I BENI COMUNI: UNA NUOVA MODALITA' DI POSSEDERE
4.1 Una tassonomia dei beni comun
Sebbene una loro suddivisione e articolazione risulti difficile, la- bile e riduttiva, provare a spiegare che cosa s'intende per bene comune può forse risultare utile per chiarire la differenza tra la natura delle ri- sorse collettive, quelle pubbliche e quelle private.
Una prima generale classificazione divide i beni comuni naturali e ambientali, esauribili e indispensabili per l'uomo, da quelli immate-
riali, come il sapere, la cultura, l'informazione, riproducibili e quindi
potenzialmente illimitati.
All'interno di questa prima suddivisione è possibile distinguere anche tra beni comuni locali e globali, tangibili e intangibili, esauri-
bili o rinnovabili.
Una tra le massime teorizzatrici del pensiero comune, recente- mente scomparsa, è stata la politologa Elinor Ostrom, unica donna a ricevere il premio Nobel per l'economia per le sue ricerche in ambito di governance e risorse collettive.
I suoi studi, tradotti in moltissime lingue e citati in numerosissimi libri, ricerche scientifiche e pagine di letteratura accademica, conser- vano riflessioni e intuizioni estremamente attuali, significative e fon- damentali che hanno cercato di superare la statica dicotomia tra pub- blico e privato, Stato e Mercato, per ipotizzare azioni individuali col- 82 Mattei, Beni comuni, cit., p. XIV.
lettive responsabili ed etiche.
Secondo la definizione proposta dalla Ostrom, i beni comuni cor- rispondono “ad ogni risorsa, naturale e/o artificiale, sfruttata insieme da più utilizzatori i cui processi di esclusione dall'uso sono difficili e/o costosi, ma non impossibili”83
Una prima categoria di risorse collettive comprende l'aria, l'ac- qua, la terra, le foreste, beni cioè di sussistenza da cui dipende la vita degli esseri umani, risorse quindi comuni e globali.
A questa categoria appartengono anche i cosiddetti beni tradizio- nali locali, come boschi, aree di pesca, biodiversità, pool genetico, sa- peri locali.84
I new commons, invece, comprendono il diritto alla cultura, al- l'istruzione, le innovazioni dei saperi tradizionali, la rete Internet, i software liberi, i Creative Commons: tutti quei beni definibili come beni comuni sociali.85
La natura di quest'ultimi, immateriali, riproducibili all'infinito e non esclusivi, sembra costituire da qualche decennio la posta in gioco dell'ultimo passaggio di quella tendenza mercificatoria e di privatizza- zione del sapere cui si accennava poco sopra.
La proprietà fondamentale dei beni immateriali è infatti che, a differenza di quelli materiali, la fruizione da parte di un consumatore non ne impedisce la frui- zione da parte di altri, e dunque che la moltiplicazione illimitata dei consumatori porta alla moltiplicazione illimitata dei profitti, indipendentemente dal capitale in- vestito per la produzione del prototipo. 86
83 E.Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio Editore, 2006, p.30. 84 Ricoveri, I beni comuni, cit., p.11.
85 N.Carestiato, Beni comuni e proprietà collettiva come attori territoriali per lo sviluppo locale, tesi di dottorato, Scuola di Dottorato di Ricerca in Territorio Ambiente Risorse Salute Indirizzo “Uomo e Ambiente” XX Ciclo, Dipartimento di Geografia “G:Morandini”, discussa nell'a.a. 2008, rel. M. De Marchi, p. 13.
86 G.Tamino, “Dalla scienza e conoscenza come beni comuni alla privatizzazione del sapere”, in P. Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, cit., p. 96.
Detenere la proprietà di un bene immateriale significa quindi pas- sare attraverso brevetti e proprietà intellettuali, in cui rientrano crea- zioni artistiche e letterarie, simboli, immagini, nomi, invenzioni.
Questo sistema di brevettazione del sapere e dell'immateriale è stato ufficializzato nel 1994 dall'Organizzazione Mondiale del Com- mercio tramite il trattato internazionale conosciuto con l'acronimo TRIPS - Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (accor- do sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale).
Tale accordo ha fissato la normativa in merito alla protezione e alla tutela della proprietà intellettuale e ha obbligato tutti i Paesi fir- matari a rispettare e far osservare tutte le leggi in materia, includendo di fatto l'ingegno, l'innovazione e la proprietà creativa e intellettuale come parte del sistema del commercio e quindi, di fatto, delle merci.
Tale accordo è stato oggetto nel corso degli anni di numerose cri- tiche, in particolare modo per ciò che riguarda la condizione dei Paesi sottosviluppati, spesso non in una condizione economica e finanziaria tale da destinare fondi alla ricerca tecnologica e scientifica e in questo modo, resi dipendenti dai diritti brevettuali dei paesi più ricchi.
Sebbene sia stato concepito con lo scopo di incoraggiare, tutelare e diffondere il sapere tecnologico, scientifico, creativo, artistico e cul- turale, tale accordo è sembrato in realtà soffocare, a detta di molti stu- diosi, uno sviluppo più comunitario e innovativo, il libero accesso al sapere, fondamentale per tutti i popoli.
La logica brevettuale sta dunque diventando lo strumento per privatizzare la vita del pianeta, in favore di chi possiede i soldi per trasformare un bene comune in profitti privati, senza alcuna attenzione ai diritti umani, alla difesa della salute e dell'ambiente. Chi possiede i diritti detiene un enorme potere non solo economico, grazie a condizioni di monopolio, ma anche di ricatto a livello politico e sociale.87
Ritornando alla classificazione dei beni immateriali e dei new
commons, è importante sottolineare una nuova tendenza in atto, che
mira a capovolgere e sovvertire, per quanto possibile, il sistema legi- slativo vigente in materia di diritto d'autore.
L'idea di creare un software libero, free software, è nata dall'esi- genza di poter accedere al cosiddetto codice sorgente di un program- ma per studiarlo, modificarlo e poterlo condividere gratuitamente con altre persone a scopo educativo, ad esempio nelle università, di svago o di utilità.
Una caratteristica importante di alcuni free software è anche quella di poterli rendere di dominio pubblico tramite copyleft, ovvero:
un modello di gestione dei diritti d'autore basato su un sistema di licenze at- traverso le quali l'autore (in quanto detentore originario dei diritti sull'opera) indi- ca ai fruitori che essa può essere utilizzata, diffusa e spesso anche modificata libe- ramente, pur nel rispetto di alcune condizioni essenziali.88
La licenza forse più conosciuta in questo ambito è probabilmente la GNU Public License, meglio nota come Linux, o le licenze Creative
Commons.
Queste ultime permettono all'autore dell'opera, del testo, del bra- no musicale o editoriale, di scegliere quali diritti riservarsi e quali ren- dere liberi per i fruitori.
La nuova tendenza in atto, a cui si accennava poco prima, vede questo nuovo tipo di licenze, software e programmi lavorare insieme per sovvertire il paradigma attuale in atto, basato su situazioni di mo-
P. Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, cit., p.98.
88 Wikipedia Italia, Copyleft, http://it.wikipedia.org/wiki/Copyleft , data di consultazione 31 luglio 2012.
nopolio da parte delle più grandi aziende produttrici e sviluppatrici di
software e hardware.
Come spiega Filippo Zolesi, blogger e ricercatore nel campo dei
Creative Commons,
dal lato delle aziende produttrici di hardware, infatti, incomincia ad esserci una timida apertura verso il supporto nei confronti del software libero. Fino a poco tempo fa i produttori di hardware ostacolavano in tutti i modi l'utilizzo dei propri prodotti con i free software inseguendo le logiche monopolistiche della Microsoft. Adesso invece, anche grazie alla creazione di nuovi prodotti con target di mercato diversi, l'attitudine incomincia a invertirsi.89
A una visione che riduce la scienza e la tecnologia a puro bene commerciale da cui trarre profitto, sembrano iniziare a contrapporsi pratiche più etiche, ispirate a principi di solidarietà e responsabilità, che sono alla base di azioni e invenzioni destinate alla collettività per uno sviluppo condiviso e più egualitario.
La logica dei creative commons, tuttavia, ha suscitato alcuni dub- bi e critiche, in particolar modo per ciò che riguarda il loro autentico carattere globale.
Ugo Mattei, nel suo manifesto sui beni comuni, ha invitato alla prudenza nel considerare Internet e lo sviluppo tecnologico e virtuale come un bene comune.
Il rischio- ha affermato- è che dietro l'immagine della comunità virtuale creativa (creative commons) si nasconda una forma estrema di liberismo «nozic- kiano», solipsistico, etnocentrico, ottimista e a tratti perfino narcisistico. In questo senso, l'immagine di Internet come un nuovo «commons globale» e le stesse po- tenzialità emancipatorie delle comunità virtuali (da Facebook a Twitter) vanno considerate con grande cautela in un'operazione di posa in opera istituzionale dei beni comuni, proprio perché portatrici di valori politici la cui compatibilità con l'i- deale comunitario non può esser data per scontata.
Pensare ai beni comuni significa innanzitutto utilizzare una chiave autenti- camente globale, che pone al centro il problema dell'accesso e dell'uguaglianza
reale delle possibilità su questo pianeta. Il che inevitabilmente pone domande non agevoli a chi mostra fede incrollabile in un modello di sviluppo virtuale e tecnolo- gico che si fonda senza soluzione di continuità sulla predazione di risorse naturali a favore di un versante soltanto del «digital divide».90