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Cassazione penale sez. III, 08/01/2020 (dep. 27/05/2020), n. 15926

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell'8 novembre 2018, la Corte di Appello di Bari, in parziale riforma della sentenza emessa all'esito di rito abbreviato il 22 marzo 2013 dal G.U.P. del Tribunale di Bari, nei confronti degli odierni ricorrenti e di altri imputati rimasti estranei al presente giudizio, confermata la condanna nei confronti di L.M., aveva ridotto la pena inflitta a B.V.

ad anni quattro e mesi otto di reclusione e a S.R.E. ad un anno di reclusione ed Euro 500 di multa, e aveva ridotto la pena inflitta anche a C.G., ricorrente avverso la sentenza, la cui posizione viene stralciata in data odierna atteso il legittimo impedimento a comparire del suo difensore. Agli imputati erano ascritti i seguenti reati:

B.V., capo A) delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, per avere partecipato ad un'associazione a delinquere al fine di commettere delitti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73; capo B) delitto di cui all'art. 81 cpv., art. 110 c.p. e art. 73, commi 1 e 1-bis, perchè con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso con altri, trasportava, vendeva, o comunque deteneva illecitamente sostanze stupefacenti di cui alla tab. I, dell'art. 14, prevista dal medesimo D.P.R., in particolare cocaina ed eroina; fatti commessi in (OMISSIS) e comuni limitrofi dal (OMISSIS).

S.R.E., capo F) delitto di cui all'art. 81 cpv. e art. 648 c.p., perchè, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, al fine di trarne profitto, riceveva settimanalmente la somma di Euro 150,00 proveniente dal reato di vendita di sostanze stupefacenti; in (OMISSIS).

L.M.M., capo H) delitto di cui all'art. 81 cpv c.p. e del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 1-bis, perchè, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, deteneva illecitamente e vendeva, in più occasioni, sostanze stupefacenti di cui alla tabella I dell'art. 14, per una quantità complessiva di gr. 520,5 di cocaina e gr. 538,5 di eroina. In (OMISSIS).

2. Avverso la sentenza, i difensori degli imputati hanno chiesto l'annullamento della decisione presentando distinti ricorsi, così sintetizzati ai fini della presente decisione:

2.1. B.V., tramite il proprio difensore di fiducia, Avv. Antonio Romano, ha dedotto violazioni ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74,

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comma 7 e/o all'art. 73, comma 7 stesso D.P.R., mancata motivazione, contraddittorietà e manifesta illogicità della stessa in riferimento al mancato riconoscimento della attenuante citata. La Corte di appello con motivazione apodittica l'ha esclusa, mentre ha argomentato sugli elementi costitutivi del sodalizio, nonostante su tale punto della sentenza vi fosse stata rinuncia allo specifico motivo di gravame. La condotta collaborativa era emersa sin dall'interrogatorio svoltosi innanzi al P.M. in data 24 novembre 2011, nel corso del quale il B., oltre ad ammettere le proprie responsabilità, fornì indicazione dell'ubicazione dell'abitazione del C., che riconosceva nell'album fotografico; il ricorrente ebbe a confermare quanto riferito anche nell'esame richiesto dal difensore del C. nel corso del giudizio abbreviato, oltre alle dichiarazioni rese in udienza. Tale dichiarazioni avevano consentito il ripristino della custodia cautelare del C., promotore dell'associazione, che era stato scarcerato in precedenza per carenza indiziaria. Pertanto doveva essergli riconosciuta quanto meno la circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, secondo l'interpretazione data ad esso dalla giurisprudenza di legittimità.

2.2. S.R.E., tramite il proprio difensore di fiducia Avv. Eustachio Claudio Solazzo, ha dedotto violazioni ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento all'inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'art. 648 c.p., mancando gli elementi di prova per ritenere sussistente il dolo specifico, avendo la sentenza valorizzato in maniera apodittica elementi indiziari. Le circostanze di fatto addebitate alla S. la mostrano intenta a richiedere una somma di denaro (150 Euro) per fronteggiare le esigenze alimentari sue e del bimbo, nel periodo di carcerazione del marito, come emerge anche dalla telefonata intercorsa con la suocera. Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza si tratta di una situazione che esclude il dolo del delitto di ricettazione.

2.3. L.M., tramite il proprio difensore di fiducia, Avv. Salvatore Campanelli, ha dedotto la violazione ex art. 606 c.p.p., lett. b), per inosservanza delle norme di cui agli artt. 133, 62 bis e 163 c.p., non avendo i giudici valutato in maniera equa e logica l'intensità del dolo e la violazione ex art. 606 c.p.p., lett. b), per inosservanza delle norme di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per la mancata riqualificazione del reato ascritto nella fattispecie di cui al comma 5 del medesimo articolo, dovendosi considerare il dato quantitativo delle cessioni per stabilire il grado di offensività, non potendo la pluralità di sostanze escludere, per ciò solo, il riconoscimento dell'ipotesi di lieve entità come stabilito dalle SSUU della Corte di Cassazione.

Diritto

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CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Deve essere innanzitutto accolto il ricorso di S.R.E. con conseguente annullamento della sentenza emessa a suo carico. Infatti è stato chiarito dalla giurisprudenza che non integra il dolo del delitto di ricettazione il comportamento di chi riceve beni di provenienza delittuosa nell'ambito di un rapporto familiare o di rapporti obbligazionari (siano essi civili o naturali) da un congiunto, con la consapevolezza non dell'illecita provenienza degli stessi, ma solo della qualità criminale del congiunto medesimo (cfr. Sez.6, n. 33131 del 20/06/2013, Vitrano e altri, Rv. 255981, in fattispecie nella quale una donna, in costanza di una stabile relazione sentimentale, aveva ricevuto dal compagno denaro e titoli di credito). Infatti non è qui in discussione l'ingiustizia del profitto, che la prevalente giurisprudenza ritiene requisito non necessario ad integrare il reato (cfr. Sez.2, n. 21596 del 18/02/2016, P.G., P.C. e altro in proc. Tronchetti Provera, Rv. 267165 - 01), ma l'incompatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione (in tal senso Sez. 2, Sentenza n. 9271 del 14/05/1991, Castelli ed altro, Rv. 187933). Questo Collegio intende ribadire il principio che l'elemento psicologico del delitto di ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa della res - nel caso di specie del denaro richiesto - non essendo sufficiente la rappresentazione dell'eventualità della provenienza di tale res da delitto.

1.1. Orbene, nel caso di specie, la modesta entità della somma di denaro ottenuta e le ragioni sottese alla richiesta di essa devono essere nuovamente considerate dai giudici di merito in sede di rinvio, nell'ambito delle complessive emergenze processuali ed alla luce dei menzionati principi di diritto, al fine di verificare la sussistenza o meno in capo alla ricorrente della componente psicologica dolosa.

2. Quanto al ricorso di B.V., va premesso, in via generale, che quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Così, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/7/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 4, n. 15227 dell'11/4/2008, Baretti, Rv. 239735; Sez. 2, n. 5606 dell'8/2/2007, Conversa e altro, Rv.

236181; Sez 1, n. 8868 dell'8/8/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145).

2.1. A tale proposito va ricordato l'orientamento costante e consolidato di questa Corte (ex plurimis, Sez. Un. 47289 del 24/09/2003, Rv. 226074, Petrella; Sez. 6, n. 18491 del 24/02/2010, Nuzzo Piscitelli e altri, Rv. 246916; Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017,

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Cammarata e altro), secondo il quale il sindacato sulla motivazione della sentenza del giudice di merito demandato alla Corte di cassazione non può concernere nè la ricostruzione del fatto, nè il relativo apprezzamento probatorio, ma deve limitarsi al riscontro dell'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di una rinnovata verifica della sua rispondenza alle acquisizioni processuali, in quanto la funzione del controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza non è quella di sindacare l'intrinseca attendibilità dei risultati dell'interpretazione delle prove e di attingere il merito dell'analisi ricostruttiva dei fatti, ma soltanto di verificare che gli elementi posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate che rendano giustificate sul piano della consequenzialità le conclusioni tratte.

2.2. Il ricorso del B., anche laddove censura il vizio di violazione di legge, nella sostanza censura la motivazione, dolendosi per il mancato riconoscimento della l'invocata attenuante di cui del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 7 o, in subordine art. 73, comma 7. La prima doglianza risulta manifestamente infondata essendo evidente che la circostanza attenuante pertinente il reato associativo, secondo la consolidata interpretazione, richiede una condotta che contribuisca all'interruzione del sodalizio, assente nel caso di specie, come del resto affermato con chiarezza nella sentenza impugnata.

2.3. Per quanto attiene alla circostanza attenuante della collaborazione di cui al D.P.R. n.

309 del 1990, art. 73, comma 7, è ben vero che è stato affermato in giurisprudenza che non è necessario, quando si è in presenza di traffici di modesta rilevanza, che il risultato conseguito dalla collaborazione consista nella sottrazione al mercato di rilevanti risorse per la commissione dei delitti, ma è sufficiente che l'imputato abbia offerto tutto il suo patrimonio di conoscenze e la sua possibilità di collaborazione per evitare che l'attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, attraverso l'individuazione e la neutralizzazione dei responsabili da lui conosciuti, o sui quali è in grado di fornire utili elementi per l'identificazione (cfr. Sez. 6, n. 19082 del 16/03/2010, Khezami, Rv. 247082), ma certamente non è sufficiente la mera comunicazione alle autorità delle informazioni possedute, essendo necessario che dette informazioni siano in grado di consentire il perseguimento di un risultato utile di indagine che, senza la collaborazione stessa, non si sarebbe potuto perseguire (in tal senso, Sez. 6, n. 9069 del 14/01/2013, Squillace e altro, Rv. 256002). Infatti ammissioni o comportamenti non conducenti all'interruzione del circuito di distribuzione degli stupefacenti, ma limitati al rafforzamento del quadro probatorio o al raggiungimento anticipato di positivi risultati di attività di indagine già in

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corso in quella direzione non possono costituire presupposto idoneo per il riconoscimento dell'attenuante della collaborazione prevista del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 7 (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23942/15 del 01/10/2014, Paternoster e altri, Rv. 263642-01).

2.4. Pertanto, nel caso di specie, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto menzionati (pagg. 11 e 12 della sentenza) ed ha motivato adeguatamente, seppure sinteticamente, quanto alla genericità delle affermazioni rese dal B., esprimendo una valutazione in fatto, non censurabile nella presente sede.

3. Quanto al primo motivo presentato da L.M., con il quale lamenta violazione di legge per il mancato riconoscimento delle circostanze generiche e per la dosimetria sanzionatoria, va rilevato che la Corte di appello ha fornito una motivazione più che congrua (pagg. 18 e 19 della sentenza), anche richiamando la intensa attività di spaccio svolto dal ricorrente, motivazione pertanto non censurabile nella presente sede in assenza di elementi specifici indicati dalla ricorrente come posti all'attenzione dei giudici di appello, i quali hanno escluso l'applicabilità delle circostanze di cui all'art. 62 bis c.p., proprio rilevando la mancanza di elementi favorevoli a tale riconoscimento (così, in termini: Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986) con una motivazione ampiamente adeguata ed immune da smagliature logiche.

3.1. Per quanto attiene al motivo relativo al trattamento sanzionatorio, lo stesso è del pari manifestamente infondato: i giudici di appello hanno motivato quanto alla dosimetria della pena base facendo riferimento alla pluralità degli episodi di cessione, non solo richiamando l'esistenza di precedenti penali, adempiendo all'obbligo di specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall'art. 133 c.p. nel caso di pena base superiore al minimo edittale (cfr. Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, Monterosso, Rv. 255153).

3.2. Quanto poi al secondo motivo di ricorso che censura la violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento della fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, va ricordato che nei reati in materia di sostanze stupefacenti, ai fini della concedibilità o del diniego dell'applicazione della fattispecie del fatto di lieve entità, il giudice è tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi indicati dalla norma, sia quelli concernenti l'azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all'oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendo escludere il riconoscimento di un fatto di lieve entità anche quando uno solo di questi elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia qualificabile come di minore entità (in tal senso, ex multiis, Sez. 4, n. 43399 del

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12/11/2010, Serrapede, Rv. 248947).

3.3. La censura mira nella sostanza ad indurre questo Collegio ad una rivisitazione nel merito delle condotte ascritte al ricorrente, mentre in sentenza i giudici di appello hanno sottolineato gli indicatori fattuali incompatibili con il riconoscimento della ipotesi lieve, a ragione della continuità delle condotte e delle plurime dazioni di dosi molteplici di sostanze stupefacenti di differente tipologia. Si tratta di motivazione più che congrua, occorre infatti richiamare il principio che la menzionata fattispecie del fatto di lieve entità, anche dopo la formulazione normativa introdotta dal D.L. n. 146 del 2013, art. 2 (conv. in L. n. 10 del 2014) può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio (cfr., tra le molte, Sez. 3, n. 23945 del 29/04/2015, Xhihani, Rv. 263651; Sez. 3, n. 6871/17 del 08/07/2016 Bandera e altri, Rv. 269149, in particolare pag. 24 della parte motiva).

4. Tutte le censure proposte dai ricorrenti B. e L., risultano perciò inammissibili, in quanto si risolvono in mere repliche delle richieste già avanzate in secondo grado, non confrontandosi, nella sostanza, con la sentenza impugnata e non individuando specifici elementi concreti di prova trascurati dai giudici di merito, in base ai quali potesse essere disarticolata la ricostruzione dei fatti operata nel corso dei due gradi di giudizio.

5. Come detto, invece, la sentenza emessa nei confronti di S.R.E. deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Bari per nuovo giudizio, mentre, a seguito della declaratoria di inammissibilità dei loro ricorsi, i ricorrenti B. e L., ex art. 616 c.p.p., devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

PQM P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.R.E. e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Bari. Dichiara inammissibili i ricorsi di B.V. e L.M. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2020

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4) COLPA DEL MEDICO: NOZIONE DI IMPERIZIA.

Traccia

il 25 maggio 2010, allorquando la signora Mevia si presentò all'ospedale Gamma e venne sottoposta a TAC cerebrale senza contrasto da parte del medico radiologo Caio, il quale ometteva di diagnosticare una già presente emorragia sub aracnoidea. Il giorno successivo Mevia venne nuovamente sottoposta a TAC su richiesta di Caio; l'esame venne eseguito da Sempronio, il quale emise un referto del seguente tenore "reperti tac odierni invariati rispetto ai precedenti di ieri".

Dopo un periodo di degenza Mevia venne dimessa il 7 giugno, con diagnosi di "cefalea a frigore". Il 23 giugno la donna si presentò al pronto soccorso dell'ospedale, lamentando sindrome vertiginosa perdurante da circa un mese; venne visitata nuovamente da Sempronio il quale, pur essendo a conoscenza dell'avvenuta esecuzione di due esami TAC encefalo, omise di disporre l'esecuzione di rachicentesi o di un nuovo esame TAC encefalo e dimise la paziente con la diagnosi di sindrome vertiginosa. Nei giorni successivi le condizioni di salute di Mevia subirono un peggioramento e il 30 giugno la donna decedette a causa di un'emorragia subaracnoidea determinata dalla rottura di un aneurisma intracranico.

Con sentenza del 10.10.2020 il Tribunale Penale giudicava Caio e Sempronio responsabili del reato di cui all'art. 589 c.p. e li condannava ciascuno alla pena di un anno di reclusione nonchè al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.

Il Tribunale, in particolare, negava che gli imputati fossero incorsi in mera imperizia e che la loro colpa fosse stata di grado lieve, così escludendo tanto l'applicazione della L. n. 189 del 2012, art. 3 che dell'art. 590-sexies c.p., introdotto dalla L. n. 24 del 2017.

Il Tribunale non spiegava però in cosa fosse consistita la deviazione ragguardevole rimproverata all'imputato e tale giudizio si fondava sull'analisi dell'evento ma non su quella della condotta tenuta. Con riferimento all’art. 3 della L. n. 189 del 2012, riteneva che questo potesse essere applicato alla sola imperizia. Per tale aspetto il ricorrente rammenta l'evoluzione giurisprudenziale che si è prodotta a seguito dell'entrata in vigore della cosiddetta legge Balduzzi.

Il candidato rediga parere legale motivato sulla possibilità da parte dei due medici di appellare la sentenza di condanna.

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