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SVILUPPO ECONOMICO E SQUILIBRI TERRITORIALI I casi dell’Italia e della Cina a confronto

Introduzione

La Cina a partire dal 1980 ha iniziato un intenso processo di sviluppo economico con forti ricadute sociali che ne fa un attore globale in grado di condizionare le dinamiche sia economiche che geopolitiche. Come l’Italia anche la Cina deve confrontarsi con quella che è stata defi nita la “fatalità geografi ca” che condiziona non poco le modalità del suo sviluppo. Il parallelo tra le due situazioni va comunque eseguito con cautela dato che, come è stato notato, lo sviluppo cinese ha modi e tempi di azione suoi propri e diversi dalle modalità occidentali, quindi per noi diffi cilmente comprensibili nella loro interezza quindi rischiano di venire analizzate con criteri inadeguati (Eva 2000, p. 8).

Somiglianze e differenze tra Italia e Cina Differenze geografi che

Italia e Cina differiscono per dimensioni del territorio (rispettivamente 301 km2 e 9.573 mila

km2) e per popolazione (60 milioni di abitanti e 1.346 milioni); sono accomunate dalla diffi coltà

delle comunicazioni, dovute in Cina prevalentemente alla vastità del territorio, in Italia dalla forma lunga e stretta e dalla dorsale appenninica. In entrambi i Paesi lo sviluppo è avvenuto nelle regioni geografi camente meglio orientate: in Italia il Nord-Ovest prima seguito poi dal Nord Est e dal Centro, in Cina le regioni costiere.

In entrambi i casi la trasformazione da economia prevalentemente agricola in sistema industriale e terziario si è manifestata con una forte polarizzazione che ha accentuato le differenze fra le aree in sviluppo e quelle meno favorite. In Italia gli effetti della polarizzazione sono stati fortemente attenuati dalle politiche governative a favore del Mezzogiorno.

Differenze culturali

Alle differenze geografi che tra i due Paesi vanno aggiunte quelle culturali. Nelle diverse regioni del globo la possibilità di entrare in una fase di sviluppo dipende dalle tradizioni, dalla cultura, dalle condizioni sociali dei paesi interessati. La struttura sociale condiziona in modo particolare il passaggio da una società tradizionale alla fase del decollo, cioè il momento fondamentale dello sviluppo. L’infl uenza della religione

I primi a collegare lo sviluppo economico al clima culturale e, in particolare, a quello religioso, furono, come noto, Werner Sombart (Der moderne Kapitalismus e Die Deutsche Wolkwirtschaft im

neunzehnten Jahrunderts) e Max Weber. Quest’ultimo, oltre ad esporre le sue tesi più conosciute

che prendevano lo spunto dal fatto che ai suoi tempi veniva rilevato in Germania il carattere prevalentemente protestante della proprietà, dell’impresa capitalistica e delle élite operaie più colte

(Weber, 1965) 51, ha anche trattato, in altri saggi contenuti, assieme a quello sull’etica protestante, nel

volume Gesammelte Aufsaetze zur Religionsoziologie (Tubinga, Mohr, 1922), di Confucianesimo e

Taoismo, di Induismo e Buddismo, di antico Ebraismo 52.

Per spiegare il successo dell’economia cinese si fa spesso ricorso al confucianesimo e al principio di ordine, gerarchia, obbedienza che ne derivano, al radicato assenso delle classi subordinate a quelle superiori. In Cina (e con essa in altri Paesi asiatici di cultura confuciana) si è poi fatto leva sugli aspetti della tradizione compatibili con la modernità e ad essa funzionali per il loro sviluppo economico; ne sarebbe derivato un esplicito accordo sociale per realizzare, nelle fasi di transizione, il progresso con tecniche moderne. Il modello confuciano è stato visto come “una lezione per tutti i paesi sottosviluppati del mondo su come uscire dall’arretratezza economica”; una lezione che tuttavia non sembra facilmente assimilabile da parte dei paesi che non hanno quel substrato culturale. Malaysia, Thailandia, Indonesia, Vietnam, Filippine, Laos, Cambogia, Myanmar (Birmania) avrebbero quindi un avvenire più incerto perché “non confuciani” (Corna Pellegrini 1998, P. 111).

51 Tesi confutate dal Fanfani con un’opera che ha richiamato notevole attenzione anche in campo internazionale, Catto-

licesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo.

52 Il problema si era già posto nell’antichità, quando i cosiddetti imperatori illirici, Aureliano, Diocleziano e Costantino, intrapresero la colossale impresa di restaurare e riorganizzare l’Impero Romano con una politica accentratrice e auto- ritaria (Luzzatto, 1963, p. 32). Il tentativo ottenne buoni risultati in Oriente, dove il regime dispotico, accentratore e burocratico, di tipo schiettamente orientale si adattava alle abitudini e ai sentimenti di un gran parte della popolazione; in Occidente, al contrario, la pretesa di sacrifi care completamente l’individuo allo Stato, di arrivare ad una vera ele- fantiasi delle funzioni statali, condusse a risultati opposti (Luzzatto, 1963, p. 37).

Gli stessi orientali non sono molto concordi nel valutare l’infl uenza del confucianesimo sulla società, tanto che all’inizio del XX secolo gli intellettuali cinesi identifi cavano in esso l’origine della arretratezza del loro Paese (Huntington, 2000, pp. 151 e 153), ed in particolare di quella economica rispetto all’Occidente. Tra coloro che consideravano il confucianesimo come un ostacolo alla modernità e al decollo dell’economia vi è Lu Xun, il più grande scrittore cinese del Novecento che nel racconto Na Han (Chiamata alle armi) usò una metafora divenuta famosa per descrivere il torpore culturale del suo paese: immaginò “una casa di ferro senza fi nestre, indistruttibile, in cui dormono molte persone, condannate a morire per asfi ssia”. La casa di ferro era il confucianesimo, dal quale lui si augurava che la Cina potesse uscire. La “Chiamata alle armi” era l’appello ai cinesi: svegliatevi che avrete la speranza di uscire dalla casa di ferro. Lu Xun avvertiva che “il richiamo del passato, della sua eredità e della sua ineludibile storia” pesavano ancora molto sulla Cina (Fumagalli 2009, p. 37). Non vi è dubbio che l’insegnamento di Confucio e dei suoi discepoli abbia non poco contribuito a dare rigidità alla società cinese: teorizzando la complementarietà di chi “bene comandando” serve il popolo e di chi, “bene ubbidendo” acquista meriti sociali e personali, ha molto infl uito nel conservare quasi intatta attraverso i millenni la dicotomia della struttura sociale, con le classi superiori nettamente separate dal resto della popolazione (Corna Pellegrini, 1998, p. 11).

Utilitarismo ed economia

In Italia, come in genere nei Paesi occidentali, si sono affermati i principi dell’individualismo, del liberismo, dell’utilitarismo, in aperta polemica con la tradizione medievale dei diritti naturali, che attribuiva a ognuno una collocazione come parte di gruppi organizzati, con obblighi e diritti ben stabiliti. L’utilitarismo è una disciplina che identifi ca la felicità con l’utilità individuale; la sua formulazione classica risale a Jeremy Bentham, con importanti anticipazioni in Cesare Beccaria. Al suo rapido sviluppo concorse la stretta connessione con l’evolvere della teoria economica moderna, frutto del pensiero occidentale: un legame che cominciò a manifestarsi con la scuola classica. Furono poi i marginalisti e soprattutto Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras a sottolineare che il comportamento umano consiste in un calcolo razionale mirante a rendere massima l’utilità.

La diversa concezione del diritto

Diversa è, nei due Paesi, la concezione del diritto, elemento fondamentale per lo sviluppo economico. In Italia, come in tutte le democrazie occidentali, liberismo (economico) è venuto prima del liberalismo (politico); per creare un sistema di mercato ben funzionante infatti lo Stato deve rispettare alcuni diritti individuali basilari, quali l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto di proprietà, la certezza del diritto, che sono parte integrante di un sistema democratico.

Ciò che gli occidentali considerano “diritto” in senso formale è sempre stato estraneo alla Cina, dove il “diritto”, fi no a qualche decennio fa, era costituito da usi consuetudinari e pratiche rituali, legati alla fi losofi a confuciana. I primi codici, predisposti all’inizio del Novecento sull’impronta dei modelli occidentali, non entrarono mai in vigore; neppure con la rivoluzione maoista si è voluto sopprimere quel substrato, considerato uno dei caratteri del modello asiatico. La fase attuale è di transizione: accanto alla tradizione si sono introdotte le prime leggi speciali, tra le quali quella sui contratti, e si è predisposto un codice civile. E’ quindi diffi cile, almeno per ora, ascrivere il “diritto

cinese” a una delle famiglie dei sistemi giuridici vigenti nel mondo 53.

Molto spesso ci si interroga sulla relazione che intercorre tra sviluppo economico e regime politico. Il sistema industriale moderno, nato in Inghilterra, si è diffuso negli Stati Uniti, in Australia, in Canada, tutti paesi che condividono regimi liberal-democratici simili a quello inglese. Sul continente europeo tuttavia lo si ritrova, oltre che in Francia, anche in paesi come Germania e Austria-Ungheria, che se ne discostano non poco, per non parlare dell’Impero Russo, dove prima della Rivoluzione di Ottobre l’industrializzazione era già stata iniziata. In tempi a noi più vicini i problemi relativi al legame tra democrazia politica, libero mercato e sviluppo economico si fanno più complessi. Germania, Italia e Giappone tra le due guerre, e poi Taiwan, Corea Meridionale, Singapore, Cina offrono esempi di sviluppo economico accelerato con regimi politici non democratici. La teoria che i regimi autoritari siano più adatti di quelli democratici per promuovere la crescita economica trova il suo fondamento nel fatto che nelle prime fasi dello sviluppo sono necessari, soprattutto da parte delle classi più povere, sacrifi ci, che diffi cilmente potrebbero venire accettati in modo spontaneo; una tesi ripresa di recente (ZAKARIA, 2004). In Italia fra il 1860 e il 1880 il processo di accumulazione fu reso possibile dall’accrescimento delle rendite (percepite dai proprietari terrieri) e dei profi tti (di pertinenza degli imprenditori) mentre i salari e il potere di acquisto delle masse rurali rimanevano stazionari. Una soluzione che certo

53 LUIGI MOCCIA, Il diritto in Cina. Tra ritualismo e modernizzazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 258, euro

non risponde ai principi di equità, ma che sicuramente garantisce l’effi cienza del sistema e che è stata possibile in un periodo storico in cui l’elettorato era limitato a un numero ristretto di elettori censitari (Salvatorelli 1971,P. 61).

Il problema del Mezzogiorno in Italia

Lo sviluppo economico italiano è cominciato nel Nord-Ovest (il “Triangolo” Milano-Torino- Genova) per poi estendersi al Nord-Est e a parte del Centro (Marche e Toscana) ma senza arrivare al Mezzogiorno il cui distacco dal Centro-nord cresce anziché ridursi.

Alla base del problema del Mezzogiorno italiano vi è senza dubbio la “fatalità geografi ca” che riguarda sia la posizione – la lontananza dai Paesi europei più avanzati, con i quali il Nord invece era, ed è, in contatto - che l’orografi a. Una rete idrica assai irregolare, il regime torrentizio dei fi umi, la scarsità delle aree pianeggianti (il 18,3% al Sud e il 34,95 al Nord), la natura argillosa o pietrosa delle montagne hanno fatto si che solo nella pianura irrigua padana si potesse formare un surplus di capitale agrario da investire nell’industria (la cosiddetta accumulazione primitiva teorizzata d Marx). Né il Mezzogiorno può sperare di raggiungere un alto grado di benessere grazie all’agricoltura e alle attività terziarie come avviene in Danimarca e in talune regioni agricole degli Stati Uniti, perché il rapporto tra spazio e popolazione è sfavorevole e lo sviluppo dell’agricoltura incontra i limiti dati

dalla geografi a 54.

Riduzione del divario e tasso di sviluppo. Negli anni cinquanta del secolo scorso molti pensavano che si dovesse ridurre il divario del Mezzogiorno con il resto del Paese. Si trattava, in realtà, di una illusione: ad un saggio nazionale di incremento del PIL (allora) del 5%, per raggiungere l’obbiettivo in venti anni sarebbe stato necessario un aumento annuo nelle regioni meridionali del 7,6%. Cosa impossibile, sia perché per ragioni geografi che (ma anche storiche e sociali) lo sviluppo aveva luogo nel Nord-ovest, sia perché lo sviluppo stesso esercitava una funzione fortemente polarizzante, con migrazioni e trasferimenti di capitali.

Nell’ipotesi che nel prossimo ventennio l’Italia abbia un incremento dell’1% annuo, il tasso necessario al Mezzogiorno per eliminare il divario sarebbe del 3,6%. Un tasso certo elevato data la crescita limitata del paese e il processo di terziarizzazione che arresta la parziale industrializzazione del Sud; vi sarebbe tuttavia il vantaggio della mancanza dell’effetto polarizzante di aree in rapida crescita. Se per il periodo si ponesse l’obbiettivo più modesto di ridurre della metà il divario, la crescita necessaria per il Mezzogiorno sarebbe del 2,5% circa.

Il ruolo delle infrastrutture. Per molto tempo si pensò che il problema del Sud fosse anzitutto una questione di infrastrutture. È certamente vero che in generale le infrastrutture sono, assieme al lavoro e al capitale, uno dei fattori dello sviluppo economico e industriale, che dipende da esse soprattutto per i trasporti, l’energia, le comunicazioni. L’esperienza mostra tuttavia che il rapporto tra infrastrutture e sviluppo non è univoco. Le infrastrutture sono una causa necessaria ma non suffi ciente: se non vi può essere sviluppo senza infrastrutture non è altrettanto vero che le infrastrutture, con la loro stessa presenza, diano senz’altro luogo allo sviluppo. La correlazione fra i due è poi tutt’altro che stretta: vi sono infatti casi di aree economicamente sviluppate che dispongono di infrastrutture giudicate insuffi cienti e dove le stesse vengono costruite per la pressione degli operatori. Al contrario non sono pochi i casi in cui le dotazioni di infrastrutture corrispondono a livelli di sviluppo modesti.

Regioni costiere e regioni interne in Cina

A differenza dell’Italia, dove Nord, Centro e Sud sono relativamente equilibrati sia per quanto riguarda la superfi cie che la popolazione, le otto regioni costiere più sviluppate della Cina (Guangdong, Shandong, Liaoning, Fujian, Zhejiang, Bejing, Tianjin, Jiangsu) hanno complessivamente una superfi cie di 757.400 chilometri quadrati, pari al 7,88% della superfi cie complessiva della Cina di 9.572.900 chilometri quadrati.

All’estremo opposto le regioni meno fortunate, Tibet, Xinjiang, Qinghai, Ningxia e Gansu a ovest e Guizhou e Guangxi a sud, che un quarto di secolo fa l’Economist defi niva “China’s badlands” e che hanno una superfi cie complessiva di 4.416.400 chilometri quadrati, pari al 46% della superfi cie totale nazionale.

Nel nord-est un caso particolare è costituito dalle tre province di Liaoning, Jiling e Heilongjiang, note all’estero come Manciuria (da dove è venuta la dinastia Qing (1644-1911) e per i cinesi come

dongbei (letteralmente la terra oltre la Muraglia) che ancora qualche decennio fa con una popolazione

pari al 10% del totale nazionale aveva una produzione manifatturiera del 15%, quota che saliva al 20% nel caso dell’industria pesante. Ricche di materie prime quali il petrolio e carbone, furono scelte per installarvi l’industria pesante; la successiva riduzione delle risorse naturali e l’obsolescenza delle industrie pesanti ne ha fatto un’area depressa. Non mancano i tentativi per uscire da questa situazione: in particolare nel Liaoning si investe nei settori ad alta tecnologia e si registrano insediamenti di imprese quali la Toshiba, la HP, la Panasonic, la Mitsubushi, la Sanyo, la Siemens Fumagalli 2009, p. 116). A differenza delle regioni occidentali, il cui problema, il sottosviluppo, è analogo a quello

del Mezzogiorno italiano, le tre province del dongbei sono diventate regioni depresse, un caso molto simile a quello che qualche decennio fa si era presentato in alcune regioni della Gran Bretagna.

Per molto tempo l’industria manifatturiera cinese ha potuto contare su un bacino pressoché illimitato di manodopera a basso costo, ma la situazione sta ormai cambiando rapidamente. È questo un argomento che merita particolare attenzione perché in Cina l’aspetto geografi co, che il Lewis, nel suo celebre saggio aveva lasciato in secondo piano, assume notevole importanza a causa delle dimensioni, della concentrazione dello sviluppo economico nelle regioni costiere orientali, della distanza che separa le aree meno fortunate da quelle sviluppate. Ne è prova il fatto che contadini delle regioni occidentali dell’interno, che in una situazione diversa potrebbero ancora costituire mano d’opera aggiuntiva per l’industria, sono scoraggiati dal trasferirsi a migliaia di chilometri di distanza.

Bibliografi a

Giacomo Corna Pellegrini 1998, P. 111).

Fabrizio Eva, Cina e Giappone. Torino, UTET Libreria, 2009

Mario Fumagalli, Nuova geografi a delle macro regioni, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2009

Samuel P. Huntington, 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, 2000, trad. it., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti,2000,

Gino Luzzatto, Storia economica d’Italia. Il Medioevo, Firenze, Sansoni, 1963

Luigi Moccia, Il diritto in Cina. Tra ritualismo e modernizzazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2009 Alberto Ronchey, Accadde in Italia 1968-1977, Milano, Garzanti, 1977

Marzia Marchi

Dip. di Storia e Culture Umane-UNIBO

RELAZIONI MARITTIME FRA CINA E ASIA SUD ORIENTALE: LE