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La
 storia
 della
 produzione
 enologica
 della
 Valpolicella
 e
 dell’Amarone
 in
 particolare
 narra
 di
 una
 bevanda
 conosciuta
 e
 apprezzata
 già
 in
 epoca
 romana,
 di
 una
 valle
 interamente
 dedita
 alla
 produzione
 di
 vino,
 di
 una
 popolazione
 molto
 legata
 alle
 sue
 usanze
ma
che
sa
accettare
le
novità
allo
scopo
di
ottenere
un
prodotto
finale
sempre
 migliore.


L’Amarone
 della
 Valpolicella
 vanta
 numerosissime
 citazioni
 letterarie
 e
 in
 tutte
 le
 epoche
storiche,
sebbene
la
sua
notorietà
sia
recente:
nel
passato,
infatti,
esso
era
meglio
 conosciuto
 come
 “versione
 amara
 del
 Recioto”
 e
 la
 sua
 attuale
 fama
 è
 dovuta
 alla
 sbadataggine
e
alla
fortuna
(come
si
vedrà
in
seguito),
o
così
piace
pensare.



Le
prime
tracce
di
coltivazione
della
vite
in
Valpolicella
risalgono
al
V
secolo
a.C.,
quando
 il
territorio
era
una
provincia
romana
nota
con
il
nome
di
“Retia”
ed
il
vino
qui
prodotto,
 chiamato
 Retico
 (con
 il
 quale
 si
 identificava
 anche
 il
 vitigno),
 é
 citato
 a
 partire
 dal
 II
 secolo
a.C.
in
moltissimi
documenti.


Nella
sua
“Geografia”,
Strabone,
storico
e
geografo
greco
vissuto
tra
il
60
a.C.
ed
il
20
d.C.,
 afferma
che



“[…]
 I
 Reti
 dunque
 arrivano
 fino
 a
 quella
 parte
 dell’Italia,
 ch’è
 sopra
 Verone
 et
 Como.
 Et
 il
 vino
 Retio
 (il
 quale
 tra
 i
 più
 lodati
 non
 pare
 che
 sia
 da
 lasciare
 a
 dietro)
 nasce
 alle
 radici
 delle
 loro
 montagne
[…]”43.
 
 Gaio
Valerio
Catullo,
stimato
poeta
lirico
nato
a
Verona
e
vissuto
a
cavallo
dell’anno
zero,
 è
l’autore
di
alcuni
versi
che
si
riferiscono
al
vino
retico
denominandolo
“vino
amaro”.
 ”Ragazzo
che
mesci
il
vecchio
Falerno,/versami
coppe
di
gusto
più
amaro,/
come
ordina
la
legge
di
 Postumia/regina,
più
ebbra
di
un
acino
ebbro./Ma
voi
andate
dove
vi
pare
acque,/rovina
del
vino,
e
 





 43
Strabone,
“Prima
parte
della
Geografia
di
Strabone,
di
Greco”,
tradotta
in
volgare
italiano
da
M.
Alfonso


Buonacciuoli,
 in
 Venetia,
 appresso
 Francesco
 Senese,
 MDLXII.
 http://books.google.it/books?id=oQUceuRdfmcC&pg=PP75&dq=strabone+vino&hl=it&sa=X&ei=gdckUb PSNNC7hAen_YD4Bw&ved=0CD8Q6AEwAw



(Libro
IV
‐
p.
84.b
‐
vv
33‐36).
 


fra
gli
astemi/migrate:
qui
c’è
del
Tioniano
schietto.”44.
 
 Aulo
Cornelio
Celso,
scrittore
enciclopedico
del
I
secolo
d.C.,
nel
libro
IV
di
“De
medicina”
 sostiene
le
proprietà
mediche
di
questo
vino
rosso
e
afferma
che
contro
la
rilassatezza
 dello
stomaco

 


“[…]
 Per
 bevanda
 convenientissimo
 è
 il
 vino
 freddo,
 od
 almeno
 il
 vino
 ben
 caldo
 puro,
 in
 ispecie
 quello
della
Rezia
[…]”45.
 
 Contemporaneo
di
Celso
è
lo
scrittore
di
agronomia
Lucio
Giunio
Moderato
Columella,
 che
nella
sua
opera
“Rei
Rusticae”46
cita
la
Retica
tra
i
vitigni
più
generosi
e
adattabili
a
 suoli
poco
fertili.
 Anche
Virgilio,
il
più
grande
poeta
di
Roma,
nel
Libro
II
delle
“Georgiche”
tratta
il
tema
 della
 coltivazione
 degli
 alberi
 e
 della
 vite
 in
 particolare,
 ponendo
 il
 vitigno
 veronese
 subito
dopo
il
Falerno:

 
 “[…]
Lode
da
versi
miei,
retica,
avrai;
Ma
non
però
co
le
farlerne
viti
oserai
contrastar
[…]47”.
 
 Secondo
Svetonio
Tranquillo
Gaio,
erudito
vissuto
tra
I
e
II
secolo
d.C.,
particolarmente
 gradito
all’imperatore
Cesare
Augusto

 
 







44 Catullo,
 “Carmina”,
 a
 cura
 di
 Mario
 Marzi,
 Edizioni
 Studio
 Tesi
 1992.


http://books.google.it/books?id=t9RdVytKwrYC&pg=PR9&dq=liber+catullo&hl=it&sa=X&ei=piUlUanaH 4Oz0QWpqYGYDw&ved=0CDsQ6AEwAg#v=onepage&q=amaro&f=false

 (Carme
XXVII)
 45
Aulo
Cornelio
Censo,
“Della
Medicina,
Liber
sextus”,
all’interno
di
“Enciclopedia
delle
scienze
mediche”
di
 M.G.
 Levi,
 Venezia
 1838.
 http://openlibrary.org/books/OL25227438M/Della_medicina_di_Aulo_Cornelio_Celso_libri_otto

 (Libro
IV,
cap.
XII
Delle
infermità
dello
stomaco,
p.
139).
 46
Lucio
Giunio
Moderato
Columella,
“L’agricoltura”,
volgarizzata
da
Benedetto
Del
Bene,
Verona
presso
 Giovanni
Gambaretti
MDCCCVIII.

 http://books.google.it/books?id=zID1KlyQ‐ wEC&pg=PA240&dq=columella+libro+3&hl=it&sa=X&ei=LxzZUqbHLoHS0QXg‐ ICgAw&ved=0CEUQ6AEwAA#v=onepage&q=Rezia&f=false
 
(Libro
III,
capo
II).
 47
Publio
Virgilio
Marone,
“Georgiche”,
in
“Opere
edite
e
inedite
in
versi
ed
in
prosa”
di
Clemente
Bondi,
 Tomo
VII,
Venezia
presso
Adolfo
Cesare
1801.
http://it.wikisource.org/wiki/Georgiche/Libro_secondo

 (Libro
II).


“[…]
piacevagli
sopra
a
tutti
gli
altri
il
vino
retico
[…]”48.


Plinio
il
Vecchio
invece
riferisce
che
all’epoca
di
Tiberio
Cesare
era
abitudine
servire
il
 vino
retico
prima
delle
uve
passite.49

Con
 la
 caduta
 dell’Impero
 Romano,
 le
 fonti
 non
 parlano
 più
 di
 vino
 retico,
 ma
 di
 acinatico.


Al
 VI
 secolo
 d.C.
 risale
 la
 testimonianza
 di
 Cassiodoro,
 segretario
 di
 Re
 Teodorico,
 secondo
cui
il
regnante
considerava
questo
vino

 
 “[…]
puro
per
sapore
singolare,
regio
per
colore,
porpora
bevibile,
in
cui
la
dolcezza
si
sente
con
 soavità
incredibile!
[…].50 
 La
prima
fonte
legislativa
in
cui
è
posta
una
tutela
legale
alla
vite
e
al
suo
frutto
è
datata
 643
d.C.
All’epoca,
infatti,
le
liti
scaturivano
in
qualsiasi
momento
e
luogo,
creando
non
 pochi
danni
economici
ai
produttori
di
vino.
Di
conseguenza,
il
re
longobardo
Rotari
si
 sentì
in
dovere
di
emanare
un
editto
(conosciuto
come
Editto
Longobardo)51,
nel
quale
é
 protetta
anche
l’attività
vitivinicola.
In
particolare,
cinque
sono
gli
articoli
in
questione:
 
 “292
Della
vite
d’uva.
Se
qualcuno
saccheggia
una
vite,
cioè
prende
più
di
tre
o
quattro
elementi
di
 sostegno,
paghi
una
composizione
di
sei
solidi.
 293
Del
palo
che
è
di
sostegno.
Se
qualcuno
prende
un
palo
da
una
vite,
paghi
una
composizione
di
 sei
solidi.


294
 Della
 vite
 tagliata.
 Se
 qualcuno
 distrugge
 intenzionalmente
 una
 vite
 (scavando)
 una
 fossa,
 







48
 Gaio
 Svetonio
 Tranquillo,
Le
 vite
 dei
 dodici
 Cesari”,
 tradotte
 in
 volgare
 fiorentino
 da
 Fra
 Paolo
 del


Rosso,
 Torino
 Cugini
 Pomba
 e
 Comp.
 Editore
 1853.
 http://www.archive.org/stream/levitedeidodici00rossgoog#page/n123/mode/2up



(Sezione
dedicata
a
Cesare
Augusto
II
Imperatore).


49
Pline,
“Historia
Naturalis”
avec
la
traduction
en
français
par
M.
É.
Littré,
Paris
chez
Firmin
Didot
Frères,


Fil
 set
 C,
 Libraires
 –
 Imprimeurs
 de
 l’istitut
 de
 France
 Rue
 Jacob
 56
 MDCCCLXV.
 http://www.archive.org/stream/histoirenaturell01plinuoft#page/522/mode/2up
 (Libro
XIV,
II
‐
6).
 50
Guida
Gastronomica
d’Italia
–
Touring
Club
Italiano,
Milano
1931.

 http://books.google.it/books?id=EnJ5J5WYZeUC&pg=PA143&lpg=PA143&dq=cassiodoro+regio+per+co lore&source=bl&ots=22ENuJquqU&sig=iaBNeNcaqCnAf23j6TJX5lx9RG0&hl=it&sa=X&ei=zDAlUf2uNoqI hQf14YHICA&ved=0CDgQ6AEwAQ#v=onepage&q=cassiodoro%20regio%20per%20colore&f=false
 51
http://www.documentacatholicaomnia.eu/03d/0643‐0643,_Rothari,_Edictus,_LT.pdf

paghi
una
composizione
di
un
solido.


295
 Del
 tralcio
 di
 vite.
 Se
 qualcuno
 taglia
 un
 tralcio
 di
 vite,
 paghi
 una
 composizione
 di
 mezzo
 solido.


296
 Dell’uva.
 Se
 qualcuno
 prende
 più
 di
 tre
 grappoli
 d’uva
 da
 una
 vigna
 altrui,
 paghi
 una
 composizione
di
sei
solidi;
ma
se
ne
prende
sino
a
tre,
non
gli
sia
fatta
alcuna
colpa.”52

Altrettanto
 importante
 è
 la
 prima
 citazione
 del
 toponimo
 “Valpolicella”.
 Il
 documento
 che
lo
riporta
è
un
editto
di
Federico
Barbarossa
del
24
agosto
1177,
un
anno
dopo
la
 battaglia
di
Legnano
con
la
quale
egli
cercò
di
imporre
il
suo
potere
sui
comuni
dell’Italia
 settentrionale.


Con
 questo
 atto,
 l’Imperatore
 concede
 alla
 Congregazione
 del
 Clero
 di
 Verona
 “(…)
 terram
 quam
 habent
 in
 castro
 Rotaris
 et
 in
 valle
 Puliscella
 (…)”53,
 per
 cercare
 di


ingraziarsi
i
veronesi
che
non
sempre
gli
erano
stati
fedeli.
 
 
 La
Valpolicella:
storia
del
nome
 Fino
alla
metà
del
XII
secolo,
l’attuale
Valpolicella
era
suddivisa
in
due
aree:
la
valle
 di
Pruviniano
e
la
valle
di
Veriago.


La
 prima
 prendeva
 il
 suo
 nome
 dal
 paesino
 di
 Prun,
 che
 si
 trova
 nell’alta
 valle
 di
 Negrar,
 e
 che
 si
 estendeva
 dal
 lato
 occidentale
 della
 pianura
 e
 dalle
 pendici
 dei
 progni
(torrenti)
di
Fumane
e
Negrar
fino
allo
sbocco
di
questi
nel
fiume
Adige.
 La
 seconda
 invece
 comprendeva
 tutto
 il
 bacino
 idrografico
 del
 progno
 di
 Negrar,
 inclusa
la
parte
pianeggiante
che
dalle
pendici
dei
colli
di
Parona
si
estende
ad
ovest
 fino
allo
sbocco
in
Adige
del
torrente
stesso.


Questi
termini
vennero
usati
rispettivamente
per
3
secoli
e
mezzo
e
2
secoli
e
mezzo
 e
la
loro
sparizione
coincide
con
la
prima
citazione
del
nuovo
toponimo.


Per
 quanto
 riguarda
 l’origine
 del
 nome
 Valpolicella,
 gli
 storici
 non
 hanno
 ancora
 raggiunto
 un’opinione
 condivisa.
 Alcuni
 sostengono
 che
 esso
 derivi
 dal
 greco
 polyzélos,
 significando
 così
 “valle
 molto
 beata”;
 altri
 affermano
 che
 l’origine
 sia
 latina,
 in
 particolare
 dalla
 parola
 pulcella,
 a
 causa
 della
 figura
 di
 una
 fanciulla
 presente
nello
stemma
del
Comune
di
San
Pietro
in
Cariano.



Probabilmente
però
l’opinione
più
amata
riguarda
l’origine
dalla
parola
latina
cella,
 cioè
cantina:
in
questo
senso
Valpolicella
significherebbe
“valle
dalle
molte
cantine”.










52
 Claudio
 Azzara‐Stefano
 Gasparri,
 “Le
 leggi
 dei
 Longobardi:
 storia,
 memoria
 e
 diritto
 di
 un
 popolo


germanico”,
 Edizioni
 Viella,
 Roma
 2005.


http://books.google.fr/books?ei=NdwrUdPuIKXH0QX_u4DwCg&hl=fr&id=ipWRAAAAMAAJ&dq=le+legg i+dei+longobardi&q=palo#search_anchor



(Pagina
89).


Le
 fonti
 del
 XIII
 e
 XIV
 secolo
 riportano
 un
 aumento
 sensibile
 del
 consumo
 di
 vino,
 soprattutto
a
Verona,
come
dimostrato
dagli
statuti
cittadini
i
quali
menzionano
tra
le
 corporazioni
 più
 importati
 proprio
 quelle
 legate
 al
 mondo
 vitivinicolo.
 Si
 è
 calcolato,
 infatti,
che
in
quest’epoca
la
percentuale
di
territorio
coltivato
a
vigna
corrispondesse
ad
 un’estensione
pari
al
30‐40%
della
vallata.


Nel
 1405
 circa
 Verona
 cade
 nelle
 mani
 della
 Serenissima
 Repubblica
 di
 Venezia,
 a
 cui
 segue
un
aumento
del
traffico
commerciale
legato
ai
vini,
in
particolar
modo
per
quanto
 riguarda
quelli
provenienti
dalla
Valpolicella.


Le
chiatte
cariche
di
botti
scendevano
il
corso
dell’Adige
e
poi
risalivano
fino
a
Venezia,
 dove
depositavano
il
proprio
carico
in
Riva
del
Vin,
accanto
a
Rialto,
dove
si
teneva
un
 mercato
da
cui
poi
le
botti
ripartivano
per
raggiungere
le
destinazioni
finali.54

Il
 Cinquecento
 e
 il
 Seicento
 sono
 secoli
 caratterizzati
 da
 epidemie
 cicliche
 di
 peste
 (famosa
è
quella
descritta
ne
“I
Promessi
Sposi”)
e
dalle
guerre
tra
veneziani,
spagnoli,
 francesi
 e
 tedeschi,
 a
 causa
 delle
 quali
 l’attività
 economica
 di
 tutta
 Europa
 deve
 ridimensionarsi.
 Ciò
 però
 non
 significa
 un
 arresto
 del
 commercio:
 nonostante
 tutto,
 il
 vino
rimane
una
voce
fondamentale
nel
sistema
produttivo
dell’area.


Nel
1675
nasce
a
Verona
Scipione
Maffei,
erudito
e
letterato
precursore
dell’Illuminismo
 in
Italia.
È
del
1731‐1732
la
sua
opera
“Verona
Illustrata”,
in
cui
riassume
la
storia
della
 città,
dall’età
romana
fino
alla
sua
epoca.


Se
 nel
 primo
 libro
 l’autore
 elenca
 tutti
 i
 letterati
 classici
 che
 nelle
 loro
 opere
 hanno
 esaltato
la
bontà
dei
vini
provenienti
dalla
Valpolicella55,
è
nel
terzo
libro
che
troviamo
 però
le
informazioni
più
interessanti.
 La
sezione
dedicata
ai
vini
si
apre
con
queste
parole:
 
 ”Particolare
dote
è
parimenti
del
paese
la
varietà
e
preziosità
dei
vini.”56

 
 





 54http://www.stradadelvinovalpolicella.it/vino_vitigni.htm

55
 Scipione
 Maffei,
 “Verona
 illustrata”,
 Milano
 dalla
 Società
 tipografica
 De’
 Classici
 Italiani,
 MDCCCXXV.


http://books.google.it/books?id=BFgGAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=verona+illustrata+parte+p rima&hl=it&sa=X&ei=QzgpUcOZPIuY0QXEmYCgCw&ved=0CE0Q6AEwBg#v=onepage&q&f=false

 (Libro
VI
‐
pag.
229‐235).


e
in
seguito

 


“[…]
La
Valpulicella
fa
vino
d’una
grazia
particolare
[…]”.
57

Arriva
 perfino
 a
 paragonarlo
 al
 Montepulciano,
 già
 conosciuto
 e
 molto
 apprezzato
 in
 tutta
Europa.
 Nonostante
tale
elogio,
Maffei
non
si
lascia
sfuggire
l’occasione
per
criticare
i
produttori,
 sostenendo
che

 
 “[…]
e
sarebbero
certamente
i
vini
Veronesi
assai
ricercati
anche
da
lontane
parti,
se
alquanto
di
 cura
e
d’industria
a
questo
fine,
e
per
fargli
noti,
e
per
ispedirgli
in
vetro,
e
non
in
legno,
si
usasse.
 […]”58

Egli
 quindi
 è
 convinto
 delle
 potenzialità
 del
 vino,
 che
 potrebbe
 essere
 conosciuto,
 apprezzato
 e
 commercializzato
 in
 tutto
 il
 mondo,
 se
 solo
 i
 coltivatori
 modificassero
 in
 parte
le
loro
abitudini
per
incontrare
le
necessità
o
i
gusti
dei
compratori
(come
ad
es.
 utilizzare
il
vetro
e
non
il
legno
come
materiale
di
imbottigliamento
e
di
trasporto).

 Infine
 nell’ultima
 parte
 della
 sezione,
 l’autore
 esprime
 la
 sua
 opinione
 riguardante
 la
 nota
“amara”
che
caratterizza
questo
vino.
 Egli
sostiene
che:

 
 “[…]
a
certi
paesi
dove
il
clima
alquanto
più
aspro
non
permette
che
regni
il
dolce,
è
riuscito
di
por
 tal
sapore
in
tanto
discredito
e
abborrimento,
che
converrebbe
ora
per
accordar
tutto
mutar
l’uso
 del
parlare,
e
non
dir
più
dolce
per
affetto
e
per
lusinga,
ma
piuttosto
amaro
o
simil
cosa.[…]
59 
 In
realtà,
il
vino
“amaro”
a
cui
il
Maffei
si
riferisce
è
un
vino
secco,
a
causa
della
lunga
 lavorazione
a
cui
sono
sottoposti
gli
acini.


Inoltre
 l’autore
 fu
 uno
 dei
 primi
 a
 criticare
 la
 moda
 che
 si
 stava
 affermando
 anche
 in
 Italia
e
che
proveniva
da
quei
paesi
europei
che
ne
erano
privi
(“…
per
lo
che
in
Italia,
 







57Ibidem
nota
56. 58Ibidem
nota
56. 59Ibidem
nota
56.


alla
quale
non
piace
mai
ciò
ch’è
suo,
quasi
rifiutando
il
dono,
e
rinunziando
il
privilegio
 da
Dio
conceduto
…”),
e
cioè
di
servire
i
vini
dolci
anche
durante
i
pasti
(“…
insoffribil
 sarebbe
al
comune
delle
persone
di
bere
vino
dolce
a
pasto
…”).


Il
 secolo
 dell’Illuminismo
 non
 porta
 con
 sé
 solo
 mode
 bizzarre:
 nelle
 zone
 enoiche
 europee,
 in
 particolare
 nella
 Champagne
 e
 nel
 bordolese,
 si
 comincia
 a
 pensare
 e
 a
 gettare
 le
 basi
 per
 una
 produzione
 di
 qualità
 e
 non
 più
 finalizzata
 esclusivamente
 alla
 quantità,
come
si
era
fatto
fino
a
quel
momento.



A
Verona
e
nel
Veneto
in
generale
questo
nuovo
filone
di
pensiero
però
non
riesce
ad
 attecchire:
forse
a
causa
dell’inclinazione
veneta
all’iperproduttività
che
pone
la
qualità
 in
secondo
piano,
o
a
causa
delle
pessime
annate
precedenti
(le
carestie
del
Seicento
e
 l’ondata
 di
 cavallette
 che
 distrusse
 i
 raccolti),
 per
 cui
 i
 contadini
 erano
 impegnati
 a
 cercare
di
limitare
le
perdite
piuttosto
che
a
“convertire”
la
produzione.


Alla
 fine
 del
 secolo
 si
 assiste
 però
 ad
 un
 cambiamento:
 vengono
 avviate
 le
 prime
 ricerche
 e
 accertamenti
 sulla
 qualità,
 oltre
 che
 ad
 essere
 introdotte
 alcune
 novità
 per
 quanto
 riguarda
 i
 metodi
 di
 appassimento
 e
 di
 fermentazione.
 In
 questo
 modo
 la
 produzione
enologica
della
Valpolicella
si
allinea
con
quella
europea:
il
gusto
imperante
 ora
nel
Vecchio
Continente
predilige
i
vini
secchi,
come
gli
Champagne
e
i
Bordeaux.
 Nella
 prima
 metà
 dell’Ottocento
 un
 gruppo
 di
 botanici
 conduce
 alcuni
 studi
 che
 si
 concentrano
sulle
fasi
di
lavorazione,
le
quali
saranno
modificate
in
seguito
ai
risultati
 ottenuti
 dagli
 studi
 stessi.
 Sebbene
 il
 veronese
 sia
 ancora
 caratterizzato
 dall’iperproduttività
 e
 da
 una
 scarsa
 attenzione
 per
 il
 prodotto
 finale,
 vengono
 introdotte
alcune
novità
che
vanno
a
migliorare
l’aspetto
qualitativo
ed
igienico
del
vino.
 In
particolare,
la
fase
della
pigiatura
d’ora
in
poi
sarà
effettuata
in
cantina
e
non
più
nel
 vigneto,
mentre
per
la
fermentazione
si
cominciano
ad
utilizzare
i
vasi
chiusi.


Finalmente
a
metà
secolo
arrivano
i
primi
riconoscimenti
internazionali
per
un
vino
che
 può
essere
considerato
come
l’antenato
dell’attuale
Amarone.


Si
 tratta
 del
 “Costa
 Calda”
 di
 Luigi
 Morando
 conte
 de’
 Rizzoni,
 un
 rosso
 invecchiato
 di
 undici
 anni,
 austero
 e
 fragrante,
 definito
 "il
 supremo
 vino
 d’Italia”,
 degno
 di
 essere
 “preferito
a
molte
qualità
di
vero
Bordeaux
e
di
Hermitage"60
dagli
esperti
parigini
che
lo


assaggiano
durante
una
degustazione
nel
1845.
Altri
riconoscimenti
arrivano
nel
1873,
 







60
 Lamberto
 Paronetto
 e
 Cesare
 Marchi,
 “
 Valpolicella
 splendida
 contea
 del
 vino”,
 1981
 S.
 Giovanni


in
 occasione
 dell’Esposizione
 universale
 di
 Vienna:
 qui
 i
 vini
 della
 Valpolicella
 hanno
 modo
di
farsi
notare,
tanto
che
uno
dei
maggiori
enologi
dell’epoca,
l’inglese
Vizetelly,
 scrive


“I
migliori
campioni
vennero
dalla
Valpolicella,
in
vicinanza
di
Verona
ed
erano
il
prodotto
della


ben
 nota
 uva
 Negrara.
 Furono
 trovati
 vini
 da
 pasto
 ben
 fatti,
 con
 minor
 finezza
 di
 certi
 vini
 Toscani,
e
di
forza
alcolica
moderata.
Questo
vino
della
Valpolicella
vuol
essere
posto
in
serbo
due
o
 tre
anni
prima
di
berlo
e
raggiunge
la
sua
perfezione
da
otto
a
dieci.”61

Purtroppo
 i
 momenti
 di
 gloria
 per
 i
 vini
 veronesi
 terminano
 presto:
 nonostante
 la
 volontà
 e
 la
 speranza
 dei
 viticoltori
 di
 entrare
 nel
 mercato
 del
 lusso
 attraverso
 i
 riconoscimenti
ottenuti,
per
loro
le
porte
di
questo
mondo
rimarranno
chiuse
ancora
per
 molto
tempo.


Ad
 impedire
 la
 realizzazione
 del
 loro
 sogno
 sono
 tre
 malattie
 che
 decimano
 la
 produzione
e
che
arrivano
in
successione:
lo
oidio,
la
peronospora
e
la
fillossera,
contro
 le
quali
all’inizio
non
c’è
nulla
da
fare.


Nel
 1853
 si
 scopre
 che
 per
 debellare
 lo
 oidio
 è
 sufficiente
 l’uso
 dello
 zolfo
 e
 in
 breve
 tempo,
con
questo
rimedio,
si
limita
la
diffusione
del
parassita.62



Pochi
 anni
 dopo
 fa
 la
 sua
 comparsa
 in
 Europa
 la
 peronospora,
 una
 malattia
 di
 origine
 americana:
si
tratta
di
un
fungo
che
attacca
e
distrugge
tutta
la
pianta,
eccezione
fatta
 per
le
radici.
Le
uniche
viti
che
resistono
a
questo
parassita
sono
alcune
tipologie
di
vite
 americana,
per
cui
si
comincia
ad
importarle
per
utilizzarle
come
base
d’innesto
per
le
 piante
autoctone
europee.


È
questa
importazione
a
causare
il
vero
e
proprio
flagello
del
secolo
nel
campo
enoico:
 assieme
 alle
 viti,
 giunge
 in
 Europa
 anche
 l’insetto
 portatore
 della
 fillossera,
 il
 quale
 attacca
le
radici
della
pianta
e
le
distrugge
completamente.



Inizialmente
 viticoltori,
 botanici
 e
 scienziati
 sono
 incapaci
 di
 porre
 un
 freno
 alla
 diffusione
dell’insetto
e
cominciano
a
sperimentare
qualsiasi
tipo
di
rimedio.
Tra
i
primi
 riscontri
positivi
ottenuti
si
nota
che
i
vigneti
piantati
in
terreni
sabbiosi
non
vengono
 attaccati
 dalla
 fillossera,
 ma
 la
 prospettiva
 di
 trasferire
 tutta
 la
 produzione
 vinicola
 in
 







61Ibidem
nota
60.


terre
di
questo
tipo
sembra
fin
da
subito
impossibile
da
attuare.


Il
vero
punto
di
svolta
della
ricerca
consiste
nella
scoperta
che
la
vite
europea
innestata
 su
portinnesto
americano
non
viene
attaccata
dall’insetto.
Oltre
a
ciò,
gli
studi
condotti
 dimostrano
che
le
proprietà
del
vitigno
europeo
rimangono
intatte
e
che
l’apporto
del
 portainnesto
 d’oltreoceano
 riguarda
 esclusivamente
 l’adattamento
 alle
 condizioni
 climatiche
nel
nuovo
ambiente.


Nonostante
le
scoperte
fatte
dal
mondo
scientifico
e
i
rimedi
trovati,
la
situazione
risulta
 molto
 grave:
 nel
 1931,
 circa
 un
 quarto
 dell’intero
 territorio
 italiano
 coltivato
 a
 vite
 risulta
 distrutto
 o
 gravemente
 danneggiato
 dalla
 fillossera,63
 mentre
 per
 quanto


riguarda
 il
 Veneto,
 i
 dati
 confermano
 che
 solo
 nel
 1942
 si
 conclude
 il
 processo
 di
 ricostituzione
dei
vigneti
su
innesto
americano.64 Quello
che
sembra
essere
un
periodo
poco
confortante
e
con
poche
possibilità
di
riscatto
 diventa
invece
l’inizio
di
una
nuova
fase
per
la
valle.
 La
prima
novità
riguarda
la
fondazione
del
“Consorzio
per
la
difesa
dei
vini
tipici
della
 Valpolicella”
il
9
febbraio
1925,
nato
in
seguito
alla
promulgazione
del
decreto
legge
n.
 497
del
07
marzo
1924,
il
quale
mira
a
proteggere
i
vini
tipici.
Significativa
è
la
presenza
 dell’on.
 Arturo
 Marescalchi
 alla
 cerimonia
 di
 nascita
 del
 Consorzio:
 egli
 è
 il
 primo
 a
 presentare
 alla
 Camera
 un
 progetto
 di
 riconoscimento
 dei
 vini
 tipici,
 oltre
 ad
 aver
 fondato
nel
1891
l’attuale
Assoenologi.


L’altro
fattore
di
cambiamento
è
rappresentato
da
un
piccolo
gruppo
di
coltivatori
che
il
 23
agosto
1933
si
riunisce
e
in
presenza
del
notaio
Francesco
Bettelloni
fonda
la
Cantina
 Sociale
 Valpolicella
 di
 Negrar.
 Questi
 sei
 uomini
 si
 chiamano
 Gaetano
 dall’Ora,
 Carlo
 Vecchi,
 Giovanni
 Battista
 Rizzardi,
 Marco
 Macchi,
 Silvio
 Graziani
 e
 Pier
 Alvise
 Serego
 Alighieri.
 Essi
 capiscono
 che
 è
 il
 momento
 di
 unirsi
 per
 affrontare
 una
 realtà
 che
 è
 in
 rapido
cambiamento:
un
gruppo
di
industriali
ha
l’intenzione
di
comprare
alcuni
ettari
 di
vigneto
dove
produrre
un
Valpolicella
economico,
miscelando
le
(poche)
uve
veronesi
 con
(molte)
altre
provenienti
da
tutta
Italia.



Questi
 veronesi
 sono
 spinti
 da
 motivi
 economici,
 in
 quanto
 sono
 consapevoli
 che
 singolarmente
 non
 hanno
 il
 capitale
 necessario
 per
 acquistare
 i
 macchinari
 per
 una
 produzione
 moderna,
 ma
 anche
 dall’orgoglio
 e
 dalla
 sicurezza
 che
 i
 vini
 qui
 prodotti
 







63Enciclopedia_Italiana
Treccani
:
http://www.treccani.it/enciclopedia/fillossera_ 64http://biodiversità.provincia.vicenza.it/present/pr_vitis.htm

potrebbero
 essere
 apprezzati
 e
 commercializzati
 in
 tutto
 il
 mondo.
 La
 loro
 determinazione
ed
il
loro
lavoro
vengono
presto
premiati:
all’esposizione
internazionale
 di
Bruxelles
del
1935
i
vini
della
Cantina
sono
particolarmente
apprezzati.


I
successi
del
piccolo
gruppo
di
coltivatori
della
Valpolicella
continuano
ad
aumentare
e
 la
 vera
 sorpresa
 arriva
 in
 modo
 insolito
 e
 improbabile.


La
 storia
 vuole
 che
 il
 pregiato
 Amarone
 sia
 frutto
 di
 un
 errore
 del
 cantiniere
 Adelino
 Lucchesi,
 il
 quale
 ritrova
 per
 caso
 una
 botte
 dimenticata
 di
 Recioto
 (all’epoca
 il
 vero
 gioiello
 della
 Valpolicella)
 nella
 cantina
 di
 Villa
 Mosconi
 ad
 Arbizzano,
 la
 prima
 sede
 della
 Cantina
 Sociale.
 Il
 cantiniere
 si
 prepara
 a
 ricevere
un
bel
rimprovero
dal
direttore
della
Cantina,
 Gaetano
 dell’Ora,
 il
 quale
 invece
 loda
 il
 vino
 che
 sta
 assaggiando,
 definendolo
 un
 grande
 amaro,
 un
 “Amarone”
.


Secondo
 le
 differenti
 versioni
 di
 questo
 aneddoto,
 il


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