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2.2 Nel tribunale inquisitoriale: reato di bigamia e doppia identità 1 La verità di Francesco Bonamin

2.2.2 La verità di Laura Malipiero

Il 28 febbraio del 1630, Tarsia uscì dalle prigioni per esser interrogata dal tribunale inquisitoriale. Immaginava fosse stato suo marito ad averla denunciata ed era convinta che il suo unico intento fosse quello di «desfar il matrimonio». Il giudice volle sapere quando si sposò con Francesco Bonamin e sotto quale nome lo avesse fatto:

Ibidem, testimonianza di Perazzo Malipiero, 5 marzo 1630.

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Ibidem, testimonianza di Prudenzia della parrocchia di S. Polo, 24 gennaio 1630.

Ero di carneval stravestita in un festino con una Gentildonna de Ca’ Garzoni, et mi levò dal ballo inamorato in me, et mi condusse a casa sua, et gli dissi che avevo nome Tarsia, et che alcuni mi chiamavano Laura de Toderin de Rodi, et Malipiera. 84

Da questo momento in poi iniziò a delinearsi una versione dei fatti completamente diversa rispetto a ciò che Francesco Bonamin aveva dimostrato in Curia patriarcale e in seguito sostenuto davanti all’inquisitore. Attraverso la prima deposizione di Tarsia in tribunale e gli interrogatori successivi emerge infatti una descrizione totalmente differente dei protagonisti di questa vicenda, che improvvisamente nelle parole della donna cambiano volto e ruolo: Francesco da vittima degli inganni e delle «stregarie» della moglie, veste ora i panni di «un uomo cattivo, senza timor del signor Iddio, pieno di vizzi e crudeltà». Laura al contrario, si autorappresenta come una donna spaventata dai tentativi del marito di toglierle la vita e preoccupata per la sopravvivenza dei propri figli. L’immagine che ci restituisce di se stessa tuttavia non è quella di una vittima passiva ai soprusi e alla violenza, bensì di una persona che agisce, in questo caso attraverso vie legali, non solo sporgendo denuncia per maltrattamenti al temutissimo Consiglio dei Dieci ma anche rivolgendosi nuovamente al Patriarcato, intenzionata a richiedere «il taglio di quella sentenza con mal’arte et grande estorta dal marito». A tal proposito può essere esplicativa la supplica della donna, intenzionata a uscire dalle prigioni:

Vedendo io povera et infelice Tarsia ovvero Laura Malipiera che il fine del crudelissimo Francesco Bonomini mio marito altro non è che procurar la total mia rovina morte et estintio, perché non contento di avermi con proprie mani con ferite 14 mortali truccidata anco con false prove senza alcuna mia comparsa in giudizio infamando la giustizia, et con violenze et oppressioni, sforzando me a confessar quello che non fu mai vero, ha estorto dal foro patriarcale una tal sentenza di nullità di matrimonio, et finalmente con false querele, et inventioni diaboliche m’ha condotta in queste miserie delle prigioni, trattenendomi in questa maniera le mie sostanze e levandomi il modo di potter comparer a tribunali per difesa di me stessa et della mia robba, onde mostrar io maggiormente l’eniquità e crudeltà di detto mio marito et provar anco l’innocenza mia, ho querelato essa sentenza avanti a monsignor imminentissimo Patriarca, e dimandatene Ibidem, costituto di Laura Malipiero, 28 febbraio, 1630.

il taglio, accio adunque possi eseguir quanto ho principiato et proveder all’indennità mia; confidata nella solita pietà di questo santo tribunale genuflessa vi supplico a volermi relassar da queste carceri con la (..) del signor Andrea Canton, promettendo di presentarmi ad ogni beneplacito della Giustizia per escolparmi totalmente da ogni colpa. 85 Il 21 marzo, l’avvocato Pietro Abbetini presentò al tribunale inquisitoriale gli articoli di difesa dell’imputata, secondo i quali Francesco Bonamin aveva tentato di uccidere Tarsia con «quatordeci ferite mortali» e continuamente metteva in pericolo la sua vita. Inoltre, si macchiò di gravi peccati «in offesa del matrimonio», commettendo adulterio, portando delle donne estranee in casa sua, non occupandosi della famiglia e delle sue «creaturine». Quando decise di denunciare la moglie alla Curia patriarcale chiedendo l’annullamento del matrimonio, lo aveva senz’altro fatto poiché «incapriciatosi di un’altra donna» avrebbe voluto risposarsi. Così lasciò credere a Tarsia che stesse domandando «solo divortio et separatione» con l’intenzione di fare un viaggio e che al rientro l’avrebbe «presa per buona et cara et alimentata». La donna non ci mise molto a capire che quelle del marito erano tutte menzogne ma non ebbe comunque la possibilità di opporsi ai suoi piani poiché Francesco non le permise né di scegliere un avvocato né di presentare al tribunale patriarcale dei capitoli di difesa, anzi minacciandola di morte la costrinse a confessare di aver avuto rapporti sessuali con Lorenzo Bonamin, sebbene non fosse vero. 86

Secondo la difesa inoltre, Francesco era perfettamente al corrente del presunto matrimonio di Tarsia e Toderin quando «invaghitosi» di lei decise di prenderla in moglie. Anzi era stato lui stesso a far deporre falsi testimoni in Patriarcato in modo da ottenere la licenza per poter contrarre il matrimonio: «lasciate fare a me», l’aveva 87 rassicurata, «troverò testimoni quali diranno che non sete maritata». Ripeteva spesso

ASV, SU, supplica di Laura Malipiero, 16 marzo 1630.

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Ibidem, capitoli di difesa di Tarsia, 9 aprile 1630.

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I padri conciliari per tenere maggiormente sotto controllo i rapporti matrimoniali obbligarono

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i parroci a tenere dei registri in cui registrare nascite, morti e matrimoni dei parrocchiani e in più a rilasciare le cosiddette “fedi di libertà”. Inoltre la recente normativa prevedeva la verifica dello stato libero dei contraenti nel caso questi fossero forestieri o sconosciuti al celebrante “attraverso la deposizione di due testimoni o le fedi di libertà”, vedi Andreato, Il reato di

che «quel che fa li greci, li italiani possono desfar, perché loro non rendono obedientia al Papa» e Laura aveva creduto alle sue parole e ceduto alle sue lusinghe, d’altra parte Toderin da Andro mancava ormai da lungo tempo, in città si diceva fosse morto e la dote di venticinque ducati le era stata restituita. Esisteva una legge osservata dai greci, a cui si fa riferimento nella querela della sentenza esposta da Laura alla Curia, secondo la quale «quando il marito è fatto schiavo, e stà lontano per il spazio d’anni cinque dalla moglie possi essa moglie senza alcun scrupolo o peccato sia vivo o non il primo marito pigliar il secondo et con quello in valido matrimonio vivere et così è la verità». 88

Numerose furono le persone che testimoniarono al Sant’Uffizio a favore di Laura, sostenendo la sua versione dei fatti. Giacomo, un medico della parrocchia di San Felice, in passato fu chiamato a curare le ferite della donna e confermò l’esistenza della querela presentata al Consiglio dei Dieci poiché lui stesso venne citato come testimone. 89 Franceschina, della parrocchia di San Pietro di Castello, conosceva Laura perché era stata in casa sua «per massara» sei anni, non aveva mai assistito alle liti fra moglie e marito ma dichiarò di aver visto di persona i segni dei maltrattamenti sul corpo di Laura: «l’ho governata, et lei mi disse che era stata ferita da Francesco et ciò anco mi dissero li figli istessi di Francesco et ora è struppiata di un brazzo». Bonamin si 90 comportava in quel modo abitualmente, era stato violento tante volte anche con la prima moglie Giustina Ragazzoni e a testimoniarlo fu il cognato Antonio, il quale depose che quell’uomo «trattava così» anche con la sorella». 91

Similmente a quanto sostenuto nel tribunale inquisitoriale, la querela che Laura avanzò in Patriarcato si dilunga anch’essa nell’elencare i maltrattamenti subiti dalla donna. In genere le istituzioni veneziane e gli uomini di Chiesa sembravano particolarmente sensibili nei confronti delle mogli maltrattate o “malmaritate”, le quali avevano la possibilità ad esempio di rivolgersi alle magistrature laiche in caso di mariti

ASPV, «Filciae causarum», “querela per se foresta contra sententia”, agosto 1630.

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ASV, SU, b. 87, testimonianza di Giacomo, 7 aprile 1630.

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Ibidem, testimonianza di Franceschina, 7 aprile 1630.

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Ibidem, testimonianza di Antonio Ragazzoni, 21 aprile 1630.

scialacquatori o mettersi in salvo da uomini maneschi in apposite case fondate per accoglierle e proteggerle. Tuttavia, all’epoca “correggere le mogli” non solo rappresentava una pratica molto diffusa ma consisteva per di più in un’operazione legittima. I tribunali ecclesiastici di norma si pronunciavano contro i maltrattamenti dei mariti solo nel caso in cui non consistessero in attacchi d’ira occasionali ma si verificassero piuttosto in maniera continuativa, tanto da mettere seriamente in pericolo la vita delle loro compagne. Per il diritto canonico infatti le violenze avrebbero dovuto esser gravi, costanti e senza una giusta motivazione, in caso si volesse ottenere la separazione di letto e di mensa. 92

D’altra parte una giusta causa per affermare l’autorità maschile non era poi così difficile da individuare, anche Bernardino da Siena sosteneva che quello di educare e «corrigere» la propria sposa fosse un dovere preciso dell’uomo, il quale aveva tutto il diritto di usare le maniere forti nel caso questa avesse commesso degli errori o non avesse adempito ai propri compiti, ossia «timere», «servire» e «obedire» il marito. 93 L’idea che fosse giusto e tutt’altro che riprovevole picchiare o urlare contro la propria moglie era diffusa, e rispecchiava il pensiero di persone comuni come Agnesina, una donna vedova che viveva in parrocchia di San Martino e lavorava per Laura «cappe di seta», la quale dichiarò di fronte al Sant’Uffizio di aver «ben sentito Francesco a gridar con Tarsia, ma so che è usanza che li mariti gridano con le mogier». 94