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La struttura produttiva: funzione di produzione, prodotto marginale e sostituibilità de

2. Il settore delle arti performative: specificità economico-finanziarie

2.2 Struttura di produzione e costi

2.2.3 La struttura produttiva: funzione di produzione, prodotto marginale e sostituibilità de

Come gran parte delle attività produttive, le organizzazioni che operano nel settore delle arti performative combinano il lavoro e il capitale con la tecnologia per produrre un output. Secondo la tradizione, il rapporto tra input e output è modellato sotto forma di funzione di produzione, ovvero tramite una rappresentazione output-oriented della tecnologia produttiva. Di norma una funzione di

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produzione rappresenta la quantità massima di output che si può produrre data una quantità di input. Solitamente, nell’analizzare la struttura produttiva di un’organizzazione, gli economisti distinguono il breve e il lungo periodo. Il breve termine, che spesso coincide con la lunghezza di una stagione, è il periodo in cui il produttore decide quanto output produrre e a quale prezzo; è un lasso di tempo ristretto, tale che i fattori di produzione son utilizzati in quantità fissate. Nel lungo periodo invece tutti gli input diventano variabili; di conseguenza, un manager può optare per la realizzazione di produzioni e performance aggiuntive.

Dal momento che le modalità con cui vengono combinate le risorse non differisce profondamente dagli altri settori, la funzione di produzione si può scrivere come:

Q = f (L, K)

se L è il lavoro e K il capitale. L’output Q, come visto, può essere misurato in diversi modi. Throsby (1994) propone un semplice modello in cui l’output è definito come il numero di spettatori paganti presenti a una performance. Il modello di Throsby considera una compagnia che può variare il numero di produzioni e la lunghezza della stagione. La funzione di produzione nel breve periodo, ovvero relativa a una singola produzione, è:

Y

ij

= Y

j

(L

Sj

, K

Sj

, m

j

, q

j

)

con

m

j

= m

j

(L

R

, K

R

)

se Yij è il numero di presenze alla performance numero i della produzione j, LS e KS rispettivamente

il lavoro e il capitale necessari ad allestire una produzione (set, prove), LR e KR la manodopera e il capitale operativi (lavoro degli attori), mj il numero di performance della produzione j, qj l’insieme

delle variabili qualitative che descrivono la produzione j. Nel lungo periodo invece la funzione di produzione è:

Y

t

= Y

t

(L

St

, K

St

, L

Rt

, K

Rt

, q

t

, v

t

)

che si può scrivere anche:

Y

t

= Y

t

(n

t

, m

t

, q

t

, v

t

)

se Yt è il numero totale delle presenze nel periodo t, nt il numero di produzioni, mt il numero medio

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è fissa, nel lungo periodo, dal momento che l’organizzazione può modificare le proprie strategie, è variabile.

Sebbene molto utile a fini teorici, questa modellazione è una notevole semplificazione. Nel settore delle arti performative dal vivo alcune peculiarità rendono l’analisi della struttura produttiva molto complessa. Prima di tutto le organizzazioni si servono di input che hanno differenti gradi di importanza. Come visto, senza il lavoro artistico nessuna performance avrebbe luogo. Inoltre le istituzioni culturali possono avere delle finalità profondamente diverse: come visto, il settore può essere diviso in organizzazioni non-profit e for-profit, dunque i dati devono essere trattati secondo diversi livelli di indagine. L’analisi è ulteriormente complicata dal fatto che nelle performing arts l’output viene consumato nello stesso momento in cui viene prodotto, senza alcuna possibilità di accumulo per un consumo futuro. Nonostante queste ambiguità, si possono rintracciare alcune peculiarità che caratterizzano la struttura di produzione.

Innanzitutto, un’organizzazione può sostituire i fattori di produzione senza intaccare l’output. Nel breve periodo le possibilità di sostituzione sono limitate poiché, nell’ambito di una stessa produzione, è difficile nonché poco utile cambiare gli input. Nel lungo termine invece il percorso strategico può essere oggetto di modifiche relative al numero di performance, al cartellone, al personale artistico scritturato ecc. Nuove produzioni richiedono nuovi input. A questo punto è necessario introdurre il concetto di elasticità di sostituzione. Essa indica con quanta facilità si può scambiare un input con un altro senza modificare l’output, ed è definita come il rapporto tra la variazione percentuale dell’impiego relativo dei fattori produttivi e la variazione percentuale dei loro prezzi relativi. Uno studio di Marta Zieba e Carol Newman (2007) sui teatri tedeschi suggerisce che le possibilità di sostituzione tra lavoro artistico e capitale sono molto basse, il che conferma una ricerca precedente di Gapinski (1980), secondo il quale dal momento che “in tutte le forme d’arte, gli artisti e il capitale

sono input diversi, la loro elasticità di sostituzione è al di sotto dell’unità”.57 Per tutte le altre coppie

di input il valore dell’elasticità è superiore a 1. Ad esempio, tra artisti e ausiliari è 4.73; ciò vuol dire che “il lavoro può essere facilmente sostituito dal lavoro”.58 In Gapinski, tale valore varia a seconda

della forma artistica e va dal 1.4 dei teatri al 3.65 delle compagnie d’opera. Il dato più sorprendente è l’elevata elasticità associata al capitale secondario e agli altri input. Questo significa che nella produzione di una performance tutti gli input possono essere sostituiti con investimenti di capitale.

57 JAMES H. GAPINSKI (1980), p. 584. Orig.: “for all art forms artists and capital are dissimilar inputs, their elasticity of substitution falling below unity”.

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Come si spiega? Gli investimenti possono avere un impatto notevole sugli altri input. Ad esempio, uno sforzo monetario sul media-marketing permette di migliorare il prodotto finale, dal momento che a seguito di tale investimento un artista può sentirsi più motivato e può raggiungere una più elevata reputazione, potendo così attrarre un maggior numero di spettatori.

La seconda considerazione riguarda il prodotto marginale, ovvero la quantità di prodotto addizionale che si ottiene impiegando un’unità di input in più. Nel breve periodo, ovvero nell’ambito di una singola produzione esso è positivo, dal momento che per incrementare il numero di performance di un’unità è sufficiente solo utilizzare più unità di fattori (attori, energia elettrica, ecc.). Ci si aspetta che il prodotto marginale diminuisca verso il finire della stagione, momento in cui la domanda tende a calare. Come osservano Zieba e Newman una produzione può contenere aree di prodotto marginale negativo a causa di effetti della domanda. Se infatti un’organizzazione decide in corso d’opera di aumentare il numero di performance per una certa produzione, ma nessuno assiste a tali performance, il prodotto marginale sarà negativo. Questo succede dove “il teatro non funziona al massimo della

sua capacità, dato che gli input non possono essere adattati”.59 Lo studio di Gapinski (1984) sulla Royal Shakespeare Company di Stratford-upon-Avon rivela che il prodotto marginale del lavoro è superiore rispetto a quello del capitale, il che evidenzia la primaria importanza dell‘input-lavoro ai fini della produzione di una performance. Nella ricerca di Zieba e Newman il valore minimo del prodotto marginale del lavoro è sempre maggiore di zero, dunque aumentando il numero di ore lavorative sarà sempre possibile aumentare l’output, ovvero il numero di performance. Per tutti gli altri fattori produttivi il prodotto marginale è inizialmente positivo, ma poi diminuisce fino a un punto critico al di sotto del quale la produzione è anti-economica. Nelle immagini sottostanti sono riportate le funzioni di produzione di lungo termine per ogni fattore di produzione.

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Figura 2.2 – Funzioni di produzione nel lungo termine

Fonte: Zieba e Newman (2007), p. 25.

In ciascun punto della funzione di produzione, il prodotto marginale è pari alla pendenza della retta tangente alla funzione in quel punto. Quando la curva è decrescente, come nei grafici 2, 3 e 4 (anche se inizialmente è crescente), si parla di rendimenti decrescenti: un aumento nella quantità di un input genera una riduzione nel prodotto marginale dell’input stesso, mantenendo costante il livello di tutti gli altri fattori di produzione. L’unico input caratterizzato da una curva crescente è il lavoro artistico; in questo caso un’unità addizionale (un cantante, un corista, un musicista) genera un aumento nel prodotto marginale dell’input.

Stimare i prodotti marginali è un modo utile per verificare se le risorse sono allocate efficacemente. Secondo la teoria tradizionale, in un mercato perfettamente competitivo un’azienda che intenda massimizzare il profitto produrrà l’output affinché il ricavo marginale sia uguale al costo marginale, ovvero che il costo di ciascun input eguagli il ricavo marginale prodotto dall’input stesso. Tuttavia, per le organizzazioni non-profit la massimizzazione del profitto non è un obiettivo, dunque c’è la concreta possibilità che gli input non siano allocati in modo efficace.

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Uno studio di Lange e Luksetich (1985) su 58 orchestre americane rivela che le organizzazioni che operano nel settore delle arti performative beneficiano di economie di scopo. La presenza di economie di scopo implica che “il costo di produrre un mix di output in modo congiunto è strettamente minore

del costo di produrre la stessa quantità di output in unità produttive specializzate in un singolo output”.60 I risultati mostrano che sono le orchestre maggiori ad ottenere benefici dalle economie di scopo, la cui presenza quindi diminuisce al diminuire delle dimensioni dell’orchestra. Ciò significa che per le orchestre più grandi e prestigiose la strategia ottimale è di diversificare l’offerta, mentre quelle minori dovrebbero specializzarsi.