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2.2 Nel tribunale inquisitoriale: reato di bigamia e doppia identità 1 La verità di Francesco Bonamin

2.2.3 Tarsia alias Laura Malipiero

Per quanto riguarda il cambio di nome, le testimonianze a favore dell’imputata evidenziarono che fosse stato il marito, perfettamente a conoscenza del suo passato, ad aver fatto in modo che tutti la chiamassero Laura. D’altronde non era affatto dispiaciuto

Hacke, Women, Sex and Marriage, pp. 125-130; in Seidel Menchi, Quaglioni, Coniugi nemici

92

vedi in particolar modo Seidel Menchi, I processi matrimoniali pp. 92-94; Quaglioni,

«Divortium a diversitate mentium», pp. 114-116; Ferrero, Coniugi nemici: Orsetta, Annibale e il compito dello storico (Venezia 1634), pp. 146-149;

Anna Esposito, Convivenza e separazione a Roma nel primo Rinascimento, in Seidel Menchi,

93

Quaglioni, Coniugi nemici, p. 507.

Romano, Patrizi e popolani, p. 63; ASV, SU, b. 87 testimonianza di Agnesina, 18 aprile 1630.

dall’idea di esser sposato con una Malipiero, tanto che secondo la dichiarazione di Antonio Ragazzoni «faceva far bollette e pegni et altro sotto il nome di Laura Malipiera, perché lui si invaghiva che corresse che lui avesse per moglie una gentildonna veneziana». In realtà sulla base di alcune affermazioni della donna, rilasciate a 95 distanza di anni, quando cioè si trovò per la seconda e la terza volta faccia a faccia con l’inquisitore, si può supporre fossero stati il nonno di Laura o lo zio materno Marcantonio Malipiero ad aver avuto quell’idea, probabilmente per darle autorevolezza e legittimazione in una società in cui avere un cognome importante aveva un peso da non sottovalutare:

Mi chiamo anco con altro nome cioè Tarsia figlia di Teodorin da Rodi et questo nome l’ho conservato per molto tempo chiamandomi Tarsia, ma perché mia madre fu figlia naturale di Giovanni Paolo Malipiero, era gentiluomo veneto, volse detto mi chiamassi con detto nome di Laura Malipiero. 96

Le identità di Laura e Francesco sembrano plasmarsi nel corso dei processi, in base alle testimonianze e alle deposizioni degli stessi protagonisti. Sono identità processuali quindi quelle che si attribuiscono a vicenda e che via via si definiscono arricchendosi di nuovi particolari. Le immagini contrastanti che di essi emergono dalla documentazione nascondono senz’altro individualità più articolate, vicende e strategie personali inespresse. Ciò che però sembra emergere in maniera piuttosto chiara, è la flessibilità, l’adattabilità ai cambiamenti di queste identità che non appaiono, soprattutto quella di Tarsia, mai uguali a se stesse, tanto da risultare difficili da inquadrare socialmente e da ingabbiare nel «rigido complesso di regole morali imposto dalla società dell’epoca». 97 Acquisire il cognome della madre anziché del padre ad esempio significò per la donna collocarsi ancora una volta in uno spazio che la società non aveva previsto, porsi dunque al di fuori delle classificazioni abituali e comunemente accettate.

ASV, SU, b. 87 testimonianza di Antonio Ragazzoni, 21 aprile 1630.

95

Ibidem, costituto Laura Malipiero, 5 febbraio, 1654.

96

Andreato, Il reato di bigamia, in «Acta Histriae», p. 475.

Il cambiamento di nome per Tarsia coincide senza dubbio con un mutamento radicale di identità, un momento di transito e di trasformazione, che consistette di fatto nel matrimonio contratto con Francesco Bonamin. La donna fu inserita nei registri matrimoniali della parrocchia di Santi Apostoli come Laura Malipiero e con quel nome iniziò a farsi chiamare da amici, parenti e vicini, costruendo nuove reti di relazioni e cercando di integrarsi il più possibile in un ambiente sociale e culturale a tratti diverso a tratti del tutto simile a quello che l’aveva vista crescere. La rottura con il passato diventò necessaria poiché, al di là di chi ne fosse stato il responsabile, in Patriarcato furono interrogati dei falsi testimoni, ma non ci fu mai una frattura definitiva: nella vita di Laura coesistevano vecchi legami con il mondo greco, la lingua d’origine, la madre Isabella e nuove appartenenze sancite in primo luogo dalla vita coniugale. Anche i testimoni al processo sembrano far parte di due realtà distinte, alcuni conoscevano l’imputata da quando era bambina e l’avevano sempre chiamata o sentita nominare come Tarsia, altri invece rappresentavano frequentazioni recenti, acquisite attraverso la nuova identità di Laura Malipiero.

Nel fascicolo inquisitoriale i due nomi si alternano dando la sensazione talvolta che le imputate invece di una fossero due, lo stesso notaio incaricato di mettere agli atti le testimonianze sembra confuso e finisce per far riferimento indifferentemente a Tarsia poi a Laura Malipiero. La donna invece, nonostante preciserà di «vivere all’italiana», sceglie di presentarsi con il nome che le aveva assegnato alla nascita il padre Toderin da Rodi. Supponiamo infatti che in quella circostanza sarebbe stato compromettente vestire i panni di Laura, una donna greca che si spacciava per nobildonna veneziana, avrebbe dato conferma del cambio di identità mettendo in mano all’inquisitore un chiaro indizio della propria colpevolezza.

A quanto pare dunque il matrimonio con Francesco ridefinì una condizione di precarietà e incertezza: abbandonata quasi alla nascita dai genitori, dal marinaio che le aveva dato l’anello quando ancora era bambina, lasciata dall’uomo con il quale perse la verginità, Tarsia aveva a disposizione un margine d’azione certamente più ampio rispetto ad altre donne, tenute sotto controllo dai propri mariti o dalla propria famiglia ma in compenso pagava lo scotto di quella maggior autonomia non potendo contare

sull’appoggio e la solidarietà di legami parentali forti, necessari soprattutto per una donna non sposata e di origine straniera.

L’esigenza di integrazione e di costruzione del proprio ruolo sociale probabilmente ebbe un peso non irrilevante nell’utilizzo di un nome significativo e distinguibile a livello cittadino, il quale divenne uno strumento per la donna in grado di conferirle credibilità nella vita di tutti i giorni. Inoltre quell’identità potente che cercò di cucirsi addosso, rappresentava anche tutto ciò che probabilmente avrebbe voluto essere, un augurio quindi in un futuro migliore e da costruire. Scrive Pierangelo Schiera: 98

Identità può però voler dire anche, ciò che si tende a voler essere, piuttosto che ciò che si è. In tale accezione, la già accennata dimensione di artificiosità si tende ancor più manifesta e si amplia, comprendendo tutto ciò che viene, con coscienza maggiore o minore, prodotto o usato da un soggetto (individuale o collettivo) per elaborare e perfezionare l’identità ricercata o un’identità purchessia.99

Per concludere, esperienze come questa non costituivano affatto un’eccezione nel XVII secolo, soprattutto a Venezia, caratterizzata come si è visto dalla compresenza di individui appartenenti a diverse tradizioni religiose e culturali che andavano e venivano in continuazione dalla città. Il formarsi di identità multiple, fluide e in qualche misura sincretiche ma coerenti con la mentalità e gli obiettivi di chi le indossava, faceva sì che le autorità religiose o laiche che fossero, faticassero a omologare e ingabbiare la sfera più intima dell’individuo, la fede, le passioni, le opinioni personali se così si possono definire. Sembra invece che queste persone, nei limiti delle alternative che ebbero a disposizione, ridefinissero di continuo la loro esistenza, in base a esigenze contingenti, concrete e pressanti; costrette a riformulare i propri progetti di vita e a fare scelte, per

Romano, Laura Malipiero, pp. 47-48.

98

Pierangelo Schiera, Dall’identità individuale all’identità collettiva, in Paolo Prodi, Wolfgang

99

Reinhard (a cura di), Identità collettive tra Medioevo ed età moderna, «Convegno internazionale di studio», Clueb, Bologna 2002, p. 198.

quanto obbligate, che talvolta stravolgevano i loro destini, «attraverso aggiustamenti inediti e vantaggiosi, comunque difficili da tenere sotto controllo». 100

In un periodo storico in cui l’identità individuale diventò un dato raccolto e censito a scopi di conoscenza e governo da parte delle istituzioni, la vera essenza del nome, l’aspetto in qualche modo eversivo e il potere che racchiudeva, consisteva nel fatto che in realtà non fosse per nulla solamente un dato anagrafico, se non per chi quei dati aveva bisogno di raccoglierli e catalogarli. Nominare qualcuno, assumeva invece l’accezione di rappresentare e raccontare una persona, attraverso significati simbolici e religiosi, sociali e culturali. Nel nome, scrive Adriano Prosperi, «è qui che la questione dell’identità ancor oggi si riassume nella maniera più semplice ed evidente», racchiudendo la storia personale di un individuo e «dischiudendo le diverse identità che lo stesso io può ospitare». 101

Andreato, Il reato di bigamia, in L’amministrazione della giustizia, p. 419

100

Prosperi, Identità individuale nell’età confessionale, in Prodi, Reinhard (a cura di), Identità

101

collettive tra Medioevo ed età moderna. Atti del convegno internazionale di studio, Clueb,

CAPITOLO 3

LA STREGONERIA SECONDO LAURA MALIPIERO