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Specializzazione dei ruoli, interdipendenza e coordinamento

Attraverso la divisione dei ruoli, l’organizzazione passa da un insieme indifferenziato di persone ad un sistema organizzato. Una divisione di compiti che man mano vengono distribuiti ai singoli individui.

Dividere i compiti consiste nella suddivisione di una serie di operazioni che sono necessarie a realizzare degli obiettivi. Queste operazioni vengono suddivise in compiti specifici che vengono attribuiti ai membri dell’organizzazione.

La specializzazione nasce per due motivi36:

35

34 - Lo svolgimento da parte di un soggetto di più compiti molto diversi tra loro comporta una dispersione di attenzione e produttività;

- La specializzazione dei ruoli comporta una maggiore efficienza per via dell’ottimizzazione delle abilità di ogni membro dell’organizzazione.

Prendiamo, ad esempio, l’esercito come organizzazione. Nel caso di una guerra, la fanteria occupa il territorio, l’aviazione invece lo controlla dall’alto. Per far sì che il territorio sia strutturato in questo modo, occorre una forte specializzazione dei ruoli, perché se un soldato ed un pilota si scambiassero i ruoli, il risultato non sarebbe affatto positivo: in base a ciò, ogni soggetto si specializza su determinati ruoli che non sempre sono intercambiabili.

La stessa cosa avviene all’interno di un’azienda nella quale i ruoli sono specializzati in base alla complessità ed alle dimensioni di quest’ultima. Una scarsa specializzazione dei ruoli riduce anche la capacità e l’efficienza dell’organizzazione; bisogna aggiungere però che, al contrario, con un’eccessiva specializzazione, si può arrivare ad avere una struttura molto complessa dove tutto si baserebbe in una serie di micro interventi che causerebbero difficoltà gestionali. Una siffatta organizzazione, con una forte parcellizzazione dei ruoli, potrebbe far aumentare il senso di alienazione degli individui e diminuire sia le loro motivazioni quanto il senso del loro ruolo; ciò che significherebbero ritornare ad una struttura basata su una logica fordista.

Per evitare di andare in contro a queste dinamiche, la struttura organizzativa predispone la divisione dei compiti e la specializzazione dei ruoli attraverso le unità organizzative. La persona singola che svolge mansioni è l’unità organizzativa di base. Quando più persone svolgono attività omogenee, vengono tutte raggruppate sotto la supervisione di un capo che esercita la sua autorità sui propri subordinati37; esso è anche responsabile del lavoro dei subordinati e possiede un certo grado di autonomia decisionale.

Man mano che le unità organizzative si aggregano, danno luogo ad unità sempre più complesse. Si viene a creare ciò che viene definito come linea38.(D’amico, 2008)

La linea gerarchica si riferisce al rapporto tra autorità e responsabilità che insieme tengono le unità sull’obbiettivo da raggiungere. Le linee gerarchiche sono diffuse nei vari sistemi organizzativi:l’assetto si può presentare come una sorta di piramide nei casi dove vi è una direzione generale e via via altri uffici e unità che possono essere più o meno semplici. Proprio durante l’esperienza di Oxfam, di cui si parlerà più avanti, si è potuto osservare un simile

36

A. La Bella, E. Battistoni, “Economia e organizzazione aziendale”, Maggioli Editore, 2008

37

R. D’amico, “L’analisi della pubblica amministrazione. Teorie, concetti e metodi”, Franco Angeli, 2008

38

35 schema di linee gerarchiche piramidale: esso si strutturava in una sede centrale (Arezzo) ed altre succursali sparse nel territorio italiano, con compiti differenti tra loro ma che miravano tutte allo stesso obbiettivo.

Se consideriamo invece la pubblica amministrazione, non avremo una sola linee gerarchica ma più linee: in tal caso,si parla di “rete di linee gerarchiche”. Vi possono essere anche unità che operano in maniera laterale rispetto alle altre, hanno dei fini più strumentali o gestionali che sono connessi agli obbiettivi principali.

L’assenza del coordinamento renderebbe molto complicato, se non impossibile, il raggiungimento dell’obiettivo; per questo, insieme al coordinamento, è necessario mettere in atto azioni di controllo per assicurare l’efficacia dei processi per la realizzazione dei fini previsti. Il controllo è una caratteristica della gerarchia di un’organizzazione; esso richiede la presenza di personale che sia in grado di combinare responsabilità ed autorità per “garantire il funzionamento della macchina organizzativa”39

. Proprio l’autorità, infatti, è necessaria per effettuare questo genere di gestione attraverso una delega del potere dall’alto. Come, ad esempio, avviene nel caso Oxfam, anche qui la sede centrale ha delegato ai vari uffici, sparsi nel territorio, porzioni di potere per gestire il funzionamento organizzativo.

Abbiamo specificato che per gestire queste unità organizzative complesse sono necessari coordinamento e controllo, ma non sempre è stato così; in passato si teneva molto in considerazione l’attività di controllo, lasciando più ai margini il coordinamento (La Bella, Battistoni, 2008) e generando un assetto organizzativo troppo verticale. Solo successivamente questa tendenza, grazie ai mutamenti tecnologici e sociali, venne invertita creando strutture di controllo più piccole e riducendo anche le forme gerarchiche all’interno delle organizzazioni. Ciò ha comportato la creazione di strutture organizzative con unità sempre più grandi e complesse che generano un’organizzazione molto più strutturata e articolata su più livelli. In questo caso, controllo e il coordinamento saranno funzionali agli obiettivi ed alle situazioni che si presenteranno all’organizzazione. E’necessario che coordinamento e controllo debbano essere accompagnati anche da una comunicazione fluida, da un risalire e riscendere della scala gerarchica, affinché le informazioni necessarie possano arrivare in maniera chiara.

Se, ad esempio, pensiamo ad un’organizzazione fortemente centralizzata, questa ha sì il vantaggio di dare ordini chiari ma, essendo emanati da un’autorità troppo lontana dal livello di responsabilità, possono risultare poco tempestivi; al contrario, un controllo troppo frammentato

39

36 che coinvolge un certo numero di soggetti richiede maggiori sforzi di coordinamento e l’attenzione ad evitare di dare informazioni contrastanti. (Ibidem)

Per avviarci verso la comprensione del significato di specializzazione dei ruoli utilizzeremo la metafora del cervello umano, elaborata da Morgan, esponente della scuola cognitivista.

Per Morgan, “l’organizzazione è intesa come un sistema centrale che ha il compito di diffondere

le informazioni e le capacità in tutta la struttura e non solo in settori specifici”40

.

Morgan si sgancia dal pensiero classico di cui abbiamo parlato in precedenza: egli sottolinea l’importanza che in un’organizzazione si sviluppi la capacità di auto-regolamentazione visto che, come sappiamo, è ormai necessario saper rispondere tempestivamente ai cambiamenti che intervengono e bisogna saper fronteggiare l’ambiente esterno. Proprio come avviene nel cervello umano, dove ogni area assolve ad un compito ed anche ai compiti di quelle danneggiate, nella stessa misura l’organizzazione deve essere flessibile41

. Affinché l’organizzazione sia tale, servono alcuni requisiti:

Primo tra tutti, l’interdipendenza, ovvero:

“gli scambi o la condivisione di risorse materiali e di informazioni tra gli attori delle unità organizzative o tra diverse unità organizzative interne o esterne, al fine di realizzare le attività operative”42.Ciò che è interessante è che il pensiero di Morgan non si riferisce ad una forte

divisione dei ruoli ma, ad una correlazione di questi ultimi. Esistono tre tipi di interdipendenza:

- Generica

- Sequenziale

- Reciproca

In generale le unità organizzative hanno una interdipendenza generica; man mano che aumenta il grado di complessità aumentano i casi di interdipendenze sequenziali; situazioni più complesse presentano, inoltre, una terza forma di interdipendenza, oltre le due citate, ovvero quella reciproca. Quest’ultima; infatti, implica la presenza delle altre.

40Morgan citato in,“L’organizzazione delle aziende nei suoi aspetti economici e socio-psicologici”, di G.

Nuzzo, Giapeto Editore, 2015, p 78

41

Ibidem

42

37 Ogni tipo di interdipendenza presenta difficoltà crescenti nel coordinamento. La prima forma di interdipendenza ci dice che gli individui realizzano le attività in maniera indipendente contribuendo così alla realizzazione dello scopo dell’organizzazione. In questo caso, non vi sono delle specifiche relazioni di scambio o condivisioni dell’attività dei singoli. Si tratta più di una gestione tramite standardizzazione, tramite la quale i singoli, con le loro operazioni, contribuiscono a raggiungere lo scopo. Nell’interdipendenza sequenziale, invece, le attività degli individui diventano indipendenti le une dalle altre; l’azione qui deve essere modificata e adattata quando i compiti non vengono realizzati nel modo previsto. Vi è quindi una potenziale difficoltà e la gestione di tali interdipendenze avvengono mediante strumenti che cercano di assicurare un regolare flusso delle attività.

Nelle interdipendenze reciproche la difficoltà non è più solo potenziale: visto che le attività devono essere adattate a quelle degli altri e, quindi, l’attività di un individuo può influire in maniera diretta sull’ambiente organizzativo, vi può essere un’elevata complessità informativa e di comunicazione.

Questi tre gradi di interdipendenza abbiamo specificato che presentano livelli di complessità differente; una maggiore complessità comporta anche una maggiore difficoltà nel coordinamento che sarà più costoso da gestire, anche se la misura di questo costo è di difficile individuazione. (Costa, Giubitta, 2008)

In situazioni d’interdipendenza, le azioni vanno coordinate, ad ogni grado, tramite metodi differenti. Il coordinamento basato sulla standardizzazione ad esempio, rappresenta tutte quelle procedure che vincolano l’azione di ogni unità produttiva in modo coerente con le altre procedure; in questa forma di coordinamento è importante che le regole siano coerenti e che vengano applicate in maniera stabile e ripetitiva;ciò limita anche il numero di casi in cui sono applicabili.

Altra forma di coordinamento può essere quella per programmazione: essa implica programmi che guidano l’azione delle unità organizzative, e rispetto alla standardizzazione, rappresenta un processo più dinamico, utilizzabile in un maggior numero di situazioni,specie quelle in cui l’organizzazione si trova in un contesto di ambiente mutevole.

Una terza forma di coordinamento è quella definita per mutuo adattamento: questa forma implica la trasmissione di nuove informazioni per tutto il processo di svolgimento dell’azione; viene utilizzato anche il termine feedback. Questo tipo di coordinamento può anche avvalersi di

38 una comunicazione attraverso linee gerarchiche: in ogni caso, più la situazione è variabile ed imprevedibile, maggiore sarà il ricorso a questa forma di coordinamento43.

Scegliere uno di questi meccanismi di coordinamento dipende da una serie di fattori che possono essere riscontrati sia all’interno dell’organizzazione (la natura delle attività dell’organizzazione può comportare un diverso meccanismo di coordinamento), sia nell’ambiente esterno (abbiamo specificato in precedenza che l’organizzazione è un sistema aperto).

La scelta dell’assetto organizzativo, per quanto riguarda il coordinamento, deve mirare ad un contenimento dei costi senza tralasciare il fatto che il grado di complessità aumenta man mano che il numero di soggetti o gruppi coinvolti aumenta, e che inoltre aumentano anche le variabili presenti allungando le linee comunicative. Bisogna quindi sia massimizzare l’interdipendenza tra gli individui delle stesse unità organizzative, sia minimizzare il grado di interdipendenza tra le diverse unità organizzative.

E’ necessario anche considerare quei casi in cui vi è assenza di interdipendenza; questa eventualità comporta che l’organizzazione ottemperi al problema cercando di raggruppare le unità nella maniera più omogenea possibile, in modo da poterne garantire il coordinamento. Ovviamente ciò non è sempre cosa facile perché l’organizzazione si differenzia in tutte le sue parti ed è quindi eterogenea; mettere insieme unità che svolgono processi simili può essere una soluzione positiva nella gestione delle attività di coordinamento perché l’omogeneità facilita il processo organizzativo in questione. (Barnard, 1970)

Dobbiamo adesso proseguire l’analisi da un punto di vista differente: per fare ciò

introdurremo il pensiero istituzionalista post Selznick che, come specificato nel capitolo

precedente vogliamo attingere da questa nuova corrente di pensiero che va ad arricchire

il filone teorico degli approcci organizzativi. Inoltre è importante discuterne perché qui

non si vuole dare una lettura prettamente aziendale, piuttosto si cerca di unire questi

aspetti con quelli più sociologici. Partiamo dal principio.

Con il neoistituzionalismo il focus dell’analisi organizzativa non riguarda più le

pressioni esercitate dall’ambiente esterno sull’organizzazione e dagli effetti che tale

pressione genera. Il punto centrale è il processo di azione-retroazione che si determina

tra organizzazioni e istituzioni. L’oggetto non sono più le singole organizzazioni ma

intere popolazioni organizzative, unità, soggetti che operano in un determinato contesto

43

39

istituzionale

44

. Si tratta di concettualizzare l’ambiente organizzativo in termini di

“ambiente-istituzione”

45

, caratterizzato da norme, credenze, valori, aspettative, che sono

parte dell’organizzazione e che costituiscono “le lenti attraverso cui gli atteri

interpretano le relazioni con le altre organizzazioni e con l’ambiente di riferimento”

46

.

In questo senso la domanda che ci poniamo è “come mai le organizzazioni tendono ad

assumere scelte simili?”.

Per rispondere alla questione, la chiave di lettura fornita da John Meyer e Brian Rowan

può tornarci utili. Essi sono gli autori che hanno coniato un lessico specifico del

pensiero neoistituzionalista, proponendo il termine isomorfismo (Alpini, 2017) come

chiave di lettura per capire le ragioni per le quali organizzazioni operanti nello stesso

contesto istituzionale assumono scelte molto simili tra loro. L’idea di fondo è che le

organizzazioni aderiscano e si conformino ai miti ambientali, ovvero regole

istituzionali, che sottoforma di credenze immaginarie vengono prese per vere solo

perché la maggioranza vi ha aderito

47

. Ciò porta le organizzazioni ad avere strutture

formali simili e le pressioni che le spingono verso questa direzione, nascondono miti

razionalizzati appunto, ovvero tendenze per le quali non vi è riscontro di razionalità ma

si accetta il mito di ciò che viene considerato come efficace e l’adattamento a tali miti

porta le organizzazioni ad assumere caratteristiche comuni (Isomorfismo). Maggiore è il

grado di conformità, maggiori saranno i favori e i riconoscimenti da parte delle

istituzioni (Bonazzi, 2006).

Tali procedure non sono altro che meccanismi contingenti di una pratica organizzata,

dove le istituzioni e le organizzazioni si legittimano in modo impersonale, interagendo

con altri sistemi sociali. In poche parole il rapporto organizzazione-contesto può essere

visto come l’insieme di relazioni selezionate che portano all’interno dell’organizzazione

una parte di complessità dell’ambiente esterno. Meyer e Rowan affermano che le

organizzazioni non hanno criteri propri di razionalità e seguono quelli suggeriti

dall’ambiente esterno e se hanno criteri propri, questi differiscono da quelli prevalenti

44

S. Alpini, “Homo instabilis: sociologia della precarietà”, 2007 p.184

45

F. Fontana, “Clinical governante: una prospettiva organizzativa e gestionale”, Franco Angeli, 2005 p 145

46

Powell e Di Maggio citati in “Clinical governante: una prospettiva organizzativa e gestionale”, di F. Fontana, Franco Angeli, 2005 p 145

47

40

nell’ambiente. In questo è evidenziato il modo in cui si sviluppano processi di

isomorfismo, con le istituzioni che esercitano pressioni sulle varie organizzazioni

affinché si adeguino ai criteri di razionalità prevalenti o miti ambientali.

I due autori aggiungono che l’isomorfismo non è causato solo dalla tendenza delle

organizzazioni a conformarsi ai criteri da razionalità prevalenti, ma molte volte sono le

istituzioni stesse che operano per favorire la comparsa di organizzazioni che perseguono

gli scopi indicati dalle istituzioni stesse (Bonazzi, 2006). Tale affermazione non è

affatto lontana dal contesto attuale popolato da istituzioni di ogni tipo che hanno

generato un quadro normativo a cui le organizzazioni devono attenersi per avere

riconoscimenti e favori tanto che ormai non si possono separare e comprendere le azioni

delle singole organizzazioni senza considerare le pressioni esterne (istituzionali).

In sostanza queste “potenti regole istituzionali” (Meyer, Rowan, 1994) assolvono la

funzione di miti razionalizzati di cui abbiamo discusso poco sopra; un esempio di miti

razionalizzati sono la normativa che certifica la qualità di un prodotto, gli orientamenti

che stabiliscono i requisiti per esercitare una determinata professione.

Una delle intuizioni più interessanti dei due studiosi è la cosiddetta doppia struttura:

alcune organizzazioni possiedono criteri autonomi percepiti come “oggettivi” (Bonazzi,

2006) che vengono utilizzati per valutare l’efficienza, aggiungono i due autori, del

processo produttivo. Questa impostazione può andare in contrapposizione ai criteri di

efficienza suggeriti dalle istituzioni esterne e ciò manifesta uno scollamento tra la

struttura “formale” e struttura “reale”. Si tratta di strutture parallele di cui una visibile

(formale) che si adegua e rispetta i criteri esterni, l’altra invece più nascosta (reale) che

mira a perseguire regole proprie dell’organizzazione.

Altri autori come Walter Powell e Paul Di Maggio approfondiscono i processi di

isomorfismo elaborando il concetto di campo organizzativo e stabiliscono che i processi

di isomorfismo non sono tutti uguali, ma si differenziano secondo le modalità e la

rapidità con cui si sviluppano. Infine aggiungono che l’isomorfismo non riguarda

solamente le organizzazioni ma investe anche i singoli individui, dentro e fuori

l’organizzazione.

41

Il punto di partenza di Powell e Di Maggio riprende dalle conclusioni tratte da Rowan e

Meyer, ovvero le pressioni istituzionali spingono le organizzazioni a diventare sempre

più simili, ma non è detto che quest’ultime siano anche più efficienti. Powell e Di

Maggio vogliono cercare di spiegare il perché si verificano processi di isomorfismo e lo

fanno attraverso il campo organizzativo: un insieme di organizzazioni che, aggregate,

costituiscono un’area riconoscibile delle vite istituzionali (principali fornitori,

consumatori di risorse e prodotti, altre organizzazioni che offrono servizi e prodotti

simili) (Powell, Di Maggio 1991); questo vuol dire che un campo organizzativo non è

costituito solo da unità in concorrenza tra loro ma da una gamma di attori che in modo

più o meno diretto e consapevole generano un cambiamento, sia esso politico, culturale,

economico ecc (Powell e Di Maggio citati in Bonazzi, 2006 p 114).

Il fenomeno della crescente omogeneità delle organizzazioni di un campo viene

descritto utilizzando il termine “isomorfismo istituzionale”. Questo cambiamento

rispondo all’esigenza delle organizzazioni di apparire legittimate nel loro ambiente

istituzionale. Gli autori ne distinguono tre tipi (Powell, Di Maggio citati in Bonazzi,

2006):

-

Isomorfismo coercitivo: l’organizzazione sottoposta a pressioni esterne che la

obbligano così a conformarsi; deriva spesso dalla regolazione pubblica, relazioni

industriali

-

Isomorfismo mimetico: le organizzazioni attuano in modo spontaneo dei

processi imitativi (soprattutto di fronte all’incertezza dell’ambiente)

-

Isomorfismo normativo: le organizzazioni arrivano ad assomigliarsi tra loro

perché, nel tempo, hanno adottato (indirettamente) norme e valori di altre

organizzazioni dello stesso ambiente. Ad esempio i manager o gli impiegati che passano

spesso da un’organizzazione all’altra e portano con sé le norme e i valori

dell’organizzazione precedente. Le persone dunque diventano a loro volta un potente

fattore che rafforza l’isomorfismo normativo delle organizzazioni. Proprio riguardo

l’esperienza in Oxfam si è potuto constatare un simile processo; l’isomorfismo che ne

derivava non era coercitivo o mimetico, si trattava di un processo di ricerca,

consapevole, dei modi più utili per eccellere in quel contesto.

42

Il neoistituzionalismo cerca di superare la visione delle organizzazioni come “distante”,

dove vige il rigore dei confini tra interno ed esterno, e utilizzare una visione di

“prossimità” delle organizzazioni evidenziandone la permeabilità e reciprocità tra

individui, gruppi e ambiente. L’approccio neoistituzionalista mostra quindi una visione

più articolata del rapporto organizzazioni-ambiente, una rete di influenze reciproche che

non per forza devono essere negative o basate esclusivamente sulla competitività, ne

devono portare a tradire gli obiettivi originari, proprio l’esperienza di Oxfam che

tratteremo nei capitoli successivi si rivelerà un esempio di organizzazione che va in

contro a queste dinamiche, mostrando tratti di isomorfismo coercitivo, mimetico e

normativo, senza necessariamente tradire gli scopi iniziali o modificare lo spirito

organizzativo.

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