamente illogica la motivazione della sentenza oggetto di ricorso, laddove, sul punto, valorizza in senso contrario il fatto che L. avesse ben vivo nella memoria il ricordo della discussione camerale e si fosse rifiutato di accedere al prospettato procedimento di correzione di errore materiale del dispositivo, nonchè la circostanza che egli abbia assegnato alla efficacia della sospensione il limite temporale rappresentato dal momento in cui sarebbe intervenuta la decisione del tribunale Europeo. Con il quinto motivo di impugnazione il

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ricorrente lamenta vizio di motivazione, con riferimento alla valutazione operata dalla corte territoriale in ordine al movente della condotta dell'imputato, individuato nell'indole autoritaria ed arrogante, che lo aveva spinto a perseverare nella sua irremovibile decisione di censurare il provvedimento della C.E. Con tale motivazione, contraddittoria e manifestamente illogica, la corte territoriale afferma in definitiva che l'asserita condotta illecita sarebbe stata tenuta senza una ragione, stante l'insussistenza di interessi privati dell'imputato e la più volte richiamata inutilità del riferimento alla sospensione del provvedimento della C.E., derivante dalla circostanza che l'ordinanza del giudice amministrativo avrebbe prodotto gli effetti che ha prodotto sotto il profilo dell'accoglimento della domanda cautelare del comune di Milano, anche se nel dispositivo non fosse stato inserito il suddetto riferimento.

Con il sesto motivo di impugnazione, il ricorrente deduce vizio di motivazione in punto di determinazione dell'entità del trattamento sanzionatorio, discostatasi sensibilmente dal minimo edittale, senza che la corte territoriale abbia fornito adeguata risposta ai rilievi difensivi in tema di intensità del dolo ed all'assenza di prova del danno.

Con il settimo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, tema che aveva formato oggetto di uno specifico motivo di appello, con cui la difesa aveva evidenziato come l'imputato si fosse prodigato a fornire elementi utili al decidere, non sottraendosi nemmeno all'esame.

Con l'ottavo motivo di impugnazione il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alla mancata concessione del beneficio di cui all'art. 175 c.p., tema che aveva formato oggetto di uno specifico motivo di appello, cui non è stata fornita adeguata risposta.

Infine in data 2.9.2020, perveniva in Cancelleria, a mezzo di posta certificata del difensore del ricorrente, avv. Giarda, parere pro veritate a firma L.P.G., presidente di sezione del Consiglio di Stato, in favore dell'imputato.

3. Il ricorso è fondato e va accolto per le seguenti ragioni.

4. Difetta, invero, nel caso in esame, l'elemento oggettivo del delitto in contestazione.

Per un miglior inquadramento della questione giuridica affrontata e risolta dal Collegio nel senso dell'accoglimento delle doglianze difensive sul punto, in esse assorbita ogni ulteriore censura, occorre partire dalla considerazione della particolare natura dell'atto di cui si discute, che appartiene, come è facile intuire, alla categoria degli atti pubblici a contenuto dispositivo, perchè è con riferimento alla natura dell'atto che occorre saggiare la riconducibilità della condotta dell'imputato al paradigma normativo ex art. 479 c.p..

Dopo un primo iniziale orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il delitto di falsità ideologica poteva configurarsi solo con riferimento agli atti a contenuto normativo, con esclusione, dunque, di quelli dispositivi (cfr., ad esempio, Cass., sez. 5, 18.6.1999, Lecci), l'evoluzione giurisprudenziale è giunta ad un consolidato approdo interpretativo, che considera configurabile, a determinate condizioni, la falsità ideologica anche in relazione agli atti dispositivi.

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Si è, così, affermato che "anche l'atto dispositivo, inteso come quello che rappresenta una dichiarazione di volontà (e non di verità) del suo autore, può essere suscettibile di falso ideologico, se ha come necessario elemento, in vista del quale la dichiarazione di volontà viene presa, l'attestata esistenza di una di una data situazione di fatto con l'obbligo per il pubblico ufficiale di indicarla nell'atto stesso, e se, in concreto l'attestazione di essa sia non conforme a verità" (cfr. Cass., Sez. 6, n. 13132 del 22/02/2001, Rv. 218834).

Come chiarito dalla Suprema Corte nella sua espressione più autorevole, anche nell'atto dispositivo - che consiste in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto - è configurabile la falsità ideologica in relazione alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poichè, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente preordinata) ai fini della sussistenza della falsità ideologica (cfr.

Cass., Sez. U., n. 1827 del 03/02/1995, Rv. 200117).

In questo solco interpretativo si inseriscono quelle decisioni che, approfondendo la natura degli atti dispositivi (o negoziali), ne propongono una ulteriore e più analitica suddivisione in due tipi, rispetto ai quali diverso appare l'atteggiarsi della falsità.

Si è, pertanto, evidenziato come il reato di falsità ideologica in atti pubblici sia configurabile anche con riguardo ad atti dispositivi o negoziali della pubblica amministrazione qualora questi, oltre a contenere una manifestazione di volontà, si riferiscono ad una precisa situazione, della cui esistenza fanno indirettamente fede. Tale situazione è necessariamente presupposta quando il provvedimento non può essere emanato senza la sua ricorrenza: l'atto stesso allora di per sè ingenera un affidamento su quest'ultima. Quando invece l'adozione del provvedimento risulta rimessa dalla legge ad apprezzamento così discrezionale per cui non sono state determinate preventivamente le situazioni che possono causarlo, occorre che testualmente l'atto enunci il presupposto della sua emanazione onde fare pubblicamente fede dell'esistenza di tale presupposto (cfr. Cass., Sez. 6, n.

12305 del 23/10/2000, Rv. 217898).

Sicchè può ritenersi ormai assunto in subiecta materia al rango di "diritto vivente" il principio secondo cui il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche implicite, contenute nell'atto e i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell'atto medesimo, che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità (cfr. Cass., Sez. U., n. 35488 del 28/06/2007, Rv. 236867).

Tale essendo l'approdo interpretativo cui è pervenuta la Suprema Corte, nessuna perplessità sussiste, sotto il profilo della ricostruzione della portata definitoria ed applicativa della fattispecie

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codicistica, nell'ipotizzare il delitto di falsità ideologica con riferimento ad un provvedimento giurisdizionale, consistente nella manifestazione di volontà di un organo titolare del potere di dicere ius dello Stato.

Non può non condividersi, pertanto, il puntuale ragionamento articolato in uno dei non frequenti arresti della giurisprudenza di legittimità dedicati a questo particolare caso di falsità ideologica in atto pubblico, nel replicare alla tesi prospettata dalla difesa del ricorrente, indagato in relazione al delitto di cui all'art. 479 c.p. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, sulla impossibilità di configurare il reato di falso ideologico in motivazione giurisdizionale.

Secondo la prospettiva proposta in tale arresto "è indiscusso in giurisprudenza che ricorre il reato di falsità ideologica in atto pubblico nell'ipotesi di atto a contenuto dispositivo nel quale la parte descrittiva nel riferire una certa realtà, quale necessario presupposto delle relative determinazioni, afferma l'esistenza di una situazione di fatto contraria al vero (v. ex plurimis: Sez. 5, 5 maggio 2003, Pavale, rv 224945). L'atto dispositivo non è destinato a provare la verità e la sussistenza dei suoi presupposti fattuali, ma, quando venga adottato in mancanza dei presupposti in esso indicati, è sempre da considerare ideologicamente falso.

Il provvedimento giurisdizionale (decreto, ordinanza, sentenza) è atto pubblico, in quanto formato dal giudice nell'esercizio delle sue funzioni, e quindi da pubblico ufficiale, ed ha contenuto sicuramente dispositivo, sicchè è certamente estensibile ad esso il principio di diritto testè richiamato: in effetti, allorchè la falsità di una conclusione dispositiva dipende non dall'invalidità degli argomenti ma dalla falsità delle premesse fattuali da cui si dipana, nulla osta alla configurazione del reato in parola.

Del resto è pacificamente ammessa la imputazione di falsità ideologica commessa per induzione dal giudice nella compilazione della sentenza, ai sensi degli artt. 48 e 479 c.p. (v. Cass. Sez. 1, 7 febbraio 2003, pm c/Chianese, rv 223567; idem, 26 novembre 2002, pm c/Catalano), e ciò è spiegabile soltanto se si presuma la piena ipotizzabilità di una falsità ideologica in sentenza commessa "motu proprio" dal Giudice." (cfr. Cass., Sez. 5, n. 20550 del 27/03/2007, Rv. 236598;

nel senso di ritenere sussistente il delitto di falsità ideologica in provvedimenti adottati dal giudice sulla base di presupposti falsamente rappresentati da una delle parti processuali, cfr., altresì, Cass., Sez. F, n. 39192 del 29/08/2013, Rv. 257018; Cass., Sez. 5, n. 48389 del 24/09/2014, Rv. 261969).

4.1. Ciò posto, occorre concentrarsi sulla particolare natura dell'atto della cui falsità si discute in questa sede, allo scopo di verificare, come si è già detto, se ed in quali termini possa considerarsi ideologicamente falso, in rapporto alla contestazione formulata nel capo d'imputazione, in cui, giova ricordarlo, si addebita al L. di avere attestato falsamente nel dispositivo della ordinanza n.

533/2013, da lui redatta, il contenuto della decisione collegiale su cui si era formata la maggioranza all'esito della discussione in camera di consiglio, che, come emerso pacificamente dalla svolta istruttoria dibattimentale, non prevedeva la sospensione della menzionata decisione della Commissione Europea 19/12/2012 SA 21420 (C 14/2010), ma solo la sospensione degli atti interni di esecuzione della citata decisione Europea, come conseguenza diretta dell'accoglimento della

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15 domanda cautelare formulata dal Comune di Milano.

Che tale ordinanza sia atto pubblico avente natura di atto dispositivo formato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, è incontestato ed incontestabile.

L'ordinanza di sospensione degli effetti giuridici del provvedimento amministrativo impugnato in sede cautelare innanzi al giudice amministrativo, rappresenta, invero, uno degli strumenti attraverso i quali si realizza, nel processo amministrativo, la cd. tutela cautelare atipica, fondata sulla previsione dell'art. 55, comma 1, del Codice del processo amministrativo (All. 1 al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104), dedicato alle misure cautelari collegiali, inserito nel Titolo II ("Il procedimento cautelare") del Libro II ("Processo amministrativo di primo grado").

In base a tale disposizione "Se il ricorrente, allegando di subire un pregiudizio grave ed irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso, chiede l'emanazione di misure cautelari..., che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, il collegio si pronuncia con ordinanza emessa in camera di consiglio".

L'ordinanza con cui il giudice amministrativo incide, sospendendoli, tanto sugli effetti giuridici, quanto sulla esecuzione materiale del provvedimento amministrativo impugnato, rappresenta, pertanto, attualmente, solo uno dei possibili epiloghi decisori di un procedimento cautelare, che mantiene ferma la sua natura giurisdizionale, ribadita da dottrina e giurisprudenza, sul presupposto che l'ordinanza cautelare ha natura decisoria, in quanto volta a dirimere una lite (la cd. lite cautelare), vertente su presupposti (fumus boni iuris e periculum in mora), distinti da quelli della sentenza di merito (fondatezza del ricorso) (cfr. Cons. Stato, AP n. 1 del 20/01/1978).

In questo senso, del resto, ha disposto il Legislatore, prevedendo che le ordinanze cautelari possano essere impugnate con ricorso in appello, ex art. 62 del codice del processo amministrativo.

Approfondendo lo sguardo, appare evidente che l'essenza dell'ordinanza cautelare di sospensione è rappresentata dalla motivazione, unico profilo, per così dire, "strutturale", del provvedimento a formare oggetto di specifica disciplina legislativa.

L'art. 55, comma 9, del codice del processo amministrativo, infatti, stabilisce che "L'ordinanza cautelare motiva in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato e indica i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull'esito del ricorso", norma che estende al procedimento cautelare il generale principio fissato dall'art. 3, comma 1, del codice del processo amministrativo, secondo cui "Ogni provvedimento decisorio del giudice è motivato", a sua volta applicazione nel processo amministrativo del principio costituzionale sancito dall'art. 111 Cost., comma 6, che impone l'obbligo di motivazione per tutti provvedimenti giurisdizionali.

Può, pertanto, affermarsi che la motivazione rappresenta il requisito, al tempo stesso di forma e di sostanza, grazie al quale l'ordinanza adottata in sede cautelare dal giudice amministrativo ottiene pieno riconoscimento della sua esistenza da parte dell'ordinamento giuridico, perchè conforme al modello legale assunto dal codice del processo amministrativo.

Motivazione da intendere, alla luce di quanto si è detto in precedenza, non come svolgimento di

"una traccia a tema libero", ma come percorso argomentativo delimitato dal thema decidendum,

(16)

16 introdotto dalla domanda cautelare.

In relazione a quest'ultima il giudice adito, quale che sia la sua decisione finale (di accoglimento o di rigetto), dovrà pronunciarsi sul pregiudizio allegato (motivazione sul periculum in mora) e sulle ragioni che inducono il collegio a ritenere ragionevolmente probabile il buon esito del ricorso o il suo cattivo esito (motivazione sul fumus boni iuris).

Il dispositivo, invece, o, per meglio dire, la parte dispositiva dell'ordinanza, contiene il dictum che concretizza la volontà dell'organo pubblico collegiale in relazione alla specifica domanda cautelare formulata.

In tal modo la manifestazione di volontà del giudice amministrativo si applica al caso concreto portato al suo esame dall'istanza cautelare, atteggiandosi in termini di accoglimento o di rigetto della stessa, alla luce della motivazione sui due profili specifici del fumus boni iuris e del periculum in mora, fissati dal disposto del citato art. 55, comma 9, del codice del processo amministrativo.

4.2. Orbene, se è vero, come è vero, che l'ordinanza cautelare con cui viene dichiarata dal giudice amministrativo la sospensione degli effetti giuridici del provvedimento amministrativo impugnato è un atto pubblico a contenuto dispositivo, attraverso il quale si manifesta la volontà (di natura decisoria) di un organo pubblico collegiale (il tribunale amministrativo regionale, formato da tre componenti togati), nulla osta, dal punto di vista teorico, a configurare come possibile, in relazione a tale atto pubblico, una condotta che integri gli estremi del delitto di falsità ideologica, previsto dall'art. 479 c.p..

A condizione, tuttavia, conformemente alla elaborazione della giurisprudenza della Suprema Corte innanzi richiamata, che la falsità della conclusione dispositiva in cui si sostanzia l'ordinanza de quo dipenda dalla falsità delle premesse fattuali da cui si dipana, circostanza che si verifica certamente quando l'atto viene adottato in mancanza dei presupposti in esso indicati.

Vale a dire quando l'atto dispositivo, oltre a contenere una manifestazione di volontà, presuppone una precisa situazione, della cui esistenza fa indirettamente fede, in quanto non potrebbe essere emanato senza la sua ricorrenza.

In questo caso, come si è visto, l'atto stesso ingenera di per sè un affidamento sulla situazione che ne rappresenta il necessario antecedente.

Orbene non è revocabile in dubbio che, sempre sul piano teorico, costituisce antecedente logico- giuridico, senza il quale l'ordinanza cautelare prevista dall'art. 55 del codice del processo amministrativo non potrebbe essere emanata, la decisione assunta dai tre componenti dell'organo collegiale titolare del potere decisorio della "lite cautelare", all'esito della discussione svoltasi all'interno della camera di consiglio.

Tale decisione (assunta all'unanimità o a maggioranza dei componenti dell'organo giudicante poco rileva per quel che interessa) è destinata a trasfondersi nel contenuto della motivazione dell'ordinanza e della successiva parte dispositiva, che rappresenta il logico precipitato del percorso motivazionale, solo in tal modo assumendo rilevanza nei confronti dei terzi estranei al processo decisionale della camera di consiglio, in quanto fa sorgere in essi il ragionevole affidamento

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17

(oggetto della tutela apprestata dall'art. 479 c.p.), che il contenuto della decisione, esposto nella motivazione e nel conseguente "dispositivo", corrisponda al risultato cui è pervenuto l'organo collegiale nel segreto della camera di consiglio.

Logico corollario di tale prospettiva interpretativa è che il delitto di falsità ideologica in atto pubblico, di cui all'art. 479 c.p., è configurabile, con riferimento all'ordinanza "sospensiva" adottata in sede cautelare dal giudice amministrativo, quando la motivazione riguardante i profili del fumus boni iuris e del periculum in mora, dalla cui redazione dipende l'esistenza giuridica dell'atto pubblico, ed il dispositivo, che, come si è detto, ne rappresenta la necessaria conseguenza sul piano logico-giuridico, siano tali da non corrispondere, per effetto di un'azione dolosa, all'effettivo contenuto della decisione assunta dall'organo collegiale in camera di consiglio.

In applicazione di tali principi non ritiene il collegio che nel caso in esame sia configurabile il delitto ex art. 479 c.p., difettando l'elemento tipizzante della fattispecie penale: la formazione di un'ordinanza cautelare la cui falsità discenda da una motivazione e da un dispositivo non veritieri, perchè non riproducenti l'effettivo contenuto della decisione emersa dalla discussione svoltasi nella camera di consiglio.

Ed invero, come si evince dalla lettura dell'ordinanza cautelare di cui si discute, allegata in forma integrale al ricorso dell'imputato, il percorso argomentativo trasfuso nell'atto, attraverso la redazione della motivazione, si sofferma esclusivamente sui profili, normativamente imposti, del fumus boni iuris (p. 3) e del periculum in mora (p. 4).

Rimane, invece, del tutto estraneo alla motivazione il tema della sospensione dell'efficacia del citato provvedimento della Commissione Europea, trattandosi di una questione irriducibilmente estranea al procedimento cautelare innanzi al giudice amministrativo, pacificamente sfornito di giurisdizione in ordine ai ricorsi volti a far valere l'annullamento di atti delle istituzioni, degli organi o degli organismi dell'Unione Europea, che l'art. 256 del T.F.U.E. attribuisce in primo grado al Tribunale dell'Unione Europea.

Ciò si evince inequivocabilmente non solo dall'assenza di passaggi motivazionali al riguardo, ma anche da quei punti della motivazione in cui il materiale estensore della stessa, conformemente al contenuto della decisione adottata, da un lato, affermava correttamente l'esistenza della

"giurisdizione e competenza" del giudice amministrativo adito sulla domanda cautelare del comune di Milano, dall'altro, evidenziava, altrettanto correttamente, che "un giudizio sulla validità della gravata decisione 19/12/2012 SA 21420 (C 14/2010) della Commissione Europea risulta, dagli atti di causa, già pendente davanti al Tribunale dell'Unione Europea" (cfr. pp. 3-4).

Vero è che nel dispositivo dell'ordinanza cautelare di cui si discute, graficamente introdotto dall'acronimo "P.Q.M.", effettivamente si dispone, in accoglimento della "formulata domanda cautelare" e come conseguenza ("per l'effetto") di tale accoglimento, la sospensione della "gravata decisione 19/12/2012 SA 21420 (C 14/2010) della Commissione Europea", oltre che del "gravato relativo procedimento nazionale di recupero di somme a carico del Comune di Milano; ciò fino alla decisione del merito della causa al riguardo pendente davanti al Tribunale dell'Unione Europea"

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18 (cfr. p. 5).

Tale aggiunta, tuttavia, qualunque sia la causa ultima della sua comparsa nella redazione dell'atto, non integra l'elemento oggettivo del delitto in contestazione, essendo del tutto inidonea a vulnerare la fede pubblica, vale a dire l'affidamento dei terzi in ordine alla corrispondenza tra il contenuto dell'ordinanza e la decisione sulla "lite cautelare" assunta dall'organo collegiale.

Ciò per la fondamentale ragione che, dovendo il provvedimento cautelare di cui si discute rapportarsi alla prospettazione della domanda cautelare del comune di Milano, limitata, come affermato dalla stessa corte di appello "ai soli provvedimenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri" (cfr. p. 7 della sentenza oggetto di ricorso), nessuna falsa rappresentazione della realtà risulta configurabile, in quanto l'ordinanza conclude esattamente per l'accoglimento, consacrato nel dispositivo, della suddetta istanza cautelare volta alla sospensione degli atti del procedimento amministrativo interno, sulla base della duplice valutazione positiva del fumus boni iuris e del periculum in mora svolta in motivazione, in assoluta coerenza, dunque, con la decisione assunta in camera di consiglio, che delimitava a tali atti l'effetto della tutela cautelare accordata.

La necessità di procedere ad una lettura non frazionata, ma unitaria ed inscindibile della parte motivazionale e della parte dispositiva dell'ordinanza cautelare, in modo che il significato della seconda sia chiarito dalla motivazione del provvedimento giurisdizionale, di cui, come si è detto, rappresenta il necessario "precipitato", in relazione al contenuto specifico della domanda cautelare proposta, appare l'unica strada percorribile, difettando nel codice del processo amministrativo disposizioni, come quelle di cui all'art. 546, comma 1, lett. t), e comma 3; art. 426, comma 1, lett. e) e comma 3; art. 460 c.p.p., comma 1, lett. d), art. 429 c.p.p., comma 1 lett. e), che attribuiscono autonoma rilevanza al dispositivo, nella sua dimensione di elemento concorrente con altri alla formazione di singoli atti del processo penale.

In questa prospettiva, dunque, il riferimento alla sospensione del citato provvedimento della Commissione Europea si pone del tutto al di fuori della struttura e della finalità dell'ordinanza cautelare di cui si discute, rappresentando un elemento spurio, privo di qualsiasi logica processuale, dotato, nell'economia dell'atto, di una irrilevanza talmente radicale da renderlo non tanto un falso innocuo, quanto, piuttosto, tamquam non esset, in quanto tale inidoneo a ledere la fede pubblica.

5. Sulla base delle svolte considerazioni la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020

(19)

19 TRACCIA N. 2

Tizio e Caia, avendo bisogno di denaro per organizzare le proprie vacanze al mare, decidevano di inscenare un incidente con la macchina del vicino Mevio, solitamente parcheggiata di fronte alla loro abitazione.

A tal proposito, danneggiavano la parte anteriore della macchina di Mevio e la parte posteriore della propria auto, simulando un tamponamento.

Tizio comunicava alla propria assicurazione (Alfa s.p.a.) il tamponamento avvenuto per colpa esclusiva di Mevio e, fingendosi quest’ultimo, confermava all’altra assicurazione (Beta) gli accadimenti rappresentati alla prima.

Tizio riceveva così l’indennizzo richiesto.

Mevio, dal suo canto, trattandosi di un danno non rilevante, decideva di riparare in autonomia l’automobile, senza sporgere alcuna denuncia.

Dopo trenta giorni, però, l’assicurazione Beta comunicava a Mevio l’aumento del premio annuale dovuto all’incidente con Tizio.

Ricostruita tutta la vicenda, Mevio presentava querela nei confronti di Tizio e Caia per l’accaduto.

Le Assicurazioni, invece, decidevano di non sporgere querela.

Al termine del processo penale, Tizio e Caia venivano condannati per il reato di cui all’art. 642 c.p., comma 2.

Tizio e Caia si rivolgono, dunque, al vostro studio legale per valutare la possibilità di impugnare vittoriosamente la sentenza di primo grado.

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20

SOLUZIONE TRACCIA 2: REATO DI FRODE IN ASSICURAZIONE E NATURA PLURIOFFENSIVA.

Cassazione penale sez. II, 31/03/2021, (dep. 27/05/2021), n.20988

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza predibattimentale emessa all'udienza del 14/10/2020, il Tribunale di Firenze ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di N.S. e P.D. in ordine al reato di cui all'art. 642 c.p., comma 2, e art. 48 c.p., loro ascritto in concorso al capo 3) della rubrica, per mancanza di querela (mentre il procedimento a carico degli imputati, per gli ulteriori reati di tentata estorsione e sostituzione di persona, di cui ai capi 1) e 2), é stato separato e rinviato ad altra udienza di trattazione).

2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, deducendo:

2.1. Violazione dell'art. 129 c.p.p., in quanto il Tribunale, nell'emettere sentenza di proscioglimento per mancanza della condizione di procedibilità, ha considerato irrilevante la querela sporta da C.L., la quale, secondo il Giudice di Firenze, sarebbe persona offesa - e quindi legittimata a proporre querela - solo con riferimento agli altri due reati di cui ai capi sub a) e b) del capo di imputazione.

2.2. Erronea applicazione dell'art. 642 c.p.; si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto legittimate a proporre querela le sole compagnie assicuratrici (sia quella che aveva gestito il sinistro, sia quella debitrice), senza rilevare la natura plurioffensiva del reato di cui all'art. 642 c.p.

Di conseguenza, il Tribunale di Firenze ha erroneamente ritenuto che la C., ovvero l'assicurato controparte cui era stata attribuita la responsabilità per l'incidente, non fosse legittimata a proporre querela. Tale soggetto, in realtà, doveva essere ritenuto persona offesa, nel momento in cui si era trovato a subire le conseguenze giuridiche ed economiche di tale falsa attribuzione. La mancanza di precedenti sul punto, ad avviso del ricorrente, é dovuta al fatto che di solito le frodi assicurative vedono le apparenti controparti operare di comune accordo; si osserva ancora che, diversamente opinando, si legittimerebbe alla proposizione della querela il solo soggetto che subisce un danno economico (la compagnia assicuratrice), e non anche chi subisce anche un danno giuridico e morale correlato alla falsa attribuzione della responsabilità per il sinistro.

3. Con requisitoria del 18/02/2021, il Procuratore Generale ha sollecitato il rigetto del ricorso, osservando che la titolarità dell'interesse giuridicamente protetto dalla norma incriminatrice andava attribuito alle compagnie assicuratrici, che non avevano sporto querela.

4. Con memoria del 04/03/2021, il difensore della N. ha concluso in senso conforme al P.G., osservando che oggetto di tutela del reato di cui all'art. 642 c.p., é il patrimonio degli enti assicurativi, così come confermato dalla sua natura di reato proprio, il cui soggetto attivo é l'assicurato. A sostegno dell'assunto, il difensore ha richiamato un precedente giurisprudenziale che

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21

aveva escluso la legittimazione del soggetto diverso dalla compagnia assicuratrice, al quale doveva attribuirsi la qualifica di danneggiato, e non di persona offesa.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Entrambi i motivi di ricorso appaiono manifestamente infondati in ragione degli argomenti di seguito esposti.

1.1. Preliminarmente occorre distinguere tra individuo civilmente danneggiato e persona offesa (soggetto passivo), che rappresenta l'unico soggetto legittimato a proporre querela ex art. 120 c.p..

E' pacifica, infatti, la differenza che separa la nozione di questi due soggetti: il soggetto passivo si collega all'oggetto giuridico del reato, da intendersi come interesse protetto dalla norma penale e leso dalla condotta criminosa; di contro, il soggetto civilmente danneggiato é colui al quale la fattispecie delittuosa ha cagionato un danno (patrimoniale e/o non patrimoniale) e al quale spetta il relativo risarcimento.

Le suddette posizioni giuridiche, nonostante siano spesso riferibili al medesimo soggetto, non devono essere sovrapposte né confuse, in quanto rispettivamente legittimano la proposizione della querela e l'esercizio dell'azione civile in sede penale, con la precisazione, ribadita più volte anche da questa Suprema Corte, che il diritto di querela spetta soltanto al titolare dell'interesse penalmente protetto (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 55945 del 20/07/2018, Barbato, Rv. 274255 - 01).

1.2. Con riguardo precipuo al caso di specie, é d'uopo puntualizzare che il reato di cui all'art. 642 c.p., non presenta una natura plurioffensiva, essendo al contrario esclusivamente volto a tutelare il patrimonio delle imprese assicuratrici da quei comportamenti contrari alla buona fede contrattuale.

In ragione di quanto detto, gli unici soggetti titolari del diritto di proporre una valida querela sono la compagnia assicuratrice che gestisce il sinistro e quella debitrice, così come confermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia.

In termini generali, la Suprema Corte di Cassazione sostiene, infatti, che "la persona offesa dal reato titolare del diritto di querela a norma dell'art. 120 c.p., deve essere individuata nel soggetto titolare dell'interesse direttamente protetto dalla norma penale e la cui lesione o esposizione a pericolo costituisce l'essenza dell'illecito. Ne consegue che é legittimato a proporre querela l'effettivo acquirente di un bene sebbene risulti un diverso intestatario. (Sez. 2, n. 55945 del 20/07/2018, Barbato, Rv. 274255).

Nello specifico poi questa Sezione ha recentemente affermato che, in tema di delitto di denuncia di sinistro non accaduto punito dall'art. 642 c.p., comma 2, "il diritto di querela spetta sia alla Compagnia assicuratrice che gestisce il sinistro, sia a quella debitrice, perché entrambe, in quanto parti direttamente coinvolte, seppur con ruoli diversi, nella richiesta di risarcimento del danno, hanno interesse alla corretta gestione del sinistro e a non vedere depauperato il proprio patrimonio da false denunce." (Sez. 2, n. 24075 del 27/04/2017, Mannarino, Rv. 270268).

Pertanto, considerato il bene giuridico tutelato dal reato di cui all'art. 642 c.p., e l'assunto di fondo per cui unico soggetto legittimato a proporre querela é il titolare dell'interesse protetto, appare

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22

chiaro che soltanto l'Ente assicuratore (gestore o liquidatore) avrebbe potuto proporre querela. In assenza di tale valida condizione di procedibilità, il Tribunale di Firenze ha correttamente pronunciato sentenza di non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo c) dell'imputazione.

1.2. Va quindi disattesa la prospettazione del ricorrente, che ha ritenuto la C. legittimata a proporre querela, in quanto soggetto che ha subito effetti pregiudizievoli in ragione della commissione del reato in questione.

Anche laddove la condotta contestata al capo c) abbia cagionato un danno di carattere patrimoniale alla C., sarebbe possibile per la stessa, in qualità di soggetto danneggiato dal reato, la sola richiesta di risarcimento.

Di contro, però, é pacifico che il danneggiato dal reato non é legittimato a proporre querela, la quale spetta invece unicamente alla persona offesa dal reato e cioé al soggetto titolare del bene giuridico tutelato dall'ordinamento con la previsione di una determinata fattispecie (così, ex multis, Sez. 2, n.

23794 del 05/02/2016, Sall).

2. Le considerazioni fin qui svolte impongono una declaratoria di inammissibilità del ricorso.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 31 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021

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23 TRACCIA N. 3

In occasione della riforma scolastica approvata dal Governo Italiano, gli studenti dell’Istituto scolastico Alfa organizzavano nei corridoi dell’istituto un periodo di occupazione della scuola.

Quando il professore Mevio si avvicinava ad un gruppo di studenti per convincerli a desistere dal loro intento, notava la presenza del professore Caio che, al contrario, fomentava la protesta studentesca. Tra i due professori scoppiava un alterco molto accesso cbe si placava solo dopo l’intervento del preside dell’istituto.

Tornato a casa, il professore Mevio pubblicava sulla propria bacheca di facebook un post rivolto al prof. Caio nel quale lo definiva come un personaggio spregevole e come un manipolatore delle coscienze degli alunni.

Caio si rivolge al vostro studio legale per conoscere la rilevanza penale del comportamento del collega, valutare l’opportunità di sporgere querela nei suoi confronti e richiedere un risarcimento dei danni subiti a causa della suddetta condotta.

Il candidato rediga parere legale sulla vicenda.

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SOLUZIONE TRACCIA 3: DIFFAMAZIONE TRAMITE FACEBOOK Cassazione penale sez. V, 25/01/2021, (dep. 14/04/2021), n.13979

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza ora in esame la Corte d'Appello di Potenza, su impugnazione della parte civile, ha riformato la pronunzia in primo grado nei confronti dell'imputata di assoluzione dal delitto di diffamazione a mezzo facebook ai danni di un collega professore, per esercizio del diritto di critica, condannandola al risarcimento del danno morale, liquidato equitativamente in Euro 800 oltre che alla rifusione delle spese sostenute nei due gradi di giudizio.

2. Ha presentato ricorso tramite difensore di fiducia l'imputata, che con due motivi, argomentati unitariamente, ha dedotto la violazione dell'art. 51 c.p. e la mancanza di motivazione in relazione alla riforma della pronunzia di condanna. Dopo aver ripercorso le articolate proposizioni in fatto e diritto con le quali il Tribunale era giunto all'esito liberatorio per la giudicabile, la difesa ha lamentato che la sentenza di secondo grado non aveva in alcun modo esposto le ragioni ritenute adeguate a disarticolare la decisione del Tribunale, essendosi limitata ad affermare che la qualificazione della persona offesa come essere spregevole, associata all'accusa di essere autore di manipolazioni psicologiche non era proporzionata e pertinente al tema della critica ai metodi di insegnamento di un collega. La motivazione, quindi, eluderebbe i principi elaborati da questa Corte - brevemente richiamati -in caso di pronunzia di secondo grado che sovverta l'esito assolutorio raggiunto nel primo giudizio.

2.1 La Corte lucana non avrebbe preso in considerazione, come avrebbe dovuto, le richieste subordinate fatte dalla difesa in primo grado, ovviamente non riproposte in appello per l'accoglimento della domanda principale, con riferimento alla circostanza aggravante di cui all'art.

595 c.p., comma 3, in relazione al social facebook, all'operatività della causa di giustificazione ex art. 51 c.p., in tema di conflitti personali dettati da contrapposizioni ideologiche, ai criteri di determinazione del danno. Per altro verso é stato posto in luce che le censure presentate nei motivi di appello dalla parte civile sarebbero aspecifiche, al punto di meritare una sanzione di inammissibilità ex art. 581 c.p.p., secondo il testo introdotto con L. n. 103 del 2017.

3. Quanto al riconoscimento ed alla liquidazione del danno morale in favore della parte civile, non si era considerato che l'imputata, avuta notizia della reazione del collega, aveva immediatamente oscurato la propria pagina facebook ed aveva porto le sue scuse. Sul punto l'appellante non avrebbe assolto agli oneri deduttivi e probatori impostigli ex art. 2627 c.c., anche in riferimento al danno morale mentre la quantificazione del danno sarebbe completamente disancorata da ogni elemento di giustificazione sul piano assertivo - probatorio.

Con requisitoria scritta a norma del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 12-ter, convertito, con modificazioni, con la L. 24 aprile 2020, n. 27, il Sostituto Procuratore generale della

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Repubblica presso questa Corte di cassazione, ha concluso per l'annullamento della sentenza.

La difesa di parte civile ha depositato memoria scritta con la quale ha esplicitato le ragioni per il rigetto del ricorso ed ha replicato alle conclusioni del PG presso questa Corte, depositando nota spese.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso é infondato.

1. Le doglianze racchiuse nell'unico articolato motivo di ricorso pongono, in primis, una questione di metodo, sostenendo che il Giudice di appello, nel riformare la sentenza in senso sfavorevole all'imputata, avrebbe dovuto fornire una motivazione definita rafforzata o comunque un complesso argomentativo dotato di maggior forza persuasiva rispetto alle giustificazioni adoperate dal primo Giudice, citando in proposito nota giurisprudenza di questa Corte.

Il principio - ovviamente in sé corretto - non si attaglia alla fattispecie in esame, nella quale si discute del delitto di diffamazione tramite mezzo di pubblicità, questione che la Corte d'Appello ha risolto in senso opposto a quanto deciso dal Tribunale, esclusivamente attraverso una differente valutazione giuridica delle frasi in primo grado giudicate espressione del diritto di critica e, quindi, scriminate ex art. 51 c.p..

1.1 In tali ipotesi, secondo recenti pronunzie emesse da questa Corte - alle quali il Collegio intende dare seguito - il Giudice di appello non ha la necessità di offrire una motivazione dotata di una maggiore forza persuasiva, in quanto oggetto del giudizio é una questione squisitamente ed esclusivamente giuridica, non essendovi alcuna diversa valutazione del materiale probatorio riguardo alla quale il Giudice di secondo grado debba spiegare le ragioni del diverso apprezzamento, confrontandosi anche con i motivi posti dal primo Giudice a sostegno dell'opposta decisione, per la semplice ma dirimente ragione che il Giudice di appello ritiene errata la soluzione in diritto adottata in primo grado. In tal senso si é espressa Sez. 2, Sentenza n. 38277 del 07/06/2019 Ud. (dep. 17/09/2019) Rv. 276954 secondo la quale la necessità, per il giudice di appello, di redigere una motivazione "rafforzata" sussiste soltanto nel caso in cui la riforma della decisione di primo grado si fondi su una mutata valutazione delle prove acquisite e non anche quando essa sia legittimata da una diversa valutazione in diritto, operata sul presupposto dell'erroneità di quella formulata del primo giudice. In tale ipotesi, alla Corte di cassazione spetta il compito di verificare se la questione giuridica difformemente decisa dai giudici del merito sia stata correttamente esaminata e risolta dall'uno o dall'altro, ed il vizio a tal fine denunciabile é solo quello di violazione di legge, penale o processuale. In senso conforme Sez. 6, Sentenza n. 10584 del 30/01/2018 Ud. (dep. 08/03/2018) Rv. 273742 ha escluso in caso di riforma "in peius" della sentenza di condanna di primo grado, sulla base di una diversa qualificazione giuridica del fatto, fondata sulla identica valutazione delle risultanze probatorie anche dichiarative,la necessità di procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale e di redigere una motivazione rafforzata.

Conformi: N. 19036 del 2017 Rv. 269610, N. 6514 del 2018 Rv. 272224.

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2. In questo senso si dà esito alla doglianza mossa dal ricorrente ma per completare il discorso deve darsi conto del più che solido orientamento giurisprudenziale - che anche in questo caso il Collegio intende seguire - secondo il quale nella specifica materia della diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché é compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie. Così: Sez. 5, Sentenza n. 48698 del 19/09/2014 Ud. (dep. 24/11/2014) Rv. 261284, conforme: Sez. 5, Sentenza n. 41869 del 14/02/2013 Ud. (dep. 10/10/2013) Rv. 256706. Sez. V, n.

832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv 233749); Sez. 5, Sentenza n. 2473 del 10/10/2019 Ud. (dep.

22/01/2020) Rv. 278145.

Spetta, dunque, al Collegio verificare l'esattezza dell'una o dell'altra soluzione in gioco ed allo scopo é necessario riassumere il cuore delle argomentazioni impiegate dal Tribunale per giungere all'assoluzione dell'imputata.

2.1 Dopo aver ricostruito l'antefatto, costituito da un acceso litigio tra i due professori avvenuto all'interno dell'edificio scolastico, che - occorre rimarcare - la Corte di appello non pone in discussione nei termini effettivi del suo svolgersi, il Tribunale ha ritenuto che la frase pubblicata dalla giudicabile sulla sua pagina fecebook dovesse essere inserita in suddetta cornice fattuale; dopo la premessa ha osservato che: le espressioni presenti nel testo, pur avendo nella comune accezione linguistica una vis dispregiativa nei confronti del destinatario, non si risolvono stricto sensu in un attacco personale sul piano individuale, bensì in guisa di una manifestazione di una posizione di pensiero dissenziente dalle metodologie didattiche della parte civile, in un quadro generale di disistima del collega, ai limiti di una ammissibile facoltà di critica, non essendo censurata la persona in sé e per sé . Ha sostenuto il Tribunale che le incriminate espressioni erano state impiegate non tanto per apportare un vulnus alla considerazione dell'offeso ma quali strumento per argomentare, anche nell'immediatezza dell'antefatto... un giudizio sulla persona offesa, che, per quanto violento, o recte, aspro, rientra nel perimetro della critica.

2.2 L'opposto approdo cui é giunta la Corte di Appello ha valorizzato il limite della continenza nell'esercizio del diritto di critica, giudicato travalicato dall'uso della qualificazione di "essere spregevole" nei confronti del collega, che non é apparso proporzionato e pertinente rispetto al tema della critica ai metodi in insegnamento di un collega, anche perché associata all'accusa di

"manipolazioni psicologiche" nei confronti degli studenti, priva di riferimenti a circostanze determinate ed idonea a ledere la dignità professionale di un insegnante.

3. Il Collegio ritiene corretta la decisione della Corte di appello, in armonia con i consolidati principi elaborati da questa Corte sul limite della continenza nella forma espositiva che deve essere rispettato, costituendo uno dei presupposti per il riconoscimento dell'esercizio del diritto di critica.

L'elaborazione ermeneutica di questa Corte giunge costantemente ad affermare che in tema di diffamazione l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata

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