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LA TIPOGRAFIA DELLA ROCCHETTA DI LERIC

3.1. Uno sguardo sulla Spezia in guerra

L’8 settembre fu annunciato l’armistizio, ma la guerra, lungi dal finire, entrò invece nella sua fase più tragica.

Il caos organizzativo, la penuria di mezzi e la conseguente umiliante condizione delle reclute fu una terribile pubblicità per il nuovo esercito della RSI e alimentò la renitenza e, più tardi, la diserzione.

L’occupazione militare nazista impose infatti la necessità di più gravi decisioni: per dirigere la lotta armata, che si rendeva necessaria per liberare il paese dall’invasore, le forze politiche diedero vita ad un organismo unitario, il Comitato di Liberazione

Nazionale (C.L.N.) alla fine di settembre.56

Coloro che non intesero rispondere ai bandi della repubblica di Salò, che minacciavano la fucilazione ai renitenti e rappresaglie ai loro famigliari, si rifugiarono presso parenti sfollati nelle zone di campagna e di montagna, dandosi alla macchia e cominciando a raccogliersi in gruppi attorno ai vecchi e provati antifascisti, già consapevoli di come si conducesse una vita clandestina e quindi più politicamente preparati a prendere le decisioni di lotta che erano imposte dalla presenza del nemico.

A La Spezia si presentarono al Distretto solo il 17% dei giovani che avrebbero dovuto farlo, per la precisione 288 su 1664 iscritti alle liste.

56 A. Petacco, La Spezia in guerra 1940-45 cinque anni della nostra vita, La Nazione editore, Bologna

87 Particolare curioso fu quello del prefetto fascista di La Spezia, Turchi, che, forse per mettersi al riparo dalle critiche, comunicò ai ministeri dell’Interno e della Difesa, che i presentatisi alle armi rappresentavano l’85% degli iscritti. Si trattava di un falso

clamoroso.57

La prima direttiva data dal C.L.N. provinciale ai gruppi di Resistenza che si stavano costituendo, fu di raccogliere quante più armi possibili, non solo perché fossero sottratte ai tedeschi, ma soprattutto per poter iniziare la lotta armata.

-Il commando della IV zona ordina operazioni a squadre sabotatori delle diverse brigate.

57 M. Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Laterza

88 Si dovevano sabotare particolarmente le linee telefoniche e telegrafiche, si doveva tener alto il morale delle prime formazioni partigiane e per contro, infondere un senso di

isolamento morale e di condanna nei tedeschi. 58

Certamente complesso e in quel momento difficile da affrontare sul piano psicologico, era il problema dell’atteggiamento che avrebbero dovuto prendere migliaia di operai esistenti alla Spezia e per di più impegnati nella produzione bellica. Il problema di come fare ad orientare, organizzare, dirigere la lotta.

Manifesti e articoli di giornale spezzini del tempo ricordavano che “parlare di argomenti militari, logistici, comunque di qualche interesse per il nemico” era delittuoso; “più si tace e meglio è”, ammonivano i giornali.

Speciali reparti della questura e dei carabinieri vennero adibiti “all’ascolto”; questurini e militari travestiti da civili si infiltrarono nei locali pubblici, sulle strade e nelle piazze. Il disfattismo raggiunse simili vette, i richiami all’ordine non si contarono più, le minacce si fecero sempre più truci. Per poco si poteva finire al confino, dopo un rapido passaggio

per il Tribunale speciale. 59

Detto questo, quale ruolo abbia svolto la stampa clandestina non sempre lo si è considerato nel suo complesso. Si pensi alla continua necessità di orientamento dei giovani nelle formazioni partigiane, per far comprendere pienamente il valore morale, civile e politico della loro scelta; o ancora quali mezzi si misero in campo per la

58

S. Sgorbini P. Gallotti, La provincia della Spezia, Medaglia d’oro della Resistenza. L’impegno e il

sacrificio di una provincia per la libertà, Edizioni Giacchè La Spezia, 1997, p.12

59 A. Petacco, La Spezia in guerra 1940-45 cinque anni della nostra vita, La Nazione editore, Bologna

89 preparazione del materiale che doveva avere una caratterizzazione unitaria, indicando con chiarezza gli obiettivi di quella lotta, sia sul piano politico e militare, sia per le prospettive di rinascita dell’Italia liberata.

La produzione e la diffusione della stampa clandestina fu un fatto politico ed organizzativo difficile e complesso: per la formazione di una redazione, per il reperimento dei mezzi più semplici (dalla macchina da scrivere alla pedalina), per la scelta dei locali più sicuri e per assicurare i collegamenti con i gruppi di diffusori.

Le fabbriche furono importanti perché divennero subito centri di irradiazione dell’orientamento politico e delle direttive dell’organizzazione. Ritornando alla sera nelle località di sfollamento o nei quartieri, gli operai trasmettevano le decisioni e le informazioni raccolte al giorno. La presenza della classe operaia in fabbrica consentì inoltre di poter difendere i macchinari e sottrarli alla rapina. Infine gli operai divennero il tramite più sicuro per lo smistamento del materiale di propaganda e di quant’altro era necessario alla lotta: “l’Ausbildungsnachweis”, il lasciapassare rilasciato dai tedeschi per circolare e per entrare ed uscire dalla città, si rivelò estremamente prezioso a chi era già

entrato nell’organizzazione clandestina per sottrarsi più facilmente ai controlli.60

Una delle tipografie più attive della resistenza italiana fu quella che venne installata alla Rocchetta di Lerici, in provincia della Spezia, dal Partito Comunista. Questo nucleo operativo stampò migliaia di volantini e giornaletti che andarono ad alimentare la lotta di liberazione, arrivando spesso a coprire l’intera regione ligure.

60 M. Farina, La Spezia marzo 1944. Classe operaia e resistenza, Istituto storico della resistenza P.M.

90 Rinominata “Fodo”, era luogo di passaggio ma, sicuro perché posto in altura, da dove si vedeva senza essere visti; lontano dalle insidie, uomini e donne, mantenevano intatta la

verità per non arrendersi alla dittatura che uccideva il pensiero e annullava la vita.61

Quanto più la vita politica era ricacciata nella clandestinità, tanto più la stampa diveniva mezzo per poter tenere collegati i cospiratori; per consentire ad essi di discutere e di far conoscere le proprie opinioni, pur nella impossibilità di riunirsi e di confrontarsi; per trasmettere direttive; per stimolare e per incitare, per denunciare e per mettere in chiaro la portata degli avvenimenti. Ciò era tanto più necessario in una situazione in cui i nazifascisti facevano di tutto per travolgere e capovolgere l’interpretazione di quanto accadeva in Italia e nel mondo.

La stampa, volantino o giornaletto che fosse, diveniva organo di formazione dell’opinione pubblica e, mentre illustrava le varie fasi drammatiche della lotta, orientava le larghe masse a partecipare ad essa.

Preliminare era un lavoro organizzato, rispondente a invalicabili condizioni di sicurezza e basato su una rete capillare di diffusione sicura.

Niente di individuale che, cioè, dipendesse soltanto dalla volontà e dall’azione del singolo; tutto invece era realizzato attraverso una elaborazione ed un impegno collettivo, anche se scaturiva da riunioni ristrette. I nomi di ciascuno erano convenzionali: non si doveva cercare di sapere nulla sulla vita o sulla famiglia dell’altro, le informazioni riguardavano soltanto gli aspetti e gli elementi di quello che si stava per fare.

61

G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di

91 I primi corrieri e informatori partigiani furono le donne. Inizialmente portavano, assieme agli aiuti in viveri e indumenti, le notizie da casa e le informazioni sui movimenti del nemico.

Ben presto questo lavoro spontaneo venne organizzato, ed ogni distaccamento si creò le proprie staffette, che si specializzarono nel fare la spola tra i centri abitati e i comandi delle unità partigiane.

Donne e successivamente anche giovani uomini, venivano scelti per questo compito in ragione di alcune considerazioni: innanzitutto, non erano soggetti alla leva né, solitamente, ai rastrellamenti; potevano, quindi, circolare con maggiore libertà, senza destare eccessivi sospetti, anche perché, per le mansioni solitamente affidate loro a livello

sociale e familiare, potevano spostarsi più facilmente.62

Il lavoro venne perlopiù svolto a piedi o in bicicletta; le staffette normalmente non erano armate e quindi si trovano nell’impossibilità materiale di difendersi. Molte furono quelle che pagarono, con le torture e la vita, il loro impegno.

Senza le staffette, la guerra partigiana sarebbe stata inattuabile.

Il rapporto tra la bicicletta e la lotta partigiana fu indissolubile, anzi in alcune circostanze

vitale; era considerata una vera e propria arma.63

62

D. Alfonso, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, De Ferrari, Genova 2012, p. 53-56

63

M. C. Mirabello, Ivana racconta la resistenza. Una ragazza nel cuore della rete clandestina, Edizioni Giacchè La Spezia, 2014, p. 63-65

92 - Luciana Gattoronchieri, staffetta partigiana Brigata Muccini, catturata e torturata nelle carceri di Migliarina a la Spezia. Figlia di Sante Gattoronchieri, partigiano catturato e giustiziato dai tedeschi (rispettivamente mia nonna e mio bisnonno).64

Anche per loro c’erano indicazioni molto precise, come prevedeva una “Lettera del partito comunista alle compagne staffette” diffusa clandestinamente, in cui si ricordavano gli elementi fondamentali per svolgere al meglio il proprio lavoro:

64 “Fu uno dei pochi ad affrontare la morte con dignità eroica… accadde a Pian di Follo… quel mattino la

gente fu svegliata anzitempo dalle S.S., e obbligata ad assistere alla terribile impiccagione… Con le mani vestite d’amore e di fede per l’Internazionale, si mise il laccio al collo da solo… Gridando viva la Libertà! Viva l’Italia! Diede un calcio al tavolo e la morte chiuse la sua gola per sempre.” F. Tonelli,

Quando urlava il vento, mosaico storico della resistenza nel lericino 1943/1945, Grafiche Lunensi,

93 o Non devi far conoscere a nessuno il lavoro che svolgi, dove vai e da dove vieni.

o Nella casa dove abiti devi far credere che hai una normale professione e devi provvederti di quanto ti occorre per dimostrare che eserciti quella professione.

o Devi avere sempre una giustificazione nel caso che durante il viaggio fossi fermata e interrogata su quello che fai.

o Sii sempre puntale e prudente nell’andare agli appuntamenti e ai recapiti.

o Nell’andare ai recapiti assicurati sempre che nessuno ti segua.

o Se ti accorgi che qualche persona sospetta segue i tuoi movimenti, non entrare nella casa, non recarti al luogo del recapito o dell’appuntamento.

o Quando ti accade qualche incidente o noti qualche cosa che non va, devi subito informare nei minimi particolari il dirigente del tuo lavoro

o Nascondi il materiale che trasporti nel modo migliore e cammina sempre con disinvoltura e senza destare sospetti

94 o Quando ai recapiti dove ti rechi prendi contatto con i compagni, consegna a loro

ciò che devi consegnare senza dire ciò che porti o ciò che sei venuta a fare.65

Chi partecipò alla Resistenza si diede, in genere, un secondo nome con il quale si presentava agli altri, che di lui o di lei non dovevano sapere possibilmente nulla di più. Troppo pericoloso era infatti, che si conoscessero notizie degli uomini e donne con cui si era messi in contatto. Quelle informazioni avrebbero potuto essere rivelate nel caso di una cattura da parte dei tedeschi e dei fascisti, con gravissime conseguenze per tutta la rete clandestina e per i familiari degli aderenti ad essa.

Non era facile stabilire i contatti e, soprattutto, non lo era individuarli. Sapevano solo dove trovarsi ad una certa ora in un certo posto, non conoscevano i nomi di chi si sarebbero trovati di fronte e spesso potevano contare solo su descrizioni molto sommarie delle loro caratteristiche.66

Quando gli appuntamenti saltavano, rimanevano senza materiale di lavoro che, con scadenze molto ravvicinate, consisteva per buona parte nella fitta corrispondenza fra PCI e formazioni partigiane in montagna.

La bicicletta fu, dunque, il mezzo con cui i partigiani si tenevano in contatto; le staffette furono coloro che, per conto dei vari reparti di partigiani, costituivano l’unico vero mezzo di comunicazione.

65 D. Alfonso, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, De Ferrari, Genova

2012, p. 55-56

66

M. C. Mirabello, Ivana racconta la resistenza. Una ragazza nel cuore della rete clandestina, Edizioni Giacchè La Spezia, 2014, p. 49-53

95 Intorno alle persone e alle loro imprese si creò una sorta di alone leggendario che si rivelò utile a rendere più forte, perché più sentita, la disciplina e a dare un alto contenuto etico. Accadde così che quello che sarebbe stato sicuramente impossibile al singolo, diventò realtà per la cooperazione convinta di molti; la Resistenza riuscì a far maturare un alto

livello di coscienza civica in milioni di persone.67

I ribelli non poterono essere, per le modalità di nascita e sviluppo, una forza militare in grado di contrastare l’azione delle forze tedesche sul territorio, ma minarono l’autorità della RSI e dall’estate del 1944, resero le strade della provincia pericolose, diffusero sfiducia e paura nel nemico, offrirono un’alternativa e una speranza per il futuro ai giovani in fuga dalla macchina bellica tedesca e da un fascismo agonizzante. Non si arresero non accettarono di essere testimoni passivi degli sconvolgimenti che

attraversavano il loro paese.68

3.2. La nascita della stamperia della Rocchetta

Una delle prime basi di stampa, fu creata alla Spezia, nel quartiere operaio del Canaletto, e fu installata, dopo l’8 settembre, in casa di Faustino Gelli, un artigiano di origine toscana, uno dei più infaticabili animatori della Resistenza nel quartiere spezzino.

67 A. Petacco, La Spezia in guerra 1940-45 cinque anni della nostra vita, La Nazione editore, Bologna

1984, p. 313

68

M. Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Laterza Roma, 2010, p. 276

96 Da questo centro del Canaletto uscirono i primi appelli scritti su carta-riso o ciclostilati, che venivano posti nelle cassette della posta, lanciati nei portoni, abbandonati sui sedili dei tram, nei locali pubblici, collocati vicino alle macchine operatrici delle fabbriche, perché li potessero leggere tutti e potessero giungere ai giovani affinché non si

presentassero alla chiamata alle armi dei repubblichini.69

Ma, qualche macchina da scrivere o qualche ciclostile, non potevano soddisfare il bisogno crescente di informazioni e di orientamento; di giorno in giorno si rivelava più forte la necessità di disporre di una tipografia.

Presentare ai cittadini un foglio stampato tipograficamente e non scritto con mezzi tanto comuni (come è una macchina dattilografica, che alla fin fine poteva anche essere adoperata da singoli, più o meno avventurosi), era come dare la prova che esisteva una organizzazione ben solida e responsabile.

Scartata l’idea di appoggiarsi a qualcuno degli operai delle tipografie ancora funzionanti, per la comprensibile ragione che esse erano sotto l’assiduo controllo di nazifascisti o anche per il fatto che fra le maestranze potesse esservi alcuno di cui non fidarsi, si decise di creare, con i mezzi che erano ancora tutti da trovare, una tipografia completamente nuova e clandestina.

Già tra il 1929 e il 1933, venne prescelto Lerici per il suo prevalente carattere di località balneare e turistica, senza presenza di fabbriche, dove quindi non si dava per temibile la

69 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di

97 presenza di una estesa, capillare e perciò forte organizzazione di classe operaia, capace di

dar vita ad un delicato congegno quale è sempre un centro di stampa. 70

Per le stesse ragioni, Lerici fu ritenuto il luogo più idoneo, sia per sviare ogni e qualsiasi ricerca della base di produzione della stampa, sia per collegarsi più rapidamente con i centri più vivaci della lotta, con La Spezia e specialmente con i nuclei più forti e organizzati di antifascisti, come Pitelli, Muggiano, Canaletto e Melara, e poi ancora con Arcola e Sarzana, che erano da sempre i Comuni più antifascisti ed aperti alla diffusione della stampa clandestina.

Al compagno Argilio Bertella venne in mente che posto più sicuro per la tipografia non poteva essere che la vecchia villa appartenente ai Marchesi De Benedetti costruita ai primi dell’800 sui monti della Rocchetta. Lontano dalle vie di comunicazione più praticate, quel casamento era poco abitato dai padroni, già da molti anni, tanto che a Lerici se ne andava dimenticando l’esistenza.

La costruzione, ancora oggi difficile da trovare tanto la vegetazione la tiene nascosta, era immersa tra gli alberi di un parco, che già tendeva a inselvatichirsi; i contadini ed i pastori del posto denominavano ormai il luogo con il nome significativo di “Fodo”, termine che nel dialetto lericino significa appunto “sito in cui la vegetazione è fitta e fosca”.

Nel 1943 la villa era di proprietà dell’avvocato Fontana di Carrara. Le informazioni presto assunte diedero la favorevole conferma che il Fontana era avvicinabile perché nella sua città aveva aderito al movimento antifascista.

70

A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 13-25

98 Recatosi nella sua casa, Alfredo Ghidoni (a cui venne affidata la responsabilità della Stampa e Propaganda e quindi dell’allestimento della tipografia clandestina di Lerici), contrattò l’affitto, che fu fatto figurare in testa a Merani Virgilio, costruttore di barche a vela, che agli occhi dei fascisti, poteva ben permettersi di affittare una villa per stabilirvisi con la sua famiglia, come sfollati. L’accorgimento funzionò.

99

100 Sotto il profilo operativo restavano però da risolvere difficili problemi iniziali e condizionanti: trovare e procurare la macchina tipografica, con il relativo corredo di caratteri e di materiale da composizione; trasportare tutto ciò, eludendo la vigilanza dei molti posti di blocco; approvvigionarsi della carta e dell’inchiostro; individuare il sito più sicuro per sistemarvi la tipografia, in maniera che a nessuno potesse venire in mente che potesse funzionarvi un apparato tecnico del genere.

La macchina, una vecchia pedalina, fu presa dalla tipografia Zappa in Via Duca di Genova (ora Fratelli Rosselli). Qualcuno aveva informato che era abbandonata, come un ammasso di ferro vecchio, in un cortile adiacente allo stabilimento e che il padrone era disposto a vendere.

La macchina tipografica, del peso di ben 7,5 quintali, venne caricata in un carro trainato da un robusto cavallo e celata sotto quantità sufficiente di fieno; poi con grande rischio trasportata sino alla villa.

Se si fosse presa la strada più diretta per Lerici, non si poteva dare ad intendere a nessuno che si portava un carico di ferro vecchio ad una fonderia, perché a Lerici non ve n’erano. Si decise di percorrere la strada di collina: Termo, Baccano, Canarbino, Pitelli, Pugliola, Rocchetta; tragitto più lungo ma certo meno battuto dal pattugliamento tedesco e quindi più sicuro. Una volta arrivata a destinazione la macchina venne montata pezzo dietro pezzo a ritmo febbrile.

La stampa veniva effettuata prevalentemente nelle ore in cui vi era il coprifuoco; tuttavia il fracasso, che la vecchia macchina faceva, era notevole e non poteva non dare preoccupazione.

101 Il rumore di una macchina tipografica era tipico con la sua cadenza e facile quindi da essere individuato.

Si pensò subito ad utilizzare la grande cisterna vuota, sottostante all’aia lastricata, da molto tempo fuori uso, quindi non umida e in buone condizioni di praticabilità.

Quando l’imboccatura della cisterna era ben tappata con il suo coperchio, all’esterno quasi non si sentiva nulla e comunque quello che si sentiva risultava indistinguibile a chi passava da quelle parti.

Si decise quindi di trasferire la macchina nella cisterna, di murare l’imboccatura naturale e, per accedere al vano, di scavare una piccola galleria di collegamento nel muro che dava direttamente nel bosco, dove, tra l’altro, approfittando della sorpresa, nel caso che si presentassero i tedeschi o le brigate nere, ci si sarebbe potuti nascondere meglio.

Con molta fatica di scalpello fu aperto così un buco nella spessa parete della cisterna, e purtroppo tempo prezioso occorse per smontare la macchina, che altrimenti non avrebbe

potuto essere calata attraverso l’imboccatura per collocarla poi nel nuovo ambiente.71

Durante le operazioni di stampa, tenuto conto della rumorosità, era prevista la guardia costante di un compagno che, con un bastone battuto sull’aia sovrastante, avrebbe dato un

eventuale segnale dall’allarme allo stampatore in cisterna.72

71 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di

liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 51-59

72

A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 74-77

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-Accesso alla cisterna della stamperia

Una volta superato il rischio dell’acquisto della macchina, si doveva affrontare di

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