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La natura fatale del Femminile

2.1. Tante donne, un solo mito

“THE WESTMINSTER GAZETTE”, 25 SETTEMBRE

IL MISTERO DI HAMPSTEAD

La popolazione di Hampstead è attualmente turbata da una serie di eventi che ricordano as-sai da vicino quelli noti ai compilatori di titoli come “L’orrore di Kensington” oppure “La don-na col pugnale” o “La donna in nero”. Durante gli ultimi due o tre giorni, si sono verificati pa-recchi casi di bambini che si sono allontanati da casa oppure non sono rientrati dai loro giochi nella brughiera. Si trattava sempre di bambini troppo piccoli per fornire spiegazioni accettabili, ma tutti sono concordi nell’accampare la scusa di essere andati con una “bella signora”. Sono sempre scomparsi verso sera, e in due occasioni sono stati ritrovati soltanto la mattina dopo. […].

Può darsi tuttavia che la faccenda abbia un risvolto più serio, perché alcuni bambini, preci- samente quelli che sono stati assenti tutta la notte, risultano leggermente graffiati o feriti alla gola. Le lesioni si direbbe siano state prodotte da un ratto o da un cagnolino e, sebbene il fatto non ab-bia molta importanza in sé, d’altro canto dimostrerebbe che l’animale, quale che sia, che le inflig-ge, segue un suo proprio sistema o metodo. La polizia del distretto ha avuto ordine di tenere gli occhi aperti, nel caso che si imbattessero in bambini sperduti, soprattutto se molto piccoli, sulla brughiera di Hampstead e dintorni, e in cani randagi.

“THE WESTMINSTER GAZETTE”, 25 SETTEMBRE EDIZIONE STRAORDINARIA

L’ORRORE DI HAMPSTEAD UN ALTRO BAMBINO FERITO LA “BELLA SIGNORA”

Ci informano in questo momento che un altro bambino, scomparso la notte scorsa, è stato ritrovato nella tarda mattinata […]. Il piccolo prsenta la stessa minuscola ferita alla gola già riscontrata in altri casi. Era debolissimo e appariva assai emaciato. Anch’egli, non appena si è in parte ripreso, ha raccontato la solita storia, di essere stato cioè adescato dalla “bella signora”340.

DIARIO DEL DOTTOR SEWARD (28 settembre - Continuazione)

…C’è stata una lunga pausa di silenzio, un grande, tormentoso vuoto, poi il professore [Van Helsing] ha emesso un acuto sibilo e ha puntato un dito verso il fondo del viale [del cimitero di Kingstead] dove, tra i tassi, vedevamo avanzare una bianca figura - una candida , sottile figura, che teneva fra le braccia qualcosa di scuro. La figura si è arrestata, e in quel preciso istante un raggio di luna è filtrato tra i cumuli di nuvole in corsa, rivelando, con sorprendente chiarezza, una donna dai

capelli scuri, avvolta nel sudario. Non si scorgeva il viso, chino com’era su quello che ora ve-devamo essere un bimbo dai capelli biondi. Nel silenzio, s’è levato un gridolino acuto, come quel-lo che un bambino può emettere nel sonno, o un cane quando dorme e sogna davanti al fuoco. […] la bianca figura ha ripreso ad avanzare. Era adesso abbastanza vicina perché la scorgessimo distintamente, né la luna era tornata a nascondersi dietro le nuvole. Mi sono sentito il cuore farmisi di ghiaccio, e ho udito distintamente l’ansito di Arthur [Holmwood], quando abbiamo riconosciuto i tratti di Lucy Westenra. Sì, Lucy Westenra, ma quanto cambiata! La dolcezza si era tramutata in crudeltà adamantina, spietata, e la purezza in voluttuosa oscenità. […]. Van Helsing ha sollevato la lanterna e ha scostato lo schermo; e al raggio di luce concentrata sul volto di Lucy, abbiamo constatato che le labbra erano rosse di sangue fresco che le gocciava lungo il mento, macchiando la purezza del candido sudario.

Un brivido di orrore ci ha colto. Mi avvedevo, dal tremolare della luce, che anche i nervi d’acciaio di Van Helsing avevano ceduto. Arthur mi stava accanto e, non lo avessi afferrato per il braccio sostenendolo, sarebbe crollato.

Quando Lucy - chiamo così la cosa che ci stava di fronte, perché di Lucy aveva l’aspetto - ci ha visto, si è ritratta con un soffio iroso, come un gatto colto di sorpresa; poi il suo sguardo è corso dall’uno all’altro. Gli occhi di Lucy, tali per forma e per colore: ma gli occhi di Lucy im-puri, accesi del fuoco dell’inferno, in luogo delle pure, dolci pupille che conoscevamo. E in quel momento, quanto restava del mio amore si è trasformato in odio e disgusto; se fosse stato neces-sario ucciderla, l’avrei fatto con selvaggio godimento. Ci guardava, gli occhi scintillanti di luce perversa e il volto atteggiato a un voluttuoso sorriso. Mio Dio, che fremito d’orrore nel notarlo! Con gesto distratto ha gettato a terra, insensibile come un demonio, il bambino che fino a quel momento aveva tenuto cocciutamente stretto al seno, ringhiando come un cane che veda minac-ciato il suo osso. Il bambino ha emesso un alto grido, ed è rimasto lì, a gemere piano. C’era una gelida indifferenza, in quell’atto, che ha strappato un rantolo ad Arthur; e quando Lucy è venuta verso di lui, a braccia tese e con un sorriso lùbrico, è indietreggiato, celandosi il volto tra le mani.

Ma lei ha continuato ad avanzare e con languida, voluttuosa grazia, lo ha invitato:

“Vieni a me, Arthur. Lascia questi altri e vieni da me. Le mie braccia hanno fame di te. vieni, potremo riposare insieme. Vieni, mio sposo, vieni!” C’era, nel suo accento, alcunché di dia- bolicamente dolce, qualcosa che ricordava un tintinnìo di cristalli, che penetrava anche nel nostro cervello, benché le parole fossero rivolte a un altro. Quando ad Arthur, sembrava stregato; toglien-dosi le mani dal volto, ha spalancato le braccia. Lei stava per gettarsi tra esse, quando Van Helsing è balzato in avanti, ponendo tra i due il suo piccolo crocefisso d’oro. Lucy si è ritratta a quella vi-sta e, con il volto improvvisamente contorto, in preda all’ira, gli è scivolata ratta accanto in dire-zione della tomba.

Ma, a forse mezzo metro dal cancello, si è arrestata come se a bloccarla fose stata una forza irresistibile. Quindi si è girata, e il suo volto è apparso chiarissimo alla luce della luna e della lan- terna, che non aveva più il minimo tremito grazie all’autocontrollo di Van Helsing. Mai, mai ho visto una così frustrata perfidia dipingersi su un volto; e mai, io credo, occhio umano potrà veder-la. Il bel colore si è fatto livido, gli occhi sono parsi sprizzare scintille di fuoco infernale, le so-pracciglia erano corrugate quasi che le pieghe della carne fossero le spire delle serpi di Medusa, e la bella bocca lurida

di sangue si è spalancata in un quadrato nero, come nelle maschere orripilanti dei greci e dei giapponesi. Se mai un volto ha espresso morte - se mai sguardi potessero uccidere - ecco, in quel momento l’abbiamo avuto sott’occhio.

E per un intero mezzo minuto, che è parso un’eternità, colei è rimasta immota tra il croce-fisso levato e la sacra chiusura dell’accesso alla sua dimora…

(29 settembre, notte)

…Quando [il professor Van Helsing] ha nuovamente sollevato il coperchio della cassa di Lucy, tutti vi abbiamo guardato dentro […] e abbiamo visto la salma che vi giaceva nella sua mortale bellezza. Non c’era amore nel mio cuore, ma soltanto odio per l’immonda Cosa che aveva assun-to le sembianze di Lucy senza averne l’anima. Ho visto persino il volto di Arthur indurirsi mentre guardava. […].

Sembrava, quello che avevamo sott’occhio, un fantasma di Lucy; i denti aguzzi, la bocca voluttuosa unta di sangue - una vista da far vacillare -, quell’intera sembianza, di carne priva di spirito, sembrava una diabolica contraffazione della dolce purezza di Lucy341.

Il romanzo di Bram Stoker (1897) ha introdotto per la prima volta la figura del vampiro, per così dire, “urbanizzato”, ma costituisce soprattutto un condensato non trascurabile del lavoro di tra-sformazione che la pittura, la letteratura e la filosofia ottocentesche (romantiche prima, decadenti poi) hanno compiuto sulle donne, metamorfosi magnificamente esemplificata - nell’opera in questione - dal personaggio di Lucy Westenra, la quale, dalla passiva posizione di donna angeli-ca e verginale - quella presente in quasi tutti i romanzi gotici dell’epoca - passa a quella di de-mone assetato di sangue, in particolare infantile, caratterizzato da una sessualità aggressiva e mortifera. Si tratta di una rivoluzione giunta al proprio culmine in ambito letterario (e che ha in precedenza trovato, fra i suoi principali sostenitori, o meglio, fra coloro che ne hanno abbracciato la visione, artisti del calibro di Baudelaire, Wilde, Keats, Rossetti) ma, contemporaneamente, del-l’ennesima, ragguardevole tappa, di un percorso a ritroso nel tempo, finalizzato alla scoperta di una figura mitica che è giunta fino ai nostri giorni passando attraverso successive elaborazioni, appartenenti specialmente all’intricato universo delle fiabe e delle leggende. La stessa infanzia di Stoker è stata fortemente segnata dai racconti tradizionali narratigli dalla madre, inoltre anch’egli scriverà testi destinati ad un pubblico infantile e ispirate a quelle favole dal sapore antico, testi in cui si parla di morte e di orrore accanto a preziose virtù cristiane.

Le rappresentazioni mitiche del femminile sono, infatti, strettamente legate alle bipolarità delle rappresentazioni infantili della donna, intesa come colei che nutre e ama, ma anche come colei che può uccidere e usare il prossimo come nutrimento (in senso letterale, oltreché figurato). Terminato il periodo contraddistinto da donne-Justine di desadiana memoria, il nuovo potere femmineo è un potere devastante, bestiale, istintuale. Questo potere che è, al contempo, creazio-ne-distruzione, unito ai primi sentori di femminismo ottocentesco,

rafforza negli uomini un sen-so di angoscia di fronte agli sviluppi della nuova società che, in una prospettiva maschile, è se-gnata da una lenta ma graduale perdita di supremazia, sia nel mondo degli affari che in quello familiar-sessuale.

Dalla misteriosa Grande Madre preistorica e protostorica, alle sue potenti ipostatizzazioni nelle religioni dell’antichità (dee della terra e della natura feconda tra leoni ruggenti, pótnie ar-mate, insieme vergini e meretrici, amanti sacre di re sacrificati, signore della notte triformi o di-stinte in nomi diversi, echeggiati da diverse tradizioni e quindi rappresi in sistemi teologici equi-vocamente unitari), nella donna si è sempre ravvisata con ammirazione, ma soprattutto con ti-more, una creatura “mostruosa”, una divinità dai caratteri inquietanti, divoranti, nel cui seno - culla di vizi e di virtù - risiedeva la totalità dell’essere, una potenza ambivalente, contemporanea-mente benefica e malefica, e, in quanto tale, assolutamente indecifrabile342.

L’origine della Femme Fatale si perde nelle nebbie del tempo, ed è soltanto parzialmente rintracciabile nelle tetre varietà demoniache al seguito di Ècate, regina degli spettri e delle appari-zioni notturne e spaventose (proprio come Persefone, la cui madre Demetra è spesso considera-ta anche madre di Ècate). Il suo nome può risalire a “Hekatón”, cioè “cento”, perché tale era il numero dei mesi lunari durante i quali il frumento cresceva e veniva raccolto. La dea greca più strettamente rapportata alla Luna non viene sentita, al suo apparire nella mitologia preolimpica, come entità oscura e simbolo del proibito, anzi, nell’immaginario collettivo è personificata da una leggiadra fanciulla - assai simile all’omerica Circe - per quanto già dotata di una figura triforme (una probabile analogia simbolica con le tre fasi lunari espresse in una, in quella che successiva-mente, si indicherà come “Luna Nera”), nella quale forza creatrice e potere distruttivo si bilan-ciano perfettamente. Soltanto in un secondo tempo, attraverso una metamorfosi che permane tut- tora inesplicabile, l’ombra prende il sopravvento sulla luce ed Ècate-Kore, si trasforma prima in Ècate degli Inferi - l’enigmatica guida del mondo ctònio recante in ogni mano una fiaccola ine-stinguibile - e poi, a causa della perdita progressiva di gran parte dei suoi caratteri umani, nella spaventosa creatura teriomorfa o ibrida a cui verrà attribuito il titolo di “Kyon mélaina”, cioè di “cagna nera” e che verrà raffigurata da tre donne unite per il dorso in una sorta di triangolo, o da un’unica donna con tre teste: una di cane rabbioso (da cui il suddetto epiteto), una di vacca e una di leone. Altre rappresentazioni le conferiscono una delle tre teste di cavallo, il che è ricondu-cibile alla sfera erotico-incestuosa della Madre. Questa nuova immagine attira sulla dea le emo-zioni più violente, scatena i sentimenti di panico più terrificanti: essa viene ritenuta il mostro che costringe i morti insepolti a vagare per cento anni lungo le rive dello Stige, l’oscura entità che presiede alla magia e agli incantesimi, l’inventrice della stregoneria. Come maga, Ècate sovrin-tendeva ai crocicchi (definiti anche

“trivî”), luoghi “magici” per antonomasia: qui veniva ulula-to il suo nome, qui veniva solitamente innalzata la statua a lei dedicata, di colore nero, che riceve-va offerte propiziatorie. Ècate campeggiava dunque nelle strade e il suo potere aumentava e si palesava pienamente soltanto dopo il tramonto - proprio come quello dei revenants -, quando le tenebre scendevano sulla terra. Il suo culto, costituito da sacrifici animali (pecore e cani preva- lentemente, ma alcune fonti sostengono che venissero immolati anche dei neonati), si attuava alla fine di ogni ciclo lunare. Erano i tempi delle tragedie greche, in particolare dell’Edipo di Sofocle, nelle quali si avvertiva la presenza dell’aspetto negativo della madre come ostacolo alla realizza-zione della virilità. Ècate appariva, allora, sia come figura materna impositiva, che come irresi-stibile tentazione allo sfogo degli istinti sessuali, rafforzando il pluricelebrato connubio Éros / Thánatos. Solo in epoca più tarda divenne anche la custode dei segreti della magia, quindi la protettrice delle streghe fino a Macbeth e oltre. Esistevano precisi rituali - chiamati “Misteri di Ècate” - che rimasero vivissimi anche ai tempi delle conquiste romane

343. Ma le creature della mitologia greca che meglio si avvicinano al terribile mito della donna

fatale sono le Empúse (il cui nome significa, letteralmente, “coloro che afferrano” o “coloro che si introducono a forza”), le numerose serve ubbidienti di Scilla (“colei che dilania”), fi-glia della stessa Ècate (che poteva apparire con la bocca infuocata), le “cagne nere” della Si-gnora della Notte. Per quanto riguarda il loro aspetto fisico, sono state descritte in svariati modi: con testa e torace umani, braccia animalesche e capelli come serpi attorcigliate e sibilanti. Le di-scordanze compaiono soprattutto quando si passa alla parte inferiore del corpo, dove si trovano, a seconda delle fonti, natiche equine (precisamente d’asina, per indicarne la lussuria, di cui l’animale è simbolo), grigie e ruvide, una gamba di bronzo pesante e una d’asina e un piede che termina ad artiglio d’aquila o a zoccolo di cavallo (alcune versioni le conferiscono adddirittura una gamba di sterco d’asina). Questa accentuazione dei tratti equini è dovuta - come si è detto - alla simbologia dell’asino, che associa questo animale - una delle rappresentazioni di Saturno, nella triplice accezione di lussuria / avarizia / morte - all’oscurità, alle tendenze sataniche e, spesso, alla lascivia e alla sfrenatezza sessuale. Le Empúse, secondo le fonti classiche, calzano una pianella d’oro, diversamente da Ècate che, come Persefone (Luna Oscura) e Afrodite (Luna Bianca), portava sandali d’oro, particolare che distingueva la sua origine olimpica di Kóre, di “dea fanciulla”, centrata, cioè, sull’archetipo lunare. Questi mostri potevano cambiare anche aspetto - da fanciulla bellissima, in grado di sedurre anche a distanza, a cagna, vacca, giumenta od orribile orchessa - ma soltanto in presenza della luna la metamorfosi in fanciulla sensuale aveva l’esito migliore344. Si potrebbe quasi immaginarle come le donne dipinte, alla fine del XIX

seco-lo, da Franz von Stuck, nelle 18 tele intitolate Le Péché (tra cui quelle datate1893) o nelle diverse versioni - a olio e a stampa - di Sensualité (tra le quali i dipinti datati 1891 ca. e 343 Cfr. P. GRIMAL, op. cit., p. 178.

la stampa datata 1898): creature bianche, nude e sinistre, capaci di turbare profondamente l’animo umano nel loro erotismo carnale avvolto da scaglie di serpente. Ne Le Rane di Aristofane si assiste al dialogo di Dioniso con il suo servo Xantia, dopo che questi hanno attraversato il lago Acherusia, e, per la prima volta, il dio in questione appare sconvolto di fronte all’orrore e rischia la pazzia (un “do-no” molto spesso elargito da questi demoni femminili, accanto alle visioni mistiche):

XANTIA Perdio, ecco un mostro gigantesco.

DIONISO (atterrito) Com’è?

XANTIA Tremendo; e prende tutte le forme, ora bue, ora mulo, ora donna

bellissima.

DIONISO (baldanzoso) Dov’è, che mi ci fiondo?

XANTIA Ma già non è più donna, è un cane.

DIONISO Allora è l’Empúsa!

XANTIA In effetti ha tutto il viso in fiamme.

DIONISO E una gamba di bronzo?

XANTIA E l’altra di escrementi.

DIONISO Dove posso scappare?

XANTIA E io?345.

“[Le Empúse] - nota Ornella Volta - appaiono in Grecia a mezzogiorno in punto, dentro ad un otre pieno di sangue. Sono figlie di Ècate, la dea della Notte e dei Morti”346. Questi demoni vi-

vevano di preferenza nei boschi o nei crepacci, da cui uscivano soltanto di notte, o durante la sie-sta pomeridiana, bramose di carne umana o assetate di sangue di fanciulli come le Chere, gli spi-riti maligni dei campi di battaglia che si disputavano i cadaveri dei caduti per berne, appunto, il sangue. Ma potevano anche comparire improvvisamente nei crocicchi, terrorizzando i viandanti, avvolte in vesciche sanguinolente e portate da carrozze trainate da cani latranti. Al loro sorriso non si poteva resistere e aggredivano le mogli e i figli per avere i mariti. L’unico sistema per scacciarle consisteva nell’inveire e nel prorompere in insulti contro di loro, poiché, all’udirli, esse fuggivano emettendo urla disumane (simili a quelle di alcuni uccelli notturni). Se si presentavano come donne, allora penetravano nelle stanze dove dormivano gli uomini più giovani della casa, sempre di notte o durante la siesta pomeridiana347, li seducevano e succhiavano loro tutte le forze vitali (inutile specificare in

345 ARISTOFANE, Le Rane, in Le Commedie, Torino, Einaudi, 1972, p. 478, vv. 288-298.

346 O. VOLTA, Il Vampiro, Milano, Sugar, 1964, p. 205.

347 Il fatto che le Empùse agiscano anche alla luce del giorno non riveste alcun significato particolare. Bisogna tenere presente che siamo nell’antica Grecia: qui, le ore meridiane conciliano l’apparizione di questo tipo di demoni, a causa del caldo soffocante che impedisce agli uomini di svolgere qualsiasi attività, al pari delle lunghe notti dei paesi del Nord

quale prezioso umore fosse contenuta la vita!) schiacciandosi contro il loro corpo; infine, li costringevano ad estenuanti amplessi, ai quali questi non riuscivano più a sottrarsi, se non con la morte348.

All’Empúsa si unisce più tardi Làmia, mostro simile alle Sirene e alle Arpìe, dal corpo di rettile alato e dal busto e dalla testa di donna. Il suo nome pare discendere dall’aggettivo

lamyrós (“ingordo”), a sua volta derivato dal sostantivo laimós (“gola”): il senso da intendere

è certo quello di donna famelica, avida, lussuriosa o viziosa. La sua leggenda nasce precisamente in Li-bia: figlia bellissima del re Belos (già nel nome Belo non è difficile scorgere una connessione col Belial di Lilith), amata da Zeus con cui generò vari figli, venne colpita dalla gelosia di Èra che, per vendicarsi, fece in modo che tutta la sua prole morisse strangolata (solo Scilla, il mostro situato nello stretto di Messina di cui narra l’Odissea, riuscì a scampare alla furia della dea) e la trasformò, in un primo tempo, in una mostruosità canina. Come reazione Làmia andò a nascon-dersi in una caverna e, per la disperazione, si abbandonò alla vita selvaggia. Falsamente accusata di essere stata una madre snaturata che aveva divorato i propri bambini e gelosa delle madri più felici di lei, delle quali spiava i figli, iniziò a esercitare un’eterna rappresaglia sulla progenie altrui, in particolare sulle donne gravide (divenendo, in tal modo, parziale giustificazione di certe morti in utero) e sui neonati, che cullava teneramente fra le braccia, privandoli al contempo del sangue e, alla fine, ingoiandoli. Nell’Ars Poetica di Orazio, si legge come, squarciando il ventre di Làmia, sia possibile

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