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Possono essere identificate come tre le condizioni essenziali perché una città possa dirsi tale a tutti gli effetti:

6. I tempi dell’evento educativo

La variabile tempo è molto importante nella considerazione degli eventi educativi. Esiste una dialettica tra il tempo fisiologicamente previsto per l’evento, il tempo effettivamente a disposizione ed il tempo nel quale il soggetto è disposto ad apprendere i contenuti previsti.

6.1. I tempi degli eventi educativi formali

Negli eventi educativi “formali”, di solito il tempo è un tempo preordinato, prefissato, scandito dalla successione delle “ore” di lezione o di momenti particolari (entrata, uscita, ricreazione). È un tempo che risulta molto faticoso da vivere, specialmente da giovani generazioni abituate ad un uso piuttosto disinvolto del tempo in famiglia, e ad una fruizione televisiva del tempo (con le continue interruzioni pubblicitarie dei programmi che vanificano l’attenzione). È un tempo che occupa una parte notevole del tempo del giovane, visto che per almeno 10 – 13 anni lo impegna, tra lezioni e studio domestico finalizzato all’apprendimento scolastico, per almeno 5-6 ore al giorno.

6.2. I tempi degli eventi educativi non formali

I tempi degli eventi educativi non formali, pur essendo scanditi con ritmi a volte simili a quelli scolastici, possono essere gestiti con meno fiscalità. È vero che un allenamento sportivo ha un preciso inizio, uno svolgimento progressivo ed una conclusione, ma le varie fasi, specialmente in età evolutiva, non necessitano di una scansione rigida, sottolineata per esempio da impersonali colpi di fischietto, e sono sempre gestite dalla decisione dell’allenatore (o dell’educatore scout) sulla base della situazione particolare che si è creata, cosa questa che spesso risulta impossibile nella scuola, visto il susseguirsi degli insegnanti nella varie materie ed il coinvolgimento prevalentemente “mentale” della persona. Questi eventi sono di solito collocati nel “tempo libero”, tipica creazione sociale della civiltà industriale occidentale, un tempo originariamente non occupato dal lavoro (compreso il “lavoro” dello studio) e quindi considerato residuale. Questo tempo attualmente si è notevolmente dilatato ed è stato occupato da una serie di attività che sono vissute dai soggetti come veri e propri valori, molti dei quali vissuti conflittualmente con il tempo della quotidianità lavorativa o di studio111. Quindi il tempo che il giovane passa nella pratica sportiva è certo un

tempo “residuale” rispetto a quello dello studio e del lavoro, ma è un tempo intensamente vissuto, al quale si chiede molto in termini di realizzazione della personalità.

6.3. Il “tempo obbligato” della relazione di cura

La relazione di cura è di solito collocata in una fascia temporale corrispondente ad un particolare “tempo obbligato”, che non è quello lavorativo, ma è un tempo che viene vissuto come obbligato sia perché si tratta di una condizione non scelta liberamente, sia perché quel tempo è un tempo fortemente strutturato, un flusso di eventi accuratamente pianificati e scanditi quasi in modo rituale (il risveglio, la pulizia personale, la colazione, la visita medica, le prescrizioni farmaceutiche, il pranzo, il riposo pomeridiano, le visite dei familiari e dei conoscenti, la cena, il riposo notturno).

E’ un tempo che può essere vissuto dai soggetti sia come una prigione (questo può capitare con soggetti abituati ad un estrema libertà di decisione e di movimento), e quindi può generare insofferenza, sia come struttura a cui aggrapparsi per dare regolarità alla nuova situazione esistenziale (questo può capitare a soggetti che devono passare un periodo molto lungo nella nuova situazione), e quindi può generare capacità di riscatto e di sopportazione.

Compito dell’operatore sanitario è quello di aiutare il soggetto a vivere questo nuovo tempo nel modo meno dannoso possibile per sé, per gli altri pazienti e per gli operatori sanitari, facendo appello alle

111Un esempio cinematografico di quanto detto precedentemente è reperibile nel giovane Tony Manero – John Travolta di Saturday

Night Fever, autentico film di culto dei tardi anni Settanta: il giovane italo-americano si realizza esistenzialmente ballando nel tempo

libero, e soprattutto nel tempo magico del “sabato sera”, e non certo mettendo a posto chiodi e viti in una bottega di ferramenta. Inutile dire che nasce subito un conflitto tra l’ideologia familiare – lavorativa (il padre e il datore di lavoro dipinti come incapaci di comprendere la situazione problematica del figlio – apprendista) ed il mondo sognato da Tony, che è il mondo dei suoi amici, delle ragazze con cui ballare e di cui innamorarsi, delle notti brave e delle luci psichedeliche capaci di far dimenticare per qualche ora il grigiore di un’esistenza anonima.

capacità e alle risorse del soggetto stesso. Nel caso di una situazione dall’esito abbastanza prevedibile, si può fare appello alla transitorietà dell’esperienza; nel caso di situazioni più problematiche, forse sarà il caso di supportare la famiglia del soggetto nel confronto tra la situazione attuale e le precedenti.

6.4. L’avventura come chiave interpretativa del tempo dell’evento della relazione di

cura

Anche se potrebbe apparire azzardato, un’utile chiave di lettura del tempo dell’evento della relazione di cura è il linguaggio dell’avventura112, che non è tanto un evento casuale che perturba l’ordinario, come potrebbe essere la perdita di un volo diretto da Milano a Los Angeles e l’affannosa ricerca di una soluzione alternativa, o un evento episodico che accresce di salinità una vita quotidiana pensata come insipida, come potrebbe essere il significato di “avventura” riferito ad una estemporanea conoscenza estiva sulla spiaggia di Rimini.

In senso peculiarmente pedagogico, l’avventura si caratterizza come un passaggio da una situazione nota ad una situazione ignota (per esempio, dalla propria casa ad una stanza d’ospedale), che deve essere affrontata sulla base delle competenze possedute, ma che non è mai stata affrontata prima, e quindi crea una situazione di tensione “positiva”, che sollecita le capacità possedute in una situazione controllata di novità: in altre parole, avventura è “l’impresa rischiosa ma attraente per ciò che si prospetta di ignoto e si vive al di fuori dal comune … è il soggetto stesso che, spinto dal desiderio di conoscere, esplorare e mettersi alla prova … si avventura in una realtà fuori dal consueto e dal quotidiano, rischiosa e, nello stesso tempo (o proprio per questo) affascinante”113.

Guarire da una malattia in un ambiente pubblico è sempre un’avventura in quest’ultimo senso (enon ovviamente nel senso macabro della battuta da Bar Sport): si deve fare affidamento a quanto già si sa, ma si deve fare qualcosa che ancora non si conosce. L’affrontare la nuova situazione crea certamente un certo grado di tensione: se il compito nuovo è commisurato alle competenze possedute, il nuovo viene appreso ed incorporato nel patrimonio di conoscenze; se il compito nuovo è poco stimolante, c’è una caduta di motivazione, mentre se è sovradimensionato, si può risolvere in una situazione di frustrazione. C’è nell’avventura sempre una dimensione di separazione e distacco che crea situazioni problematiche a soggetti abituati ad una certa modalità quotidiana di gestione esistenziale degli eventi: l’avventura si rivela un potente dispositivo pedagogico, che deve però permettere di innescare una “tendenza alla crescita”, che sia più forte delle fissazioni e delle tendenze regressive che il soggeto potrebbe mettere in atto per “difendersi”114.

Compito dell’operatore sanitario potrebbe essere anche quello di far vivere come un’avventura, nel senso sopra indicato, l’apprendimento delle tecniche e dei comportamenti adatti al raggiungimento dello scopo (la guarigione), in una dialettica educativa tra noto ed ignoto, facendo crescere e consolidando l’autostima. La proposta educativa si caratterizza per l’attivazione della dimensione cognitiva (il conoscere qualcosa di nuovo), della dimensione affettiva e relazionale (specialmente per quanto riguarda la possibilità di sperimentarsi in situazioni di maggiore indipendenza esistenziale), della dimensione etico-valoriale (per la capacità di uscire dalla dimensione dell’eteronomia e di approdare a quella dell’autonomia).

Questo vale in generale per tutte le età e le condizioni, ma in particolare da un lato per soggetti che si trovano nel delicatissimo momento di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, che necessitano quindi di un’attenzione educativa peculiare, specialmente perché questa è la fase in cui le tradizionali agenzie educative (famiglia e scuola) cominciano a perdere fascino, e i soggetti si rivolgono sempre di più ad altre agenzie (gruppo dei pari, associazionismo); dall’altro per soggetti che si trovano in una situazione di deprivazione organica e che si sentono dipendere da altri per quanto riguarda il ristabilimento di condizioni desiderabili di esistenza, come è appunto la condizione del soggetto malato.

Se nel primo caso l’educatore si trova quindi a gestire situazioni conflittuali tra il soggetto e queste agenzie, e deve fungere da elemento catalizzatore e mediatore, evitando di diventare parte in causa e contribuendo invece ad una nuova riorganizzazione degli equilibri cognitivi, affettivi e volitivi del soggetto in fase evolutiva, nel secondo caso l’operatore sanitario contribuisce a creare le condizioni per vivere in modo responsabile e consapevole la fase (che si suppone) di transito, aiutando il soggetto a gestire le situazioni di conflitto che nascono dall’immagine deprivata che il soggetto stesso ha di sé, indicandogli vie di collaborazione e cooperazione.

112 C. NICOLI, Psicologia dell’avventura, Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani, Roma, s. d., pp. 2-10. 113 Ivi, p. 2.

PARTE SECONDA. ALLA RICERCA DEI