La storia della produzione enologica della Valpolicella e dell’Amarone in particolare narra di una bevanda conosciuta e apprezzata già in epoca romana, di una valle interamente dedita alla produzione di vino, di una popolazione molto legata alle sue usanze ma che sa accettare le novità allo scopo di ottenere un prodotto finale sempre migliore.
L’Amarone della Valpolicella vanta numerosissime citazioni letterarie e in tutte le epoche storiche, sebbene la sua notorietà sia recente: nel passato, infatti, esso era meglio conosciuto come “versione amara del Recioto” e la sua attuale fama è dovuta alla sbadataggine e alla fortuna (come si vedrà in seguito), o così piace pensare.
Le prime tracce di coltivazione della vite in Valpolicella risalgono al V secolo a.C., quando il territorio era una provincia romana nota con il nome di “Retia” ed il vino qui prodotto, chiamato Retico (con il quale si identificava anche il vitigno), é citato a partire dal II secolo a.C. in moltissimi documenti.
Nella sua “Geografia”, Strabone, storico e geografo greco vissuto tra il 60 a.C. ed il 20 d.C., afferma che
“[…] I Reti dunque arrivano fino a quella parte dell’Italia, ch’è sopra Verone et Como. Et il vino Retio (il quale tra i più lodati non pare che sia da lasciare a dietro) nasce alle radici delle loro montagne […]”43. Gaio Valerio Catullo, stimato poeta lirico nato a Verona e vissuto a cavallo dell’anno zero, è l’autore di alcuni versi che si riferiscono al vino retico denominandolo “vino amaro”. ”Ragazzo che mesci il vecchio Falerno,/versami coppe di gusto più amaro,/ come ordina la legge di Postumia/regina, più ebbra di un acino ebbro./Ma voi andate dove vi pare acque,/rovina del vino, e 43 Strabone, “Prima parte della Geografia di Strabone, di Greco”, tradotta in volgare italiano da M. Alfonso
Buonacciuoli, in Venetia, appresso Francesco Senese, MDLXII. http://books.google.it/books?id=oQUceuRdfmcC&pg=PP75&dq=strabone+vino&hl=it&sa=X&ei=gdckUb PSNNC7hAen_YD4Bw&ved=0CD8Q6AEwAw
(Libro IV ‐ p. 84.b ‐ vv 33‐36).
fra gli astemi/migrate: qui c’è del Tioniano schietto.”44. Aulo Cornelio Celso, scrittore enciclopedico del I secolo d.C., nel libro IV di “De medicina” sostiene le proprietà mediche di questo vino rosso e afferma che contro la rilassatezza dello stomaco
“[…] Per bevanda convenientissimo è il vino freddo, od almeno il vino ben caldo puro, in ispecie quello della Rezia […]”45. Contemporaneo di Celso è lo scrittore di agronomia Lucio Giunio Moderato Columella, che nella sua opera “Rei Rusticae”46 cita la Retica tra i vitigni più generosi e adattabili a suoli poco fertili. Anche Virgilio, il più grande poeta di Roma, nel Libro II delle “Georgiche” tratta il tema della coltivazione degli alberi e della vite in particolare, ponendo il vitigno veronese subito dopo il Falerno: “[…] Lode da versi miei, retica, avrai; Ma non però co le farlerne viti oserai contrastar […]47”. Secondo Svetonio Tranquillo Gaio, erudito vissuto tra I e II secolo d.C., particolarmente gradito all’imperatore Cesare Augusto
44 Catullo, “Carmina”, a cura di Mario Marzi, Edizioni Studio Tesi 1992.
http://books.google.it/books?id=t9RdVytKwrYC&pg=PR9&dq=liber+catullo&hl=it&sa=X&ei=piUlUanaH 4Oz0QWpqYGYDw&ved=0CDsQ6AEwAg#v=onepage&q=amaro&f=false (Carme XXVII) 45 Aulo Cornelio Censo, “Della Medicina, Liber sextus”, all’interno di “Enciclopedia delle scienze mediche” di M.G. Levi, Venezia 1838. http://openlibrary.org/books/OL25227438M/Della_medicina_di_Aulo_Cornelio_Celso_libri_otto (Libro IV, cap. XII Delle infermità dello stomaco, p. 139). 46 Lucio Giunio Moderato Columella, “L’agricoltura”, volgarizzata da Benedetto Del Bene, Verona presso Giovanni Gambaretti MDCCCVIII. http://books.google.it/books?id=zID1KlyQ‐ wEC&pg=PA240&dq=columella+libro+3&hl=it&sa=X&ei=LxzZUqbHLoHS0QXg‐ ICgAw&ved=0CEUQ6AEwAA#v=onepage&q=Rezia&f=false (Libro III, capo II). 47 Publio Virgilio Marone, “Georgiche”, in “Opere edite e inedite in versi ed in prosa” di Clemente Bondi, Tomo VII, Venezia presso Adolfo Cesare 1801. http://it.wikisource.org/wiki/Georgiche/Libro_secondo (Libro II).
“[…] piacevagli sopra a tutti gli altri il vino retico […]”48.
Plinio il Vecchio invece riferisce che all’epoca di Tiberio Cesare era abitudine servire il vino retico prima delle uve passite.49
Con la caduta dell’Impero Romano, le fonti non parlano più di vino retico, ma di acinatico.
Al VI secolo d.C. risale la testimonianza di Cassiodoro, segretario di Re Teodorico, secondo cui il regnante considerava questo vino “[…] puro per sapore singolare, regio per colore, porpora bevibile, in cui la dolcezza si sente con soavità incredibile! […].50 La prima fonte legislativa in cui è posta una tutela legale alla vite e al suo frutto è datata 643 d.C. All’epoca, infatti, le liti scaturivano in qualsiasi momento e luogo, creando non pochi danni economici ai produttori di vino. Di conseguenza, il re longobardo Rotari si sentì in dovere di emanare un editto (conosciuto come Editto Longobardo)51, nel quale é protetta anche l’attività vitivinicola. In particolare, cinque sono gli articoli in questione: “292 Della vite d’uva. Se qualcuno saccheggia una vite, cioè prende più di tre o quattro elementi di sostegno, paghi una composizione di sei solidi. 293 Del palo che è di sostegno. Se qualcuno prende un palo da una vite, paghi una composizione di sei solidi.
294 Della vite tagliata. Se qualcuno distrugge intenzionalmente una vite (scavando) una fossa,
48 Gaio Svetonio Tranquillo, “Le vite dei dodici Cesari”, tradotte in volgare fiorentino da Fra Paolo del
Rosso, Torino Cugini Pomba e Comp. Editore 1853. http://www.archive.org/stream/levitedeidodici00rossgoog#page/n123/mode/2up
(Sezione dedicata a Cesare Augusto II Imperatore).
49 Pline, “Historia Naturalis” avec la traduction en français par M. É. Littré, Paris chez Firmin Didot Frères,
Fil set C, Libraires – Imprimeurs de l’istitut de France Rue Jacob 56 MDCCCLXV. http://www.archive.org/stream/histoirenaturell01plinuoft#page/522/mode/2up (Libro XIV, II ‐ 6). 50 Guida Gastronomica d’Italia – Touring Club Italiano, Milano 1931. http://books.google.it/books?id=EnJ5J5WYZeUC&pg=PA143&lpg=PA143&dq=cassiodoro+regio+per+co lore&source=bl&ots=22ENuJquqU&sig=iaBNeNcaqCnAf23j6TJX5lx9RG0&hl=it&sa=X&ei=zDAlUf2uNoqI hQf14YHICA&ved=0CDgQ6AEwAQ#v=onepage&q=cassiodoro%20regio%20per%20colore&f=false 51 http://www.documentacatholicaomnia.eu/03d/0643‐0643,_Rothari,_Edictus,_LT.pdf
paghi una composizione di un solido.
295 Del tralcio di vite. Se qualcuno taglia un tralcio di vite, paghi una composizione di mezzo solido.
296 Dell’uva. Se qualcuno prende più di tre grappoli d’uva da una vigna altrui, paghi una composizione di sei solidi; ma se ne prende sino a tre, non gli sia fatta alcuna colpa.”52
Altrettanto importante è la prima citazione del toponimo “Valpolicella”. Il documento che lo riporta è un editto di Federico Barbarossa del 24 agosto 1177, un anno dopo la battaglia di Legnano con la quale egli cercò di imporre il suo potere sui comuni dell’Italia settentrionale.
Con questo atto, l’Imperatore concede alla Congregazione del Clero di Verona “(…) terram quam habent in castro Rotaris et in valle Puliscella (…)”53, per cercare di
ingraziarsi i veronesi che non sempre gli erano stati fedeli. La Valpolicella: storia del nome Fino alla metà del XII secolo, l’attuale Valpolicella era suddivisa in due aree: la valle di Pruviniano e la valle di Veriago.
La prima prendeva il suo nome dal paesino di Prun, che si trova nell’alta valle di Negrar, e che si estendeva dal lato occidentale della pianura e dalle pendici dei progni (torrenti) di Fumane e Negrar fino allo sbocco di questi nel fiume Adige. La seconda invece comprendeva tutto il bacino idrografico del progno di Negrar, inclusa la parte pianeggiante che dalle pendici dei colli di Parona si estende ad ovest fino allo sbocco in Adige del torrente stesso.
Questi termini vennero usati rispettivamente per 3 secoli e mezzo e 2 secoli e mezzo e la loro sparizione coincide con la prima citazione del nuovo toponimo.
Per quanto riguarda l’origine del nome Valpolicella, gli storici non hanno ancora raggiunto un’opinione condivisa. Alcuni sostengono che esso derivi dal greco polyzélos, significando così “valle molto beata”; altri affermano che l’origine sia latina, in particolare dalla parola pulcella, a causa della figura di una fanciulla presente nello stemma del Comune di San Pietro in Cariano.
Probabilmente però l’opinione più amata riguarda l’origine dalla parola latina cella, cioè cantina: in questo senso Valpolicella significherebbe “valle dalle molte cantine”.
52 Claudio Azzara‐Stefano Gasparri, “Le leggi dei Longobardi: storia, memoria e diritto di un popolo
germanico”, Edizioni Viella, Roma 2005.
http://books.google.fr/books?ei=NdwrUdPuIKXH0QX_u4DwCg&hl=fr&id=ipWRAAAAMAAJ&dq=le+legg i+dei+longobardi&q=palo#search_anchor
(Pagina 89).
Le fonti del XIII e XIV secolo riportano un aumento sensibile del consumo di vino, soprattutto a Verona, come dimostrato dagli statuti cittadini i quali menzionano tra le corporazioni più importati proprio quelle legate al mondo vitivinicolo. Si è calcolato, infatti, che in quest’epoca la percentuale di territorio coltivato a vigna corrispondesse ad un’estensione pari al 30‐40% della vallata.
Nel 1405 circa Verona cade nelle mani della Serenissima Repubblica di Venezia, a cui segue un aumento del traffico commerciale legato ai vini, in particolar modo per quanto riguarda quelli provenienti dalla Valpolicella.
Le chiatte cariche di botti scendevano il corso dell’Adige e poi risalivano fino a Venezia, dove depositavano il proprio carico in Riva del Vin, accanto a Rialto, dove si teneva un mercato da cui poi le botti ripartivano per raggiungere le destinazioni finali.54
Il Cinquecento e il Seicento sono secoli caratterizzati da epidemie cicliche di peste (famosa è quella descritta ne “I Promessi Sposi”) e dalle guerre tra veneziani, spagnoli, francesi e tedeschi, a causa delle quali l’attività economica di tutta Europa deve ridimensionarsi. Ciò però non significa un arresto del commercio: nonostante tutto, il vino rimane una voce fondamentale nel sistema produttivo dell’area.
Nel 1675 nasce a Verona Scipione Maffei, erudito e letterato precursore dell’Illuminismo in Italia. È del 1731‐1732 la sua opera “Verona Illustrata”, in cui riassume la storia della città, dall’età romana fino alla sua epoca.
Se nel primo libro l’autore elenca tutti i letterati classici che nelle loro opere hanno esaltato la bontà dei vini provenienti dalla Valpolicella55, è nel terzo libro che troviamo però le informazioni più interessanti. La sezione dedicata ai vini si apre con queste parole: ”Particolare dote è parimenti del paese la varietà e preziosità dei vini.”56 54 http://www.stradadelvinovalpolicella.it/vino_vitigni.htm
55 Scipione Maffei, “Verona illustrata”, Milano dalla Società tipografica De’ Classici Italiani, MDCCCXXV.
http://books.google.it/books?id=BFgGAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=verona+illustrata+parte+p rima&hl=it&sa=X&ei=QzgpUcOZPIuY0QXEmYCgCw&ved=0CE0Q6AEwBg#v=onepage&q&f=false (Libro VI ‐ pag. 229‐235).
e in seguito
“[…] La Valpulicella fa vino d’una grazia particolare […]”. 57
Arriva perfino a paragonarlo al Montepulciano, già conosciuto e molto apprezzato in tutta Europa. Nonostante tale elogio, Maffei non si lascia sfuggire l’occasione per criticare i produttori, sostenendo che “[…] e sarebbero certamente i vini Veronesi assai ricercati anche da lontane parti, se alquanto di cura e d’industria a questo fine, e per fargli noti, e per ispedirgli in vetro, e non in legno, si usasse. […]”58
Egli quindi è convinto delle potenzialità del vino, che potrebbe essere conosciuto, apprezzato e commercializzato in tutto il mondo, se solo i coltivatori modificassero in parte le loro abitudini per incontrare le necessità o i gusti dei compratori (come ad es. utilizzare il vetro e non il legno come materiale di imbottigliamento e di trasporto). Infine nell’ultima parte della sezione, l’autore esprime la sua opinione riguardante la nota “amara” che caratterizza questo vino. Egli sostiene che: “[…] a certi paesi dove il clima alquanto più aspro non permette che regni il dolce, è riuscito di por tal sapore in tanto discredito e abborrimento, che converrebbe ora per accordar tutto mutar l’uso del parlare, e non dir più dolce per affetto e per lusinga, ma piuttosto amaro o simil cosa.[…] 59 In realtà, il vino “amaro” a cui il Maffei si riferisce è un vino secco, a causa della lunga lavorazione a cui sono sottoposti gli acini.
Inoltre l’autore fu uno dei primi a criticare la moda che si stava affermando anche in Italia e che proveniva da quei paesi europei che ne erano privi (“… per lo che in Italia,
57 Ibidem nota 56. 58 Ibidem nota 56. 59 Ibidem nota 56.
alla quale non piace mai ciò ch’è suo, quasi rifiutando il dono, e rinunziando il privilegio da Dio conceduto …”), e cioè di servire i vini dolci anche durante i pasti (“… insoffribil sarebbe al comune delle persone di bere vino dolce a pasto …”).
Il secolo dell’Illuminismo non porta con sé solo mode bizzarre: nelle zone enoiche europee, in particolare nella Champagne e nel bordolese, si comincia a pensare e a gettare le basi per una produzione di qualità e non più finalizzata esclusivamente alla quantità, come si era fatto fino a quel momento.
A Verona e nel Veneto in generale questo nuovo filone di pensiero però non riesce ad attecchire: forse a causa dell’inclinazione veneta all’iperproduttività che pone la qualità in secondo piano, o a causa delle pessime annate precedenti (le carestie del Seicento e l’ondata di cavallette che distrusse i raccolti), per cui i contadini erano impegnati a cercare di limitare le perdite piuttosto che a “convertire” la produzione.
Alla fine del secolo si assiste però ad un cambiamento: vengono avviate le prime ricerche e accertamenti sulla qualità, oltre che ad essere introdotte alcune novità per quanto riguarda i metodi di appassimento e di fermentazione. In questo modo la produzione enologica della Valpolicella si allinea con quella europea: il gusto imperante ora nel Vecchio Continente predilige i vini secchi, come gli Champagne e i Bordeaux. Nella prima metà dell’Ottocento un gruppo di botanici conduce alcuni studi che si concentrano sulle fasi di lavorazione, le quali saranno modificate in seguito ai risultati ottenuti dagli studi stessi. Sebbene il veronese sia ancora caratterizzato dall’iperproduttività e da una scarsa attenzione per il prodotto finale, vengono introdotte alcune novità che vanno a migliorare l’aspetto qualitativo ed igienico del vino. In particolare, la fase della pigiatura d’ora in poi sarà effettuata in cantina e non più nel vigneto, mentre per la fermentazione si cominciano ad utilizzare i vasi chiusi.
Finalmente a metà secolo arrivano i primi riconoscimenti internazionali per un vino che può essere considerato come l’antenato dell’attuale Amarone.
Si tratta del “Costa Calda” di Luigi Morando conte de’ Rizzoni, un rosso invecchiato di undici anni, austero e fragrante, definito "il supremo vino d’Italia”, degno di essere “preferito a molte qualità di vero Bordeaux e di Hermitage"60 dagli esperti parigini che lo
assaggiano durante una degustazione nel 1845. Altri riconoscimenti arrivano nel 1873,
60 Lamberto Paronetto e Cesare Marchi, “ Valpolicella splendida contea del vino”, 1981 S. Giovanni
in occasione dell’Esposizione universale di Vienna: qui i vini della Valpolicella hanno modo di farsi notare, tanto che uno dei maggiori enologi dell’epoca, l’inglese Vizetelly, scrive
“I migliori campioni vennero dalla Valpolicella, in vicinanza di Verona ed erano il prodotto della
ben nota uva Negrara. Furono trovati vini da pasto ben fatti, con minor finezza di certi vini Toscani, e di forza alcolica moderata. Questo vino della Valpolicella vuol essere posto in serbo due o tre anni prima di berlo e raggiunge la sua perfezione da otto a dieci.”61
Purtroppo i momenti di gloria per i vini veronesi terminano presto: nonostante la volontà e la speranza dei viticoltori di entrare nel mercato del lusso attraverso i riconoscimenti ottenuti, per loro le porte di questo mondo rimarranno chiuse ancora per molto tempo.
Ad impedire la realizzazione del loro sogno sono tre malattie che decimano la produzione e che arrivano in successione: lo oidio, la peronospora e la fillossera, contro le quali all’inizio non c’è nulla da fare.
Nel 1853 si scopre che per debellare lo oidio è sufficiente l’uso dello zolfo e in breve tempo, con questo rimedio, si limita la diffusione del parassita.62
Pochi anni dopo fa la sua comparsa in Europa la peronospora, una malattia di origine americana: si tratta di un fungo che attacca e distrugge tutta la pianta, eccezione fatta per le radici. Le uniche viti che resistono a questo parassita sono alcune tipologie di vite americana, per cui si comincia ad importarle per utilizzarle come base d’innesto per le piante autoctone europee.
È questa importazione a causare il vero e proprio flagello del secolo nel campo enoico: assieme alle viti, giunge in Europa anche l’insetto portatore della fillossera, il quale attacca le radici della pianta e le distrugge completamente.
Inizialmente viticoltori, botanici e scienziati sono incapaci di porre un freno alla diffusione dell’insetto e cominciano a sperimentare qualsiasi tipo di rimedio. Tra i primi riscontri positivi ottenuti si nota che i vigneti piantati in terreni sabbiosi non vengono attaccati dalla fillossera, ma la prospettiva di trasferire tutta la produzione vinicola in
61 Ibidem nota 60.
terre di questo tipo sembra fin da subito impossibile da attuare.
Il vero punto di svolta della ricerca consiste nella scoperta che la vite europea innestata su portinnesto americano non viene attaccata dall’insetto. Oltre a ciò, gli studi condotti dimostrano che le proprietà del vitigno europeo rimangono intatte e che l’apporto del portainnesto d’oltreoceano riguarda esclusivamente l’adattamento alle condizioni climatiche nel nuovo ambiente.
Nonostante le scoperte fatte dal mondo scientifico e i rimedi trovati, la situazione risulta molto grave: nel 1931, circa un quarto dell’intero territorio italiano coltivato a vite risulta distrutto o gravemente danneggiato dalla fillossera,63 mentre per quanto
riguarda il Veneto, i dati confermano che solo nel 1942 si conclude il processo di ricostituzione dei vigneti su innesto americano.64 Quello che sembra essere un periodo poco confortante e con poche possibilità di riscatto diventa invece l’inizio di una nuova fase per la valle. La prima novità riguarda la fondazione del “Consorzio per la difesa dei vini tipici della Valpolicella” il 9 febbraio 1925, nato in seguito alla promulgazione del decreto legge n. 497 del 07 marzo 1924, il quale mira a proteggere i vini tipici. Significativa è la presenza dell’on. Arturo Marescalchi alla cerimonia di nascita del Consorzio: egli è il primo a presentare alla Camera un progetto di riconoscimento dei vini tipici, oltre ad aver fondato nel 1891 l’attuale Assoenologi.
L’altro fattore di cambiamento è rappresentato da un piccolo gruppo di coltivatori che il 23 agosto 1933 si riunisce e in presenza del notaio Francesco Bettelloni fonda la Cantina Sociale Valpolicella di Negrar. Questi sei uomini si chiamano Gaetano dall’Ora, Carlo Vecchi, Giovanni Battista Rizzardi, Marco Macchi, Silvio Graziani e Pier Alvise Serego Alighieri. Essi capiscono che è il momento di unirsi per affrontare una realtà che è in rapido cambiamento: un gruppo di industriali ha l’intenzione di comprare alcuni ettari di vigneto dove produrre un Valpolicella economico, miscelando le (poche) uve veronesi con (molte) altre provenienti da tutta Italia.
Questi veronesi sono spinti da motivi economici, in quanto sono consapevoli che singolarmente non hanno il capitale necessario per acquistare i macchinari per una produzione moderna, ma anche dall’orgoglio e dalla sicurezza che i vini qui prodotti
63 Enciclopedia_Italiana Treccani : http://www.treccani.it/enciclopedia/fillossera_ 64 http://biodiversità.provincia.vicenza.it/present/pr_vitis.htm
potrebbero essere apprezzati e commercializzati in tutto il mondo. La loro determinazione ed il loro lavoro vengono presto premiati: all’esposizione internazionale di Bruxelles del 1935 i vini della Cantina sono particolarmente apprezzati.
I successi del piccolo gruppo di coltivatori della Valpolicella continuano ad aumentare e la vera sorpresa arriva in modo insolito e improbabile.
La storia vuole che il pregiato Amarone sia frutto di un errore del cantiniere Adelino Lucchesi, il quale ritrova per caso una botte dimenticata di Recioto (all’epoca il vero gioiello della Valpolicella) nella cantina di Villa Mosconi ad Arbizzano, la prima sede della Cantina Sociale. Il cantiniere si prepara a ricevere un bel rimprovero dal direttore della Cantina, Gaetano dell’Ora, il quale invece loda il vino che sta assaggiando, definendolo un grande amaro, un “Amarone” .
Secondo le differenti versioni di questo aneddoto, il