Capitolo 3. Il ditirambo nella sensibilità letteraria antica
3.1 Gli sviluppi del ditirambo nuovo nella critica platonica alla “degenerazione” della musica
Nonostante la pressoché totale scarsità di testi, possiamo tratteggiare, almeno nelle sue linee essenziali, quel particolare processo di evoluzione delle forme poetiche e musicali che interessò la melica in generale, e il ditirambo in particolare, tra la fine del V e gli inizi del IV secolo, grazie ai riflessi che queste trasformazioni, progressive ma pure piuttosto nette e ben evidenti già alla sensibilità dei contemporanei, provocarono nella coeva riflessione letteraria.
La testimonianza dello Pseudo-Plutarco128, al di là della correttezza metodologica della sua
impostazione e della verosimiglianza dello schema interpretativo sul ruolo effettivo ricoperto da Laso nella storia e negli sviluppi della poesia antica, traccia una linea evolutiva, che dal poeta di Ermione procede al nuovo ditirambo di poeti come Melanippide di Melo, Filosseno di Citera, Cinesia di Atene, Frinide di Mitilene e Timoteo di Mileto, all’insegna dell’aumento dello sperimentalismo strumentale da un lato, manifestatosi in particolare nell’estensione della πολυφωνία auletica ad altri strumenti e nella conseguente tendenza alla realizzazione di arditezze melodiche, come rivela anche la stessa insistenza sul tema della ποικιλία, delle “variazioni” musicali; dall’altro, di un passaggio a forme esecutive via via
127
Cfr. Imperio 1998: 76.
più “drammatiche” e “mimetiche”, con un’apertura sempre maggiore a forme esecutive monodiche, a discapito della tradizionale struttura eminentemente corale129 e una ricerca
sempre più mirata per la spettacolarizzazione130. In sostanza, nella nuova musica, il testo
tenderà a essere sopraffatto dall’elemento musicale, se non ridotto esso stesso a pura sequenza di suoni, e, in particolare nell’esecuzione ditirambica, assumerà progressivamente maggior rilievo il virtuosismo di cantanti e musicisti, in assoluta controtendenza rispetto al gusto tradizionale, per il quale la parola e il canto costituivano un’entità inscindibile e di importanza assolutamente primaria rispetto all’accompagnamento strumentale131.
Contro sviluppi di questo tipo non potevano che appuntarsi gli strali della critica filosofica platonica, che denunciò in particolar modo i pericoli di ripercussioni a livello della formazione culturale ed etico-politica dei cittadini ateniesi insiti in una poesia accusata di sganciarsi dalla sua matrice religiosa e perdere il suo ruolo “politico”, di essere in sostanza incapace di farsi tradizionale portavoce dei più alti valori dell’educazione e della vita dell’uomo.
A questa paventata operazione di disgregazione del sistema educativo e valoriale largamente doveva contribuire la poesia ditirambica, visto che è proprio la produzione dei ditirambografi, accanto a quella dei tragici, il destinatario prediletto della critica platonica, ben inserita nella cornice della più generale riflessione del filosofo sul valore della poesia e della complessiva condanna alle manifestazioni poetiche coeve.
Tale è lo sfondo che emerge infatti da Plat. Ap. Socr. 22a-c (= T202a Ieranò), dove Socrate, recatosi ἐπὶ τοὺς ποιητὰς τούς τε τῶν τραγῳδιῶν καὶ τοὺς τῶν διθυράμβων καὶ τοὺς ἄλλους, e avendo preso in mano αὐτῶν τὰ ποιήματα ἅ μοι ἐδόκει μάλιστα πεπραγματεῦσθαι e sul senso di essi avendo interrogato gli autori, conclude che, essendosi quasi tutti i presenti non professionisti rivelati maggiormente in grado di commentare ciò che loro stessi avevano scritto, οὐ σοφίᾳ ποιοῖεν ἃ ποιοῖεν, ἀλλὰ φύσει τινὶ καὶ ἐνθουσιάζοντες ὥσπερ οἱ
129
Per ciò che concerne quest’aspetto, esaustiva e chiara è la testimonianza dello pseudo-Aristotele di Probl. 19.15 (= T76 Ieranò), dove si stabilisce una connessione tra passaggio a una struttura sempre “meno corale”, più drammatica e astrofica dei canti ditirambici, evoluzione delle forme poetiche e trasformazione del ruolo sociale degli agoni: “Διὰ τί οἱ μὲν νόμοι οὐκ ἐν ἀντιστρόφοις ἐποιοῦντο, αἱ δὲ ἄλλαι ᾠδαὶ αἱ χορικαί; ἢ ὅτι οἱ μὲν νόμοι ἀγωνιστῶν ἦσαν, ὧν ἤδη μιμεῖσθαι δυναμένων καὶ διατείνεσθαι ἡ ᾠδὴ ἐγίνετο μακρὰ καὶ πολυειδής; καθάπερ οὖν καὶ τὰ ῥήματα, καὶ τὰ μέλη τῇ μιμήσει ἠκολούθει ἀεὶ ἕτερα γινόμενα. Μᾶλλον γὰρ τῷ μέλει ἀνάγκη μιμεῖσθαι ἢ τοῖς ῥήμασιν. Διὸ καὶ οἱ διθύραμβοι, ἐπειδὴ μιμητικοὶ ἐγένοντο, οὐκέτι ἔχουσιν ἀντιστρόφους, πρότερον δὲ εἶχον”. Modulare un gran numero di variazioni - continua l’argomentazione - è più facile infatti per un solista che per un coro, e per un professionista che per chi pensi soltanto a rispettare l’ethos musicale.
130 Sulle caratteristiche del nuovo ditirambo, ancora utile Schönewolf 1938. Una chiara e agile sintesi delle
tendenze e principali innovazioni introdotte si ritrova anche in Imperio 1998: 76-77. Cfr. anche Zimmermann 1992: 118-121.
θεομάντεις καὶ οἱ χρησμῳδοί· καὶ γὰρ οὗτοι λέγουσι μὲν πολλὰ καὶ καλά, ἴσασιν δὲ οὐδὲν ὧν λέγουσι.
La nota critica all’ἐνθουσιασμός, quasi bacchico, come espressione di irrazionalità e insensato furore, ritorna anche in Leg. III 700d-701a (= T74 Ieranò), dove la critica platonica assume una grande coerenza, muovendo dall’elogio di un passato di equilibrio, misura e giustizia, da cui la poesia, e così la società, si sono allontanate, verso la παρανομία e la sfrenata ἐλευθερία della presente θεατροκρατία, in cui gli applausi sono il metro di giudizio e la moda è legge: [ΑΘ.] Ταῦτ’οὖν οὕτω τεταγμένος ἤθελεν ἄρχεσθαι τῶν πολιτῶν τὸ πλῆθος, καὶ μὴ τολμᾶν κρίνειν διὰ θορύβου· μετὰ δὲ ταῦτα, προϊόντος τοῦ χρόνου, ἄρχοντες μὲν τῆς ἀμούσου παρανομίας ποιηταὶ ἐγίγνοντο φύσει μὲν ποιητικοί, ἀγνώμονες δὲ περὶ τὸ δίκαιον τῆς Μούσης καὶ τὸ νόμιμον, βακχεύοντες καὶ μᾶλλον τοῦ δέοντος κατεχόμενοι ὑφ’ἡδονῆς, κεραννύντες δὲ θρήνους τε ὕμνοις καὶ παίωνας διθυράμβοις, καὶ αὐλῳδίας δὴ ταῖς κιθαρῳδίαις μιμούμενοι, καὶ πάντα εἰς πάντα συνάγοντες, μουσικῆς ἄκοντες ὑπ’ἀνοίας καταψευδόμενοι ὡς ὀρθότητα μὲν οὐκ ἔχοι οὐδ’ἡντινοῦν μουσική, ἡδονῇ δὲ τῇ τοῦ χαίροντος, εἴτε βελτίων εἴτε χείρων ἂν εἴη τις, κρίνοιτο ὀρθότατα.
Essendo le leggi musicali inserite nel più ampio contesto delle norme che governano la vita sociale, la loro infrazione porta a un sovvertimento dell’equilibrio socio-politico132 e, sul
piano strettamente letterario, a uno snaturamento dei singoli generi e dei caratteri peculiari di questi, fino al loro arbitrario e caotico mescolamento, tale da rendere difficile distinguere θρήνους τε ὕμνοις καὶ παίωνας διθυράμβοις133.
La “legge” che sembra guidare questi poeti invasati quasi come baccanti, caduta la tradizionale e salutare distinzione tra i generi, è la ricerca, ad ogni costo e mediante qualsiasi espediente retorico e musicale, dell’ἡδονὴ, concetto tanto privo di implicazioni morali quanto per questo avvertito come disgregante e pericoloso da Platone.
132 Argomento che ritorna in Resp. 424c. 133
Analogamente Aristotele (Pol. 7 1341b20-1342b17), sempre in prospettiva paideutica, mette in guardia dalle commistioni tra le diverse ἁρμονίαι (cfr. anche Plat. Resp. 3 397b-d), a ciascuna delle quali corrispondono diversi ἤθη. Il filosofo, citando come prova il fallimentare tentativo di Filosseno di approdare all’armonia “dorica”, sostiene che il ditirambo non possa essere che eseguito secondo l’armonia “frigia”: πᾶσα γὰρ βακχεία καὶ πᾶσα ἡ τοιαύτη κίνησις μάλιστα τῶν ὀργάνων ἐστὶν ἐν τοῖς αὐλοῖς, τῶν δ’ἁρμονιῶν ἐν τοῖς φρυγιστὶ μέλεσι λαμβάνει ταῦτα τὸ πρέπον, οἷον ὁ διθύραμβος ὁμολογουμένως εἶναι δοκεῖ Φρύγιον, καὶ τούτου πολλὰ παραδείγματα λέγουσιν οἱ περὶ τὴν σύνεσιν ταύτην ἄλλα τε, καὶ διότι Φιλόξενος ἐγχειρήσας ἐν τῇ δωριστὶ ποιῆσαι διθύραμβον τοὺς Μύσους οὐχ οἷός τ’ἦν, ἀλλ’ὑπὸ τῆς φύσεως αὐτῆς ἐξέπεσεν εἰς τὴν φρυγιστὶ τὴν προσήκουσαν ἁρμονίαν πάλιν (1342b4-12).
Proprio nel segno della persecuzione dell’amorale ἡδονὴ e del “χαρίζεσθαι τοῖς θεαταῖς μόνον”134 si dispiega la critica poetica platonica di Gorg. 501e-502c dove, prima di chiamare
in causa la tragedia, ἡ σεμνὴ αὕτη καὶ θαυμαστή, ἡ τῆς τραγῳδίας ποίησις, e sferrare così il colpo definitivo ai falsi e vuoti valori della mimesi poetica, Socrate incalza e costringe Callicle ad ammettere che la poesia, in sostanza, è costruita per τὴν ἡδονὴν ἡμῶν μόνον διώκειν, ἄλλο δ’οὐδὲν φροντίζειν, appuntandosi, in particolare, sulla musa del ditirambografo Cinesia –
ἢ ἡγῇ τι φροντίζειν Κινησίαν τὸν Μέλητος, ὅπως ἐρεῖ τι τοιοῦτον ὅθεν ἂν οἱ ἀκούοντες βελτίους γίγνοιντο, ἢ ὅτι μέλλει χαριεῖσθαι τῷ ὄχλῳ τῶν θεατῶν; – per giungere alla definitiva e inappellabile conclusione che
ἥ τε κιθαρῳδικὴ δοκεῖ πᾶσα καὶ ἡ τῶν διθυράμβων ποίησις ἡδονῆς χάριν ηὑρῆσθαι.
Il ditirambo nuovo, nell’argomentazione platonica, si dimostra quindi come l’esempio indiscutibile e manifesto di una poesia svuotata della sua essenza e funzione originaria e tradizionale, vacua, se non fittizia e ingannatrice.
Dal piano dell’essenza a quello del discorso, dal livello dell’ousia a quello della lexis, il ditirambo viene specificamente a caratterizzarsi tanto nella prosa dialogica platonica quanto, come vedremo, nei coloriti giochi mimetico-parodici della commedia, quasi per antonomasia, quasi proverbialmente, come forma espressiva costruita ad arte e vuota, come infatti emerge dal confronto di Hipp. Ma. 292c (= T167 Ieranò),
"Εἰπέ μοι," φήσει, "ὦ Σώκρατες, οἴει ἂν ἀδίκως πληγὰς λαβεῖν, ὅστις διθύραμβον τοσουτονὶ ᾄσας οὕτως ἀμούσως πολὺ ἀπῇσας ἀπὸ τοῦ ἐρωτήματος;",
in cui Socrate propone, in modo divertito, la possibile questione di un suo ipotetico interlocutore, e di Phaedr. 238c5-d (= T168a Ieranò)135, in cui in particolare “διθύραμβος” si
caratterizza, come sarà ancor più esplicitamente e gustosamente nella parodia aristofanesca di Cinesia, in quanto discorso eccessivo, altisonante, divino, non di questa terra:
[ΣΩ.] Ἀτάρ, ὦ φίλε Φαῖδρε, δοκῶ τι σοί, ὥσπερ ἐμαυτῷ, θεῖον πάθος πεπονθέναι; [ΦΑΙ.] Πάνυ μὲν οὖν, ὦ Σώκρατες, παρὰ τὸ εἰωθὸς εὔροιά τίς σε εἴληφεν. [ΣΩ.] Σιγῇ τοίνυν μου ἄκουε. τῷ ὄντι γὰρ θεῖος ἔοικεν ὁ τόπος εἶναι, ὥστε ἐὰν ἄρα πολλάκις νυμφόληπτος προϊόντος τοῦ λόγου γένωμαι, μὴ θαυμάσῃς· τὰ νῦν γὰρ οὐκέτι πόρρω διθυράμβων φθέγγομαι. 134
Per l’espressione, cfr. Dalfen 1974: 213.
Ma il piano della lexis sarà quello su cui meglio di tutti, mediante gli strumenti mimetici della parodia e del rovesciamento, si muoverà la commedia, in particolare aristofanesca, che ci regalerà un colorato graffito di ciò che doveva apparire alla sensibilità letteraria dei contemporanei la poesia ditirambica del V secolo.
3.2 Aristofane: la lexis ditirambica nelle parodie comiche
Nel corso della parabola evolutiva del ditirambo che stiamo provando a tracciare, all’interno dello sviluppo di quelle tendenze che porteranno alla formazione dei caratteri distintivi del ditirambo nuovo, da segnalare è l’inclinazione alla ricerca di un’espressione particolarmente ricca di epiteti esornativi, composti roboanti e sonori, con l’effetto di una lexis altisonante, verbosa, ampollosa. Venuto ormai meno, infatti, l’indissolubile connubio tradizionale tra poesia e musica, anche nella composizione del testo gli artisti presero a ricercare effetti sonori, “a creare parole nuove e composti sesquipedali, dando vita così a una dizione artificiosa e ridondante, che poi divenne la dizione ditirambica per antonomasia”136.
La poesia ditirambica è infatti spesso rubricata sotto la specie di uno stile eccessivo e vacuo; dal IV secolo in poi, il termine διθυραμβῶδες, a partire per noi da Plat. Crat. 409b-c137, dove
Ermogene lo usa per ammirare il nome della luna e l’etimologia di esso fornita da Socrate, ricorre a indicare espressioni alate, in quanto particolarmente ispirate e immaginifiche, o in quanto astruse e complessamente elaborate.
Seaford sintetizza efficacemente le caratteristiche della lexis ditirambica dalla seconda metà del V secolo, analizzando i frammenti superstiti e la parodia aristofanesca, in tre categorie essenziali, fornendo per ciascuna riscontri poetici: “a) the elaborately compound epithets; b) the frequency and aggregation of epithets; c) periphrasis, often of a riddling nature”138.
In particolare, l’uso ricorrente di nomi composti, διπλά o σύνθετα ὀνόματα, è esplicitamente attestato come caratteristica del linguaggio ditirambico nella trattatistica aristotelica di Poe. 22 1459a8-10139 e Rhet. 3 1406a35-b5140, tanto che in seguito, in età tardoellenistica e
imperiale, ogni prosa eccessiva, barocca o troppo carica di immagini poetiche verrà definita
136
Imperio 1998: 77.
137 T166 Ieranò. 138
Seaford 1977-78: 88. Caratterizzazione che si rivelerà, come potremo apprezzare nella Parte II di questo lavoro, notevolmente appropriata anche per la poesia ditirambica bacchilidea.
139 “Tῶν δ’ὀνομάτων τὰ μὲν διπλᾶ μάλιστα ἁρμόττει τοῖς διθυράμβοις” (= T169 Ieranò). 140
“Οἱ δ’ἄνθρωποι τοῖς διπλοῖς χρῶνται, ὅταν ἀνώνυμον ᾖ καὶ ὁ λόγος εὐσύνθετος, οἷον τὸ χρονοτριβεῖν· ἀλλ’ἂν πολύ, πάντως ποιητικόν. Διὸ χρησιμωτάτη ἡ διπλῆ λέξις τοῖς διθυραμβοποιοῖς· οὗτοι γὰρ ψοφώδεις”. Cfr. T169b Ieranò.
“ditirambica”141. E proprio questi caratteri saranno sottolineati e, mediante sottili giochi
parodici, portati all’estremo eccesso, dalla commedia, soprattutto dall’archaia.
Quello che è stato dunque fino a questo punto descritto come il linguaggio proprio, in generale, dei nuovi musicisti e tipico, in particolare, dei pomposi ditirambografi, dei κυκλίων χορῶν ᾀσματοκάμπται, evocati mimeticamente, in Aristoph. Nu. 331-333 (= T195a Ieranò), in mezzo ad altri sedicenti sapienti -
Θουριομάντεις, ἰατροτέχνας, σφραγιδονυχαργοκομήτας· κυκλίων τε χορῶν ᾀσματοκάμπτας, ἄνδρας μετεωροφένακας -
dove, come acutamente nota la Imperio, l’espressione “κυκλίων χορῶν ᾀσματοκάμπται” riflette da una parte la modalità performativa, “la composizione e la disposizione circolare dei cori ditirambici, dall’altra i ‘contorcimenti’ poetico-musicali dell’arte ditirambica”142, è
frequentemente oggetto di irrisione comica; basti apprezzare Aristoph. Vesp. 220-221, dove i nuovi canti sono definiti con una parola-accumulo “μέλη ἀρχαιομελισιδωνοφρυνιχήρατα”, e Pa. 829-831143 dove le ψυχαὶ δύ’ἢ τρεῖς διθυραμβοδιδασκάλων sono descritte da Trigeo
ξυνελέγοντ’ἀναβολὰς144 ποτώμεναι | τὰς ἐὐδιαεριαυερινηχέτους145 τινάς.
Ma l’etereità e inconsistente “volatilità” della poesia ditirambica è parodiata in particolare nel grottesco ritratto di Cinesia, il ditirambografo senza dubbio più colpito dagli attacchi dei poeti comici e dalle critiche degli autori della letteratura seria, delineato da Aristofane negli Uccelli, dove il personaggio, in quanto protagonista di una delle note scene di intrusi della commedia, rappresenta per noi anche la sola compiuta testimonianza della vitalità scenica
141 Cfr. Testt. 171a, 173, 178, 179a-c Ieranò e relativo commento. 142 Imperio 1998: 75.
143
T157a Ieranò.
144 Si confrontino le Testt. 157a-b, 158, 159, 160, 161a-b, 162 Ieranò, dove sono usati alternativamente i
termini ἀναβολή e προοίμιον, che in ogni caso non appaiono esattamente sinonimi dal confronto con Pind.
Pyth. 1.4 “ἀμβολαὶ προοιμίων”, benché l’ode pindarica non paia contesto adatto per sottili distinzioni
terminologiche di carattere tecnico; è indubbio, con Ieranò, che i due termini siano quantomeno affini, e sicuro che, da un certo momento in poi, essi siano apparsi identici agli autori antichi (Ieranò 1997: 289).
Su cosa fossero esattamente le ἀναβολαὶ, quindi, le idee non sono chiare. Secondo Comotti 1989: 115, l’ἀναβολή ditirambica, per quanto riguarda il periodo che va dalla metà del V alla metà del IV secolo, doveva essere “una introduzione in versi liberi da responsione, cantata da un solista, che presentava argomenti diversi da quelli di carattere mitologico e narrativo del canto corale, argomenti certamente legati all’occasione del canto e all’attualità”; non abbiamo alcuna traccia di ἀναβολαὶ, ma ciò potrebbe essere facilmente spiegato alla luce del loro forte legame con l’occasione specifica della rappresentazione e del fatto che, non essendo riutilizzabili, potevano non essere conservate insieme con il testo corale. Interessante inoltre l’ipotesi di connessione tra ἀναβολαὶ e la caratteristica “assenza di Dioniso” dai ditirambi bacchilidei, che avremo modo di approfondire nella Parte II: la dedica del componimento al dio avrebbe potuto essere contenuta nelle ἀναβολαὶ che precedevano immediatamente l’esecuzione dei canti e che non ci sono pervenute.
145
ἐὐδι- Bentley: †ἐνδι- tradito. La correzione ἐὐδιαεριαυερινηχέτους è a testo nell’edizione oxoniense di Douglas Olson del 1998.
della maschera del ditirambografo146. La scena dei vv. 1372-1409, che Dobrov definisce
“more festive and playful than critical”, è in realtà volutamente intessuta nel segno di una critica “seria”, in quanto carica di quelle implicazioni di carattere etico e paideutico che abbiamo già visto operanti come terreno ideale nelle diverse formulazioni del giudizio critico platonico147: Cinesia è infatti rappresentato in cielo, dopo essere giunto dalla terra a
Nubicuculia, per ottenere le ali, incastonato tra l’ingresso e la presentazione del Parricida e quelli del Sicofante, evidenti personificazioni della crisi dei valori tradizionali, in quanto simbolo l’una della mancanza di rispetto per i genitori, l’altra delle leggi, esattamente come la maschera del ditirambografo viene a sintetizzare la violazione delle norme poetiche tradizionali e la conseguente degradazione del valore dell’arte musicale.
Cinesia, ai vv. 1372-1375, fa il suo ingresso sulla scena regalando un breve divertente saggio della sua arte:
1375
ἀναπέτομαι δὴ πρὸς Ὄλυμπον πτερύγεσσι κούφαις· πέτομαι δ’ὁδὸν ἄλλοτ’ ἐπ’ἄλλαν μελέων...
...ἀφόβῳ φρενὶ σώματί τε νέαν ἐφέπων.
E a Pistetero, che, al v. 1379, imitando la dizione ditirambica, gli chiede τὶ δεῦρο πόδα σὺ κυλλὸν ἀνὰ κύκλον κυκλεῖς;
Cinesia dichiara solenne di voler diventare un ὄρνις, un λιγύφθογγος ἀηδών (v. 1380). Quando poi Pistetero si fa impaziente e impone all’alato poeta di παῦσαι μελῳδῶν e di spiegarsi chiaramente, Cinesia intona i vv. 1383-1385:
1385
ὑπὸ σοῦ πτερωθεὶς βούλομαι μετάρσιος ἀναπτόμενος ἐκ τῶν νεφελῶν καινὰς λαβεῖν ἀεροδονήτους καὶ νιφοβόλους ἀναβολάς.
Allo stupore di Pistetero che i preludi si possano cogliere ἐκ τῶν νεφελῶν, il cantore, ai vv. 1387-1390, rivela:
146
Cfr. Imperio 1998: 81 e, in particolare, ibid. nota n. 71.
147
Nella critica alla degenerazione della nuova musica, una matrice ideale che coinvolga implicazioni etiche e paideutiche sulla funzione civica della poesia non manca neanche nella commedia, che con Aristofane si fa portavoce pertanto anche di una critica di segno “serio” o, meglio, socialmente impegnato. In Nu. 961-987 la critica alla degenerazione musicale è funzionalmente inserita in un contesto di condanna della mancanza di valori del presente e del decadimento della buona educazione del passato in tutti i campi della vita. Si fronteggiano così i due personaggi di un ΚΡΕΙΤΤΩΝ ΛΟΓΟΣ e di un ΗΤΤΩΝ ΛΟΓΟΣ, e il primo ricorda un tempo in cui, secondo τὴν ἀρχαίαν παίδευσιν, “le cose erano dette secondo giustizia, e i sani pensieri erano norma” (vv. 961-962); vigevano un grande rispetto per l’autorità e le istituzioni, ordine e pudore nella vita di comunità e a scuola erano insegnati disciplina e i saldi valori sociali e politici; “εἰ δέ τις αὐτῶν βωμολοχεύσαιτ’ἢ κάμψειέν τινα καμπὴν | οἵας οἱ νῦν τὰς κατὰ Φρῦνιν ταύτας τὰς δυσκολοκάμπτους, | ἐπετρίβετο τυπτόμενος πολλὰς ὡς τὰς Μούσας ἀφανίζων” (vv. 969-971).
1390
κρέμαται μὲν οὗν ἐντεῦθεν ἡμῶν ἡ τέχνη· τῶν διθυράμβων γὰρ τὰ λαμπρὰ γίγνεται ἀέρια καὶ σκότιά γε καὶ κυαναυγέα καὶ πτεροδόνητα,
prima di lanciarsi, nonostante le proteste dell’ascoltatore, ai vv. 1391-1400, in un nuovo, “alato” saggio della sua musa.
L’arte ditirambica trova dunque ispirazione nelle regioni del cielo, laddove nascono venti e neve, e risulta quindi inafferabile, impalpabile come l’aria, e di conseguenza, oscura, come le nubi, e difficile da interpretare148.
I fenomeni letterari sono tuttavia spesso sorprendenti; e proprio quella dizione così fortemente irrisa e criticata a suon di parodie e dissacranti maschere non tarderà a essere filtrata e recepita da altri generi poetici, secondo quel processo individuato e anche ben delimitato cronologicamente da Dobrov149, per cui da un atteggiamento di critica aperta e
condanna totale, da circoscrivere all’incirca alle commedie degli anni Venti del V secolo, nelle quali trovano più esplicita espressione il tradizionalismo conservatore dell’archaia e, in particolare, la netta contrapposizione tra la musica del buon tempo antico e le degenerazioni di quella nuova, si passa, attraverso una fase di sempre più raffinate e ampie imitazioni parodiche delle innovazioni ritmiche del nuovo ditirambo, comune a tanta produzione comica dell’ultima fase del secolo e parallela anche all’evoluzione e alle influenze che la nuova musica eserciterà anche sull’ultimo Euripide, a una consistente e più o meno consapevole assimilazione della dizione e dello stile ditirambici, operatasi nelle commedie del IV secolo, secondo quello che felicemente potremmo definire quasi un paradosso.