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Il potere della comunicazione tra regime e resistenza

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE……… p. 2

1. PROPAGANDA E CENSURA FASCISTA………... p. 4

1.1 Un regime fondato sulle parole: il capo, Mussolini

1.2 L’educazione, la radio e le canzoni, il teatro, il cinema e la stampa

1.3 Cronologia: l’inizio della fine

2. RESISTENZA CLANDESTINA………. p. 50

2.1 La radio

2.2 La stampa

2.3 Organizzare una tipografia clandestina

3. LA TIPOGRAFIA DELLA ROCCHETTA DI LERICI……….. p. 86

3.1 Uno sguardo sulla Spezia in guerra

3.2 La nascita della stamperia della Rocchetta

3.3 Gli scioperi del Marzo 1944

CONCLUSIONI……… p. 129

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INTRODUZIONE

La tesi si propone di affrontare il tema della “Comunicazione” visto da due differenti punti di vista: da una parte quella creata dalla dittatura di Mussolini, basata sui due concetti fondamentali di censura e propaganda; dall’altra parte, la risposta della Resistenza con le sue azioni clandestine.

Il testo è strutturato in tre capitoli e sviluppato con il reperimento di informazioni all’interno di libri di testo, tramite la ricerca in Internet e la consultazione degli Archivi di di La Spezia.

Il primo capitolo, Propaganda e censura fascista, analizza il controllo dei mezzi di comunicazione durante il regime instaurato da Mussolini.

Una manipolazione che mirava a forgiare le menti dei più giovani, con grandi opere di scolarizzazione ed educazione, per creare una cultura popolare che lo appoggiasse in ogni scelta, che lo adorasse.

Con la dittatura, alla radio si potevano ascoltare solo informazioni che venivano accuratamente scelte, selezionate, solo programmi che non andassero contro l’ideologia fascista; lo stesso valeva per la stampa, dove i fallimenti economici e le cronache nere erano censurate per mostrare il fascismo come un modello di pace e moralità. La propaganda non riguardava solo la radio e la stampa ma anche il cinema e i manifesti che venivano usati per diffondere le idee conformi all’ideale fascista.

Il fascismo quindi, non solo tacitò con la forza ogni forma di dissenso ma, una volta giunto al potere, organizzò una fitta rete di disposizioni che assicuravano un’informazione asservita al regime.

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3 Nel secondo capitolo, Resistenza clandestina, si analizza il contrattacco sempre più organizzato dei partigiani e di tutti coloro che si impegnarono nella lotta contro il fascismo, mettendo a repentaglio la propria vita, attraverso la diffusione di trasmissioni radio, volantini e giornali che mettevano a nudo le oscure verità celate dal regime.

Il lavoro delle tipografie clandestine fu prezioso, indispensabile; la libertà di stampa è in fondo il potere di criticare il potere, e proprio per questo reca con se formidabili potenzialità. Informazione è libertà, qualità dell’informazione significa qualità della democrazia.

L’ultimo capitolo La Tipografia della Rocchetta di Lerici, tratta nello specifico il caso della stamperia clandestina allestita in una antica villa, nella provincia della Spezia; un punto nevralgico, di massima importanza per la diffusione di informazioni, l’organizzazione di scioperi e la continua lotta contro i fascisti.

Ancora oggi le testimonianze e le prove, come articoli di giornale e immagini, servono a ricordarci i fatti affinché non si ripetano più.

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1. PROPAGANDA E CENSURA FASCISTA

1.1. Un regime fondato sulle parole: il capo, Mussolini

Una delle domande più drammatiche che ciclicamente la storia ci pone, è come sia possibile che una popolazione possa permettere l’instaurazione di un regime autoritario; ci si interroga in quale modo un’intera nazione possa essere stata asservita ad una ristretta cerchia di persone, se non addirittura a un singolo uomo.

A differenza dei vecchi regimi assolutistici, quelli nuovi totalitari dei venti anni fra le due guerre, non si accontentarono dell’obbedienza passiva dei funzionari e dei cittadini ai voleri governativi; vollero plasmare gli uni e gli altri secondo le idee del partito impadronitosi del potere, quindi dello Stato, e trasformare la fisionomia stessa di questo. Non più obbedienza giuridica, esteriore, doveva trattarsi di vincolo della coscienza, di professione e di fede.

La parola è tradotta, riprodotta, dilatata, offesa, censurata, alienata, sacralizzata, esaltata, schedata, cancellata secondo le opportunità di chi manda e di chi riceve.

Nella seconda metà del secolo, quindi, la moltiplicazione degli strumenti a disposizione della propaganda alimentarono la tendenza delle strategie a trasformarsi in veri e propri strumenti non più di condizionamento, bensì di manipolazione delle coscienze.

La politica delle comunicazioni praticata da tutti i governi negli anni della guerra ebbe come fine prioritario la produzione della massa, cioè l’unificazione dell’intera società in un’unica collettività. Un contributo considerevole in tal senso derivò proprio, dall’uso particolare che in quegli anni si fece dei media, poiché nel corso della guerra i vertici

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5 politici di ogni impero o Stato coinvolto furono indotti a ricorrere ai mezzi e alle strategie comunicative più efficaci per sollecitare la mobilitazione collettiva ai fini di una

conclusione favorevole del conflitto. 1

La volontà repressiva trasformò le parole di governo in parole d’ordine cui obbedire, imposte tramite decreti ingiuntivi sotto forma di slogan veicolati attraverso la capillare spettacolarizzazione del linguaggio politico e la potenza persuasiva dei mass media. Il fascismo ebbe un consenso molto più vasto di quanto non ci si potesse attendere, e di quanto oggi si tenda ad ammettere.

La conclamata marcia su Roma fu una specie di passeggiata politico-militare; il fascismo giunse al potere, operando da prima con gradualità, dal 1922 al 1925 e quindi con decisione fra il 1925 e il 1930, comprendendo il valore della persuasione continua, graduale ma perseverante e accortamente condotta.

Un imponente spiegamento di vecchi e nuovi strumenti per la propaganda seppe determinare un massiccio condizionamento, quasi totale in tutti gli strati sociali.

Il regime diede una fortissima importanza al sondaggio continuo dell’opinione pubblica. Se nei primi anni della dittatura il potenziamento dell’apparato poliziesco corrispose soprattutto ad un’esigenza puramente repressiva, fu certo che, col consolidarsi del regime e con l’emarginazione delle opposizioni, gli strumenti di controllo assolsero sempre più anche ad un’altra funzione, quella appunto di una inchiesta quotidiana, voluta e consapevole, sulla qualità, la quantità, la vastità del consenso e del dissenso. Ciò non significava che il potere fascista, al di la di parziali correzioni di indirizzo e di qualche concessione in settori limitati alla gestione del sociale, si sentiva realmente condizionato

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6 dall’opinione pubblica. La dittatura, privando la società civile di una dimensione pubblica con funzioni politiche, impediva ogni incidenza degli umori popolari nei processi decisionali propriamente politici. È chiaro che il consenso era funzionale alla stabilità del regime; ma, in presenza del dissenso, il fascismo rimaneva comunque in grado di mantenere la sua presa nel paese.

Ai vertici del regime si organizzò un sistema capillare di ascolto quotidiano su diversi livelli: le strutture fondamentali erano la direzione generale di Ps del ministero degli interni, la polizia politica e l’Ovra; ma a servirsi di una rete di informatori furono molte vecchie e nuove istituzioni dello stato fascista dalle questure, ai carabinieri, alle segreterie federali dei fasci.2

Gli imperativi di bonifica fascisti furono espressione di impulsi tecnocratici di pianificazione sociale e di un tipo di pensiero scientifico che affrontava la società umana come un organismo da manipolare mediante un’operazione chirurgica di vaste dimensioni; i fascisti mobilitarono le scienze naturali e sociali per dirigere e plasmare la popolazione italiana.

Questo progetto, non meno di altri schemi nazionalistici del fascismo, implicò la mobilitazione delle risorse statali per facilitare il processo di rigenerazione del collettivo sociale. La cultura fu vista come uno strumento integrativo che avrebbe creato un codice comune di valori per legare gli italiani allo stato. Ma essa agì anche come meccanismo stabilizzante che ribadiva il concetto di gerarchia sociale e i comportamenti prescrittivi

prefigurati dai programmi di risanamento del regime.3

2

B. Micheletti, L’Italia in guerra 1940-43, Annali della fondazione L. Micheletti, Brescia 1989. p. 657

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7 Per riuscire a comprendere fino in fondo il consenso ottenuto da Mussolini, è necessario prendere in considerazione la sua capacità comunicativa e persuasoria.

Essosapeva bene come manipolare le idee e le parole, tollerando o reprimendo anche con

la violenza, condizionando le coscienze e indirizzando la libertà di operare scelte.

Il fascismo comunque, non avrebbe potuto svolgere la sua azione se non avesse trovato un terreno già maturo per una simile sperimentazione: alla fine della Prima Guerra Mondiale, il fascismo era, infatti, conscio della contrapposizione tra la grandezza della Roma antica e la situazione italiana, ulteriormente umiliata dalla cosiddetta "vittoria

mutilata". Le sanzioni economiche furono sfruttate come motivo di coesione interna e,

l’autarchia, cioè l’autosufficienza economica, divenne la bandiera del regime.

La sproporzione tra un passato di gloria e un presente di miseria fu decisiva per la nascita e il peso che acquistò il mito della “Patria” (uno dei più assiduamente sfruttati dal regime fascista).

Il regime si occupò di promuovere l’artigianato, celebrando i caratteri somatici e i consumi regionali nell’arte realista e nelle feste popolari, e sviluppando culture pubblicitarie che evidenziarono simboli e stili estetici riconoscibilmente “nazionali”,

abbinando programmi autarchici a disegni di espansione territoriale.4

Nacque nei giovani una fede esente da dubbi ed esitazioni, un amore verso la patria gloriosa che aveva sempre vinto i nemici e colonizzato i vinti. Questo mito fu usato dal fascismo anche per eliminare gli oppositori: chi, infatti, protestava o lottava per mutare la situazione imposta dal regime, veniva accusato di non amare la patria. Anche il mito della “Romanità” e della classicità tramandate dai grandi scrittori del passato e vivificato dalla

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8 passione risorgimentale fu consapevolmente inculcato dal regime nella mente e nell’animo delle nuove generazioni.

La figura del “Capo Duce” fu vista dal popolo italiano come quella dell’artefice della patria. Esso fu, infatti, visto come il condottiero capace di rappresentare gli interessi degli italiani e i loro desideri in modo da portare l’Italia al prestigio che le era dovuto per il suo glorioso passato. Esso era una presenza costante, una figura impossibile da ignorare e che accompagnava gli italiani in molte sfere della loro esistenza. Il suo ritratto e le sue frasi lapidarie figurarono in molti luoghi pubblici, le sue attività erano costantemente monitorate dalla stampa quotidiana, il suo modo di parlare, il suo aspetto, i suoi gesti e

atteggiamenti venivano devotamente imitati.5

Mussolini, grazie alla sua capacità oratoria, riuscì ad arringare le folle ottenendo il loro completo consenso tanto da far accettare la sua parola come unica verità.

Prova tangibile di ciò è fornita dalle numerose statue erette in suo onore, dalle sue immagini che comparivano ovunque e dal fatto che i suoi motti venivano riportati persino sulle facciate degli edifici. Mussolini fu circondato da un apparato divistico che si tradusse in forma di lettere di ammiratori, esibizioni personali, interpretazioni

cinematografiche, espressioni di approvazione personale. 6 Esso riuscì a far leva, a

toccare sapientemente il tasto della credibilità apparendo come astro nascente, una sorta di idolo per i giovani.

5

D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936-1954, Il Mulino, Bologna, 2007, p.330-332

6 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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9 La propaganda fascista, infatti, ebbe come fine della sua attività quello di ribaltare completamente alcuni concetti di base legati alla cultura tradizionale di intendere la formazione dell’uomo. Il fine più importante fu quello di creare correnti di pensiero e atteggiamenti emotivi comuni a una massa di milioni di persone e, per attuare questo scopo, fu necessario atrofizzare in ciascuno il proprio individualismo critico, morale e intellettuale.

Il nuovo uomo del fascismo dovette perdere la componente “individualità”; questa fu sostituita, coerentemente alla nuova visione etica dell’individuo e dello stato, dalla “subordinazione”, anima della disciplina. La disciplina doveva essere accettata, quando non era accettata, doveva essere imposta.

Affinché la propaganda potesse efficacemente penetrare nelle coscienze, condizionarle e indirizzarle positivamente verso interessi e tensioni politiche ben definite, fu necessaria la creazione di un linguaggio e di una tecnica di diffusione, che facendo leva più o meno occultamente su complesse situazioni psicologiche, fabbricasse serenità o ansie, timori o aggressività.

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-La faccia di Mussolini su palazzo Braschi a Roma, per il “si” alle elezioni del 1934

Il carisma del capo vincola la massa all’ideologia e l’individuo, rinunciando all’isolamento, supera le frustrazioni, sentendosi partecipe dell’azione.

Gli individui che compongono una moltitudine hanno bisogno che il “capo” li ami con un amore giusto e uguale; il linguaggio del capo è sacro, carismatico, lapidario.

In alcune dichiarazioni, Mussolini confessò: “La massa per me non è altro che un gregge di pecore, finché non è organizzata. Non le sono affatto ostile. Soltanto nego che possa

governarsi da sola”.7

La nascita del mito del capo riguardo alla figura di Mussolini è interpretabile ponendo il problema secondo due prospettive.

7 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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11 La prima fu la rapidità della sua ascesa al potere: fondò i Fasci di Combattimento il 19 marzo del 1919 a Milano e realizzò la marcia su Roma il 18 ottobre 1922, quaranta mesi per giungere al potere. La rapidità della sua ascesa agì come un forte potere condizionante della simpatia di molti verso la sua personalità, che si manifestava come forte, risoluta, tendente all’azione e quindi alla risoluzione dei problemi degli italiani. Il secondo fatto che concorse subito alla creazione del suo mito come capo, fu l’atteggiamento esteriore che iniziò a prendere in pubblico durante i suoi discorsi, come in tutte le cerimonie ufficiali davanti agli obiettivi fotografici.

La testa reclinata all’indietro, la mascella volitiva, i pugni ai fianchi, lo sguardo vigile, gli occhi profondi, le labbra serrate, il profilo da “padre della patria”: questi erano i suoi atteggiamenti particolari. Il tocco definitivo per creare il “personaggio”, il suo pezzo forte si potrebbe dire, era il modo particolare che aveva di parlare alla folla: mentre faceva scorrere per qualche minuto il suo sguardo sulla folla rumoreggiante, Mussolini aveva tratti del drammaturgo.

Fu necessario convincere la massa ad avere fede nel suo capo che non poteva sbagliare, poiché tutto in lui, dal suo profilo di antico imperatore romano alla sua intelligenza politica, al futuro di grandezza che additava alle nuove generazioni italiane, tutto in lui era come se fosse predestinato a una vita di grandezza per la patria.

“Mussolini ha sempre ragione” era il pilastro del mito e per meglio calarsi nella parte che si creò, il duce, non tralasciò occasione per mettersi in evidenza e manifestare il suo eclettismo in fatto di capacità e interessi.

Eccolo ritratto mentre tira di scherma, mentre con il suo cavallo bianco supera un ostacolo, ecco una sua nuotata in piscina, una passeggiata durante il tramonto sulla riva

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12 del mare, come mietitore e trebbiatore nelle paludi bonificate, con gli sci al Terminillo, al volante di un’automobile sportiva, alla guida del suo aereo personale, su una moto a un raduno di centauri, e poi le innumerevoli immagini dei primi colpi di piccone o della posa della prima pietra, a seconda che si distruggesse o costruisse.

L’uomo che pronunciava slogan e inviava messaggi dal balcone di Palazzo Venezia, dai cinegiornali dell’istituto Luce e dai microfoni dell’Eiar, si abbigliava nelle fogge più varie: la mise borghese dell’Italia giolittiana, gli abiti militari, gli stivali, il costume di lana nera per la spiaggia, i rustici panni campagnoli, l’orbace divisa fascista, i completi da cavallerizzo, le ghette, il tight, la bombetta; o la parziale nudità, con il torace scoperto.

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13 Ogni giorno la stampa quotidiana riportò un suo discorso, un suo giudizio, una sua immagine. In tutti i testi quando lo si citò con un pronome, questo venne scritto sempre maiuscolo e spesso anche con caratteri tipografici che lo facessero emergere nettamente sul resto dello scritto.8

In questo poderoso meccanismo, insieme a strumenti del progresso tecnologico come il cinema e la radio, occupò un ruolo di primo piano l’oratoria mussoliniana: una mescolanza colorita di termini aulici e popolari, colti e plebei, gremita di aggettivi e di avverbi.

Il tono squillante che scendeva dall’alto e le ovazioni che dalla base salivano verso l’oratore determinavano un circuito di risonanza a fasi alterne. Tutto finiva per essere psicologicamente e quasi fisiologicamente alterato: l’animo si trasformava in animosità. La parola del Duce assumeva il valore del dono mistico, quasi fosse un’ostia consacrata, un simulacro divino, anche per il tragitto spaziale che essa compiva, dall’alto verso il basso, planando dal balcone, dal podio, dal trattore, dall’etere verso la folla. Una verticalità dominante, che non era soltanto simbolica ma obbediva a criteri di funzionalità. Anche in termini di prossemica, la disciplina che studia il modo in cui l’individuo si colloca nello spazio e l’uso che né fa, lasciò il segno della sua volontà di sopraffazione emotiva, di seducente divismo persino in atteggiamenti piuttosto bruschi o corrucciati.

8 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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-Mussolini in uno dei suoi comizi dal terrazzo di palazzo Venezia, Roma

Mussolini non iniziò mai un discorso con un generico appello a dei “cittadini”, ma esemplificò, spesso in modo ridicolo, la qualità e la quantità dei destinatari dei suoi messaggi. Ecco quindi gli appelli agli “uomini”, alle “donne”, alle “camicie nere”, agli “ufficiali”, ai “sottufficiali”, agli “italiani all’estero”, agli “avanguardisti”…

Era chiaro che il destinatario del messaggio, identificandosi con la categoria sociale menzionata nel messaggio stesso, tendeva a considerarsi responsabilizzato riguardo ai contenuti del messaggio. La mancanza quindi della libertà individuale poteva essere in parte surrogata da questo equivoco prodotto, da una fittizia responsabilizzazione riguardo ai contenuti della propaganda.

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15 Il Fascismo impose le parole del suo logos: i testi scolastici del tempo dimostravano fino a che punto fosse arrivata l’alienazione linguistica, etico-politica, concettuale di autori e lettori obbligati al linguaggio e al pensiero instaurati dal regime.

Il linguaggio fascista non era molto ricco di termini, né era strutturato sintatticamente in modo complesso. Le sue caratteristiche peculiari erano la scelta dei termini basata sulla ricerca di “effetti”, e sulla brevità della frase che molto spesso restava nella fraseologia d’uso come motto o sentenza. Quando parlava, adorava gli effetti musicali e ritmici, le assonanze, le allitterazioni, la perentorietà assiomatica, le inversioni, le iperboli, le ripetizioni: “Il bello è venuto e più ancora verrà”; “Intangibile prestigio”; “Compagine

sorda e torbida”, “Chi mi ama mi segua”, “Credere, Obbedire, Combattere”.9

Un posto importante aveva la scelta dei sostantivi e delle aggettivazioni, che avevano il compito di eccitare, nella mente degli individui emotivamente più fragili, come i giovani, sensazioni e aspirazioni conformi allo spirito che la propaganda si prefiggeva di creare nel paese. Ecco qualche esempio di avverbi, che allora ebbero una grande fortuna: universalmente, magnificamente, solennemente, irremovibilmente, irrevocabilmente. Gli aggettivi “fascisti”: intrepido, inesorabile, memorabile, millenario, prorompente, disciplinato, giovane, immortale, orgoglioso ecc.

Per i verbi basta citare questi: eseguire, giurare, celebrare, aleggiare, marciare, trionfare.10

Fra le maggiori qualità dopo aver ascoltato un discorso di Mussolini, riconosciamo:

9

E.Golino, Parola di Duce. Il linguaggio totalitario del fascismo e del nazismo, BUR saggi Rizzoli Milano, 2011, p. 47

10 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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16 o Il periodare compiuto: non lasciava mai una frase in tronco

o Una frequenza di definizioni morali, pittoresche e incisive che restavano facilmente nella memoria

o L’affermazione continua, perentoria, riposante, dove i più si adagiavano con

fiducia: niente nebbia, niente grigi, tutto il mondo ridotto a bianco e nero. I dubbi se li teneva per se.11

Il fascismo non pretese mai di essere giustificato, il suo fine era di essere accettato. La questione era far colpo sugli animi, non sui cervelli.

Il crollo improvviso del mito fascista nella coscienza di massa fu dovuto allo scoppio della guerra, l’occasione che dette inizio al principio della fine.

1.2. L’educazione, la radio e le canzoni, il teatro, il cinema e la stampa

I miti introdotti e ripresi dal fascismo costituiscono la chiave per intendere l’adesione dei giovani al regime; per quanto possano oggi apparire incoerenti e persino ridicoli, antiquati e mistificanti, fu proprio attraverso di essi, inculcati sin dall’infanzia e insistentemente ripetuti, che l’ideologia fascista fece presa sulle nuove generazioni.

11 E.Golino, Parola di Duce. Il linguaggio totalitario del fascismo e del nazismo, BUR saggi Rizzoli

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17 I giovani costituirono un riferimento costante della propaganda fascista e, la loro adesione, fu uno dei capisaldi dell’immagine che il fascismo voleva dare di sé.

Non è un caso che l’inno ufficiale del regime fosse Giovinezza e che i bambini fossero irreggimentati sin dai primi anni nelle maglie dell’organizzazione fascista.

Giovane era chi dimostrava una disponibilità totale, gusto del rischio, chi era pronto a compromettersi sino in fondo per il trionfo della rivoluzione fascista, chi rispettava il regolamento:

o Obbedire al Duce.

o Odiare sino all’ultimo respiro i nemici del Duce, cioè della patria.

o Smascherare i traditori della Rivoluzione senza sbigottire per la loro eventuale potenza.

o Non avere paura di avere coraggio.

o Non venire mai a compromessi col proprio dovere di fascista, dovessero andare perduti il grado, lo stipendio, la vita.

o Meglio morire orgogliosamente amato che vivere pinguemente avvilito. o Spregiare il cadreghino.

o Odiare il vile denaro.

o Preferire la guerra alla pace, la morte alla resa.

o Non mollare mai.12

12

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18 Si deve lodare dell’eloquio mussoliniano la forza, la potenza trascinante, la capacità di persuasione, l’abilità retorica, lo spessore filosofico, la pregnanza simbolica. Mussolini voleva stregare, e lui stesso affermava: “Le parole hanno la loro tremenda magia”.

Il fascista - dai bambini ai soldati a tutti gli altri adulti - era forte e atletico, aggressivo,

fedele e militarizzato. L’etica fascista fu un’etica guerriera, fortemente autoritaria, che

riconosceva come suo fulcro essenziale la figura del Duce.

La Scuola Fascista fu un episodio estremo della pedagogia di regime, vertice elitario di un più vasto progetto d’informazione del nuovo cittadino italiano. Ma il terreno sul quale operare capillarmente per instillare l’ideologia del fascismo alla radice dei processi educativi era l’intero sistema scolastico del Paese.

Nel campo dell’educazione il fascismo esordì con la riforma della scuola promossa da

Giovanni Gentile nel 192313, che Mussolini definì come la più fascista delle riforme.

Essa mirò a ridare dignità al ruolo di maestro e agli studi, assegnando alla scuola pubblica un’alta funzione di controllo su tutto l’insegnamento medio, che aveva l’importante e delicato compito di forgiare le menti delle nuove generazioni; ma il dichiarato proposito fu anche quello di contenere il numero della popolazione scolastica notevolmente cresciuta durante il periodo giolittiano.

I principi fondamentali della Riforma Gentile furono i seguenti:

o Controllo statale della scuola, specie mediante gli esami per il passaggio da un

grado di apprendimento a quello successivo.

13 E.Golino, Parola di Duce. Il linguaggio totalitario del fascismo e del nazismo, BUR saggi Rizzoli

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19

o Istituzione di un albo professionale degli insegnanti, i quali venivano selezionati

per mezzo di concorsi pubblici.

o Rafforzamento della gerarchia all’interno degli istituti: a capo di essi vennero

posti direttori (per la scuola elementare), presidi (per la scuola media), e rettori (per l’università).

L’orientamento scolastico comprendeva:

o Scuole primarie ed elementari;

o Scuole complementari per l’avviamento al lavoro;

o Scuole medie, distinte in tre indirizzi: istituto tecnico professionale, ginnasio/liceo

classico o scientifico e istituto magistrale.

Vennero così istituiti due canali scolastici senza sbocco: la scuola complementare, destinata ai modesti cittadini, e il liceo femminile, destinato alle giovinette senza particolari ambizioni.

Tra le scuole secondarie l’unica che consentiva sbocchi a tutte le facoltà universitarie era il liceo classico, mentre lo scientifico non permetteva l’accesso a Giurisprudenza e Lettere e Filosofia, e gli istituti tecnici solo a Economia e Commercio, Agraria e Scienze Statistiche. La legge prefissava inoltre un numero chiuso di iscrizioni e di istituti per tutti i corsi con sbocchi universitari.

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20 L’azione fu graduale: prima venne la creazione dell’Opera Nazionale Balilla (1926), che avrebbe dato “assistenza ed educazione fisica e morale alla gioventù”, nel 1928 poi, con il Regio Decreto n. 2176, tutte le scuole statali elementari, civiche, non classificate, biblioteche popolari, centri ricreativi, doposcuola. Tutto venne affidato all’ O.N.B. Per creare "l’italiano nuovo" la scuola fascista propose testi scolastici, quaderni, diari e pagelle in cui si esaltava il fascismo sia attraverso le immagini, strumento rapido ed efficace, che attraverso i contenuti.

Venne istituito per la scuola elementare un libro di testo unico per ciascuna classe e per tutte le scuole italiane: il Libro di stato. Le circolari ministeriali, dal 1930 al 1940, diedero poi disposizioni sempre più precise per eliminare nelle scuole medie e superiori i testi non allineati con gli ideali fascisti.

Sotto forma di romanzo vennero prospettati i punti basilari della nuova educazione della gioventù. Questi si potevano sintetizzare così: la patria, la famiglia, la religione, il culto della romanità, la disciplina, le differenziazioni sociali e quindi le subordinazioni gerarchiche.

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21

-Due pagine di un testo scolastico che inneggiavano al Duce.

Dal giugno 1935, Mussolini istituì il "sabato fascista", che interrompeva la giornata lavorativa del sabato alle ore tredici perché il pomeriggio venisse dedicato all’istruzione di carattere pre e post militare.

Ogni sabato tutti i ragazzi e i giovani Figli della Lupa (4-6 anni), Balilla e Piccole italiane (7-12 anni), Avanguardisti e Giovani Italiane (13-18 anni), Giovani Fascisti (18-21 anni) e Gruppi Universitari Fascisti, G.U.F. furono chiamati a regolari adunate paramilitari. Si

fecero gare sportive locali, provinciali, regionali, nazionali e gare culturali.14

A partire dal 1925 il regime fascista avviò anche un vasto programma di nazionalizzazione del tempo libero, dai divertimenti agli sport, il cui primo passo fu la

14G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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22 creazione (aprile 1925) dell’Opera Nazionale Dopolavoro (OND). La creazione dell’OND rese istituzionali le iniziative già esistenti, come i circoli ricreativi patrocinati dai sindacati fascisti sorti autonomamente nelle vecchie sedi socialiste, eliminandone il carattere politico e sopprimendo le analoghe organizzazioni antifasciste.

Tutto ciò fu per Mussolini un pretesto per il suo progetto di uno stato forte e autoritario, con una popolazione ordinata, disciplinata, obbediente e, all’occasione, pronta e unita nel rispondere alle chiamate del regime e nel portare al fascismo un appoggio di massa, un’adesione spontanea che la repressione e la forza di certo non avrebbero potuto ottenere.

Di notevole importanza fu anche la radio, che trasmetteva i discorsi del Duce, oltre ai notiziari sportivi e ai programmi musicali, e che portò avanti una grande opera di persuasione verso la massa.

Quelli furono, infatti, i primi anni in cui si poteva parlare di una società di massa e quell’innovazione, rivestì grande importanza nella propaganda fascista.

Le trasmissioni radio, iniziarono nel 1924 con la creazione dell’Unione Radiofonica italiana (U.R.I.) dove, le notizie furono sottoposte a controllo e censura, e assunsero, poi, un carattere marcatamente fascista nel 1928.

I testi spesso erano redatti dallo stesso Mussolini, il quale richiese che “venissero scelti annunciatori con una voce e una cadenza simili alle sue”. I primi conversatori furono scelti tra i più noti conferenzieri, ma ben presto ci si accorse che la retorica verbosa e tribunizia poco si confaceva alla brevità dei tempi e alla sintesi della comunicazione

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23 radiofonica. Gli stessi toni squillanti incontravano il limite invalicabile del microfono: si

doveva calibrare la distanza per evitare rumori, fruscii, sibili o imbarazzanti pause.15

L’anno successivo l’U.R.I. evolse in Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR) e fu creato il "Giornale Radio", un radiogiornale che rivisitava i fatti del giorno in ottica fascista e che si ripeteva a intervalli regolari durante l’intera giornata.

-Manifesti del’URI e dell’EIAR

Quando, nell’ottobre 1922, Mussolini salì al potere, l’Italia era, quanto allo sviluppo di una rete radiofonica nazionale, sensibilmente indietro rispetto agli altri paesi. Non era

15 G. Isola, Abbassa la tua radio, per favore… Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, La Nuova

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24 stata ancora costruita alcuna emittente che funzionasse continuamente, e la radiofonia restava, in buona parte, nella fase sperimentale.

Il fatto che, nella penisola, la radio si sviluppò pressoché per intero durante il periodo fascista rese a Mussolini relativamente facile porre questo importante mezzo di comunicazione sotto il suo pieno controllo (erano gli stessi anni in cui si consolidava il suo potere politico sullo Stato Italiano).

Una volta superate le esitazioni iniziali, il regime fece il suo ingresso nel campo delle comunicazioni radiofoniche con ponderato entusiasmo, e cominciò a scorgere le più vaste implicazioni del nuovo strumento.

Mussolini parlò alla radio per la prima volta il 4 novembre 1925 dal Teatro Costanzi di Roma; molti cuori vibrarono di commozione al sentire la voce stessa del Duce.

Alla fine del 1928 erano ormai presenti in Italia tutti i prerequisiti essenziali per il funzionamento di una rete radiofonica nazionale. I poteri di controllo fondamentali, quelli concernenti la selezione e la distribuzione del materiale da trasmettere, erano nelle mani dello Stato.

Vennero messe in funzione cinque stazioni trasmittenti (a Roma, a Napoli, a Bolzano e a Genova), le quali produssero, tra programmi d’intrattenimento e notiziari, un totale annuale di oltre seimila ore di trasmissione, ovvero diciassette ore al giorno.

In quegli anni il maggiore trionfo di Mussolini in fatto di oratoria radiofonica fu il discorso sulla battaglia del grano (10 ottobre 1926), che fu udito simultaneamente in tutto il paese.16

16 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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25 Con sei trasmissioni quotidiane, di lunghezza compresa tra i dieci minuti e la mezz’ora, il Giornale Radio dava succintamente conto degli avvenimenti internazionali, dei progressi del regime e delle attività dei gerarchi più in vista.

Il regime comprese presto l’efficacia di questa tecnica nel risvegliare l’interesse dell’ascoltatore, come anche la sua potenziale utilizzabilità politica. Mediante questo semplice espediente, il regime fu in grado di introdurre la politica direttamente nelle case di tutti gli italiani.

Nello stato totalitario la radio ebbe il compito di stringere insieme il popolo italiano, mediante comuni ideali e una comune esperienza culturale: non doveva diffondere stupide canzonette di gusto discutibile, ma assolvere, in modo piacevole, una funzione educativa; infatti, fin dall’inizio, il pubblico dei bambini (soprattutto nell’età compresa tra i 7 e i 12 anni) costituì l’obiettivo specifico di una parte importante della programmazione quotidiana, mostrando il carattere educativo e ricreativo del mezzo

radiofonico.17 In breve tempo, ogni stazione radio ebbe il suo programma pomeridiano

speciale per ragazzi, vennero realizzati sceneggiati radiofonici che rievocavano momenti di una storia d’Italia ridotta ad aneddoto o leggenda, si cantarono le glorie del regime e si documentarono gli sforzi di modernizzazione del paese e la sua forza bellica.

Il numero dei possessori di apparecchi radiofonici restò, però, piuttosto limitato a causa dell’obbligo di versare un canone annuale di abbonamento all’EIAR.

17

G. Isola, Abbassa la tua radio, per favore… Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, La Nuova Italia editrice, Scandicci (Firenze) 1990. P. 114

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26 Nel 1926 gli abbonati ai servizi radiofonici dell’U.R.I. erano stati circa 27.000; due anni dopo il totale degli abbonamenti passarono a circa 61.500. Si registrò, però, una grossa sproporzione nella distribuzione geografica degli apparecchi.

Al fine di porre l’esperimento su una base permanente, nel giugno 1933 il regime creò l’Ente Radio rurale (ERR), un organismo incaricato della distribuzione di apparecchi radio alle scuole elementari delle campagne, gli insegnanti delle scuole rurali vennero messi in grado di utilizzare la radio. Un’organizzazione creata allo scopo di far uscire la radio dal suo bacino di fruizione quasi esclusivamente urbano, settentrionale e borghese e di creare un’utenza di massa nazionale, in particolare fra gli scolari e gli agricoltori. Nel 1939 le scuole elementari ricevettero regolarmente i programmi settimanali della Radio rurale.18

Nei centri più importanti, dove la maggior parte delle aule era fornita di un apparecchio radio, i programmi erano trasmessi alle scuole medie e ai licei direttamente dall’Eiar. Non solo si decise di investire nelle campagne a partire dall’educazione primaria; un altro espediente a cui si ricorse per estendere l’ascolto della radio fu l’installazione di “uditori collettivi” in quei luoghi strategici in cui i contadini si incontravano nei loro momenti di riposo. Per ovviare alla difficoltà degli italiani ad acquistare una radio fu anche offerta la possibilità di acquistare una “radio balilla” a rate.

Nonostante gli sforzi compiuti inizialmente per adattare la forma e il contenuto di questi programmi al livello d’istruzione degli studenti, lungo tutti gli anni Trenta le trasmissioni destinate alle scuole restarono rozze e semplicistiche. Tuttavia il regime continuò a

18

D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936-1954, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 241-244

(27)

27 prendere in considerazione sempre nuovi metodi per l’impiego della radio ai fini della

sua politica educativa e culturale.19

Il peggioramento delle sorti della guerra su tutti i fronti inasprì il tono altisonante e propagandistico del palinsesto: era un invito al paese a radunare le forze e ad accrescere la fede nella vittoria immancabile; proprio l’ansia per le sorti del conflitto determinò un ulteriore crescita degli abbonamenti.

Dopo una prima fase di totale arruolamento della radio nel conflitto in corso, attraverso l’assoggettamento della programmazione radiofonica alla causa della patria, al fine di contribuire ad alimentare lo spirito nazionale della popolazione e, di contrastare la propaganda nemica, la possibilità di sintonizzarsi su emittenti straniere che diffondevano informazioni fortemente contrastanti con le veline del regime, contribuì a diffondere forte scetticismo circa le rappresentazioni della realtà che i media italiani si ostinavano ad offrire, e ad alimentare. Per questo motivo, il problema delle radio straniere fu considerato particolarmente grave. I programmi propagandistici radiodiffusi da Londra e da Mosca furono oggetto della vigilante e continua attenzione del ministero della Cultura Popolare, il quale, ricevette uno stanziamento di sessanta milioni per costruire stazioni di disturbo nelle principali città italiane; pesanti pene vennero comminate ai malcapitati

scoperti all’ascolto di radio estere.20

È difficile determinare gli effetti reali della propaganda radiofonica fascista sugli italiani, o misurare le loro reazioni ad essa. Al vertice della popolarità stava probabilmente il

19

G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma, 1979, p. 81

20

(28)

28 cinema, e i giornali continuarono a rappresentare la fonte più importante d’informazione di base. D’altro canto, la radio raggiunse milioni di persone che non avevano accesso né ai giornali né al cinema, o che non potevano concretamente utilizzarli per limiti finanziari o di distribuzione. È indubbio che attraverso di essa il fascismo riuscì a condurre ad una nuova forma di esperienza culturale gli italiani di tutte le classi sociali e di ogni ambiente, dai contadini delle campagne ai ceti medi urbani e agli operai dell’industria.

Vi erano poi alcuni settori, considerati di livello artistico e culturale secondario, che si rivelarono fonti assai preziose per indagare gli aspetti della propaganda e della mentalità collettiva del tempo: come la canzonetta e lo spettacolo minore, di massa.

Innanzi tutto servivano a comprendere i meccanismi usati dal fascismo per coinvolgere le masse e, più in particolare, come venivano semplificati e volgarizzati alcuni temi fondamentali della propaganda di regime.

Rispetto ad altri settori della comunicazione, lo spettacolo per le masse e la canzonetta di musica leggera si servirono di una veste piacevole e accattivante per giungere presso strati sociali vasti e popolari.

Per quanto riguarda le canzoni, l’avvento del fascismo e soprattutto la sua burocratizzazione con la creazione di una quantità di enti e organismi in cui era inquadrata la popolazione, aveva dato luogo ad una grande produzione di canti. Ogni organizzazione del regime aveva il suo inno: dai balilla agli universitari, dalle giovani italiane ai lavoratori, dalla milizia al Dopolavoro e così via. Naturalmente non si contavano le odi, le marce, i canti e quant’altro ancora dedicati a Mussolini in persona e che contribuirono non poco a diffondere tra le masse il mito del duce.

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29 Evidentemente si cercava di corrispondere ad un clima di eccitazione collettiva che in un primo momento sembrava contagiare un po’ tutti.

In questo periodo iniziale, gran parte dei motivi erano dedicati ai combattenti, indiscussi protagonisti, ammirati e quasi invidiati da chi era costretto a rimanere a casa.

Va inoltre citato anche un filone di canzoni pedagogiche, tendenti a mettere in guardia militari e civili dalla presenza della quinta colonna nemica che sembrava essere dietro ogni angolo.

Con il passare del tempo, e lo scoppio della guerra, invece, il regime si trovò costretto a ricorrere ad una serie di incentivi (anche in denaro) per far nascere canzoni di guerra al passo con gli eventi e propagandisticamente efficaci; il cambiamento di rotta fu notevole. La canzone non ebbe più il compito di testimoniare e propagandare il conflitto, ma l’opposto: farlo dimenticare, regalare un momento di quiete e distrazione.

Per quanto riguarda il teatro, le compagnie di attori attingevano a due diverse fonti per la scelta del repertorio. La prima era costituita da un ricco catalogo di titoli preventivamente approvati e messi a disposizione di tutte le compagnie iscritte a prezzi e modalità di favore. I contenuti di questo repertorio erano, quindi, accuratamente controllati e facevano parte di quel settore di teatro italiano tradizionale più conosciuto e collaudato. A questo catalogo erano stati aggiunti alcuni titoli di carattere politico o apologetico che, comunque, non assunsero mai una grossa importanza dal punto di vista quantitativo né tanto meno da quello qualitativo.

È in questa produzione che si poterono trovare utili indicazioni su come veniva visto, e a volte “reinterpretato”, il fascismo degli ambienti da cui provenivano gli autori dei copioni

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30 e quale immagine ne avessero veramente ampi strati sociali, al di la dei canoni della propaganda ufficiale. Una fonte come quella della censura teatrale risultò tanto preziosa perché permise di esaminare i copioni così come erano scritti, prima, che fossero tagliati o modificati dall’autorità competente per la rappresentazione.

Il fascismo aveva da tempo deciso di intervenire in questo campo percorrendo il doppio binario del bastone (un sistema di censura preventiva e centralizzata operante dal 1931) e della carota (la politica delle sovvenzioni istituzionalizzata dal 35). Ciò non fu sufficiente per far nascere un teatro ideologicamente fascista che si affiancasse agli altri organi dell’apparato propagandistico, come il regime aveva sperato, ma fu abbastanza per richiamare all’ordine un settore che conservava ancora un certo ascendente nella vita

culturale del paese.21

Un’altra innovazione nei mezzi di comunicazione di massa fu il cinema, che venne posto sotto il diretto controllo dello stato, tramite la creazione dell’Istituto LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa), nato con Regio Decreto del 5 novembre 1925, n.1985. Esso non svolse solo un ruolo didattico, riprese anche avvenimenti d’attualità, italiani e stranieri, organizzando dal 1927 un servizio regolare con la produzione del Giornale LUCE, che divenne ben presto l’attività più nota a livello di massa.

Manifestazioni e avvenimenti utili ai fini propagandistici del regime vennero filmati e tradotti in “giornale”: tutto ciò che il Duce voleva e realizzava era seguito e documentato.

21

B. Micheletti, P.P. Poggio, L’Italia in guerra 1940-43, Annali della fondazione L. Micheletti, Brescia 1989. p. 741-748

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31 Nel 1925 furono girati tre film di argomento agricolo: La Battaglia del Grano, descriveva gli sforzi compiuti dal governo fascista per accrescere e modernizzare la produzione granaria italiana; La foresta fonte di ricchezza, trattava il tema della conservazione del patrimonio forestale e delle bellezze naturali del territorio; Vita nuova tesseva l’elogio

delle realizzazioni del regime in materia di modernizzazione della vita rurale italiana.22

-Apparato scenografico con gigantografia di Mussolini alla macchina da presa.

Tra il 1925 e il 1930 il regime raddoppiò gli sforzi per produrre film e farli conoscere in zone come l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna, le cui popolazioni erano

22 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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32 tradizionalmente rimaste indietro rispetto al più celere sviluppo economico e sociale del Nord (le sale in Italia erano parecchie ma non coprivano tutto il territorio nazionale: nacque così il Cinemobile che proiettava film nelle piazze).

Portando ai meridionali la propaganda cinematografica, i fascisti speravano di vincere il sentimento d’isolamento dominante in quelle regioni e al tempo stesso di dimostrare l’interesse del governo per il Mezzogiorno.

Dagli anni 30 la cinematografia fu direttamente gestita e controllata dallo Stato: il R.D.L. del 1934 devolveva al Sottosegretariato per la stampa e propaganda, diretto allora da Galeazzo Ciano, le attribuzioni di vigilanza sulle pellicole cinematografiche e a capo della Direzione Generale per la Cinematografia veniva posto Luigi Freddi con l’incarico di “fascistizzare”.

Nel 1935 nacque, su volere dell’istituto LUCE, una casa di produzione e distribuzione nazionale: l’Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (ENIC), che si occupava anche della regolazione del numero di film stranieri che venivano importati in Italia; la legge Alfieri, del 1938, diede allo stato il monopolio sull’acquisto e la distribuzione dei film stranieri e costituì la manifestazione più concreta del desiderio fascista di purificazione interna, inoltre, nuovi sussidi governativi per i film nazionali fecero raddoppiare la

produzione.23

Questo piano portò il patrocinio e il controllo cinematografico entro la giurisdizione di un solo ufficio e istituì una politica di censura preventiva che rese la collaborazione tra cineasti e regime un dato scontato. Il nuovo sistema di precoce intervento diede ai

23

(33)

33 funzionari fascisti la possibilità di agire sul soggetto, i dialoghi, gli interpreti e il personale tecnico dei film.

Attraverso Freddi, passato alla storia come eminenza grigia del cinema di regime, si diede inizio all’opera di propaganda sfruttando il cinema di stato. Nacque l’idea di

Cinecittà, che Mussolini inaugurò nel "Natale di Roma" del 1937.24

Se poi, prima dell’entrata in guerra nel giugno del 1940, l’interesse del governo per il cinema di fiction era pressoché nullo, in seguito si accorse che gli italiani, quando non erano interessati ai bollettini di guerra, si distraevano con i film del genere detto dei "telefoni bianchi". Questi film si rivelarono non meno importanti per i progetti fascisti di trasformazione collettiva, data la loro potenzialità di convogliare messaggi politici in modo impercettibile che li rendeva strumenti ideali di propaganda. Come commentò un critico, essi consentivano di «imporre con la maggiore suggestione una particolare visione della vita e del mondo ad una sterminata moltitudine di persone, quasi a loro

insaputa, mentre credono di concedersi un’ora di innocente svago».25

Uno dei film più famosi fu Scipione l’Africano di Carmine Gallone, il massimo sforzo del regime sullo schermo: richiese l’impiego di ben cinquantasette interpreti principali,

tutti italiani naturalmente, e, per le enormi spese, fu ribattezzato “Sciupone l’Africano”.26

24

R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 142

25

Id, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 122

26 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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34

-Le numerose comparse sul set di Scipione l’Africano 1937

Il genere documentario e quello di divulgazione scientifica restarono la punta di diamante del LUCE e, infatti, erano tra i migliori del mondo ed erano molto richiesti. Questo spinse a un maggior impegno sulle immagini e sulla ricerca di nuovi modi per proporre le notizie e la propaganda, in maniera più convincente e appetibile al pubblico.

Con la guerra il lavoro si nazionalizzò e si specializzò: il LUCE organizzava i servizi con propri operatori di guerra, inviandoli sul campo di battaglia, al contrario degli anglo-americani che dotarono ogni reparto di una macchina da presa e apparecchiature fotografiche usate dai soldati stessi.

Documentari che furono spesso censurati dal Ministero della Cultura Popolare perché screditavano l’immagine dell’Italia. Il LUCE aveva, infatti, il compito, impostogli da

(35)

35 Mussolini, di mostrare al pubblico immagini di una guerra facile, non traumatica e facilmente sopportabile per le nostre truppe; una guerra ben lontana dalla realtà.

A livello estetico e tematico, quindi, il cinema era eroico, rivoluzionario e celebrativo per quanto riguarda il regime e i suoi ideali. Le caratteristiche principali raffigurate nei film si possono così riassumere:

o Raffigurazione dei cambiamenti positivi avvenuti con il fascismo. o Celebrazione della marcia su Roma e dell’ascesa del fascismo. o Raffigurazione della grandezza dell’Italia e dedizione alla patria.

o Rappresentazione di fatti storici inerenti alla storia d’Italia, esaltando la superiorità del popolo italiano, soprattutto l’Impero Romano, evidenziando il nesso di continuità tra questo ed il regime fascista.

o Esaltazione del mondo rurale.

o Esaltazione del colonialismo italiano per la sua missione civilizzatrice.

o Esaltazione delle operazioni militari e delle azioni belliche compiute dalle varie forze armate italiane e dai volontari nelle varie guerre combattute dall’Italia fascista.

o Denigrazione, demonizzazione e ridicolizzazione degli avversari del regime.

Mussolini capì subito l’importanza della Stampa per affermare il suo potere.

Il primo importante giro di chiave che il fascismo diede al mondo della stampa e della libera circolazione delle idee fu nel 1924: si trattò di un decreto-legge nel quale si dispose che i responsabili di un giornale potessero essere sempre denunciati da un prefetto,

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36 specie se ritenuti colpevoli di danneggiare relazioni internazionali o intralciare in qualche modo l’azione diplomatica governativa.

Nei casi in cui i censori richiesero una revisione, si trattava generalmente di interventi graduati; vale a dire, essi andavano dalla richiesta di tagliare un paio di righe, alla rimozione di un personaggio o di una scena considerati diffamatori nei confronti dello stato o di alcuni suoi organi, quali l’esercito, all’eliminazione di un atto o un episodio,

fino alla completa bocciatura di una sceneggiatura o di un romanzo.27

È difficile indicare con precisione quanto tempo ci volle per fascistizzare la stampa italiana, ma alla fine del 1926 il processo era ormai quasi completato.

Mussolini illustrò le sue idee sul ruolo della stampa in un discorso pronunciato il 10 ottobre 1928 dinanzi ad un’assemblea di sessanta editori di giornali. Egli annunciò che il giornalismo più che professione o mestiere, diventava missione di un’importanza grande e delicata, poiché nell’età contemporanea, dopo la scuola che istruiva le generazioni che montano, era il giornalismo che circolava tra le masse e vi svolgeva la sua opera

d’informazione e di formazione.28

Una volta al potere, tre problemi generali si posero a Mussolini in materia di stampa: assumere il controllo dei giornali non-fascisti o portarli ad appoggiare il regime; schiacciare i residui fogli di opposizione; e, infine, imporre l’autorità assoluta dello Stato sulla stessa stampa fascista, la quale assumeva non di rado posizioni contrastanti con quelle del Duce.

27 D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936-1954, Il Mulino, Bologna, 2007, p.310

28 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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37 Nei primi anni del regime la stampa fu sottoposta a un controllo formale: Mussolini acquistò i maggiori giornali italiani per portare avanti il suo progetto teso ad accrescere il consenso intorno al regime.

Con le Leggi Fascistissime e quelle del 31 dicembre 1925, Mussolini dispose che ogni giornale avesse un direttore responsabile inserito nel partito fascista, nell’Ordine dei Giornalisti e che il giornale stesso, prima di essere pubblicato, fosse sottoposto al controllo dell’Ufficio Stampa, che nel 1937 fu trasformato in Ministero Della Cultura Popolare (Min. Cul. Pop.).

Questo Ministero aveva l’incarico di controllare ogni pubblicazione sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti "ordini di stampa" (o "veline" così chiamate perché battute a macchina sulla sottilissima carta da copia che consentiva di redigere più doppioni contemporaneamente), con i quali s’impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l’importanza dei titoli e la loro grandezza.

Gli editori ricevettero delle lettere dagli uffici di polizia, nelle quali si richiedeva di inviare alla prefettura tre copie di tutte le opere: libri, riviste, opuscoli, che si proponevano di pubblicare, e che avrebbero dovuto aspettare la concessione di un nulla osta.29

A capo di questo Ministero fu posto Galeazzo Ciano, che poi diventò Ministro degli Esteri e che s’interessò anche dei mezzi di comunicazione di massa, cioè la radio e il cinema.

29

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38 Il Min. Cul. Pop., oltre a controllare le pubblicazioni, si pose come obiettivo quello di suscitare entusiasmo intorno alla guerra e di esaltare il mito del Duce.

Mentre milioni di soldati italiani partivano per il fronte, vennero varate nuove politiche che miravano a estendere il controllo dello stato sulla cultura e i mezzi di comunicazione e a ribadire il ruolo-guida nella sfera culturale della Nuova Europa rivendicato dall’Italia. Il compito più immediato fu quello di gestire la presentazione e la ricezione della guerra e manipolare la posizione dell’opinione pubblica nei riguardi degli alleati e dei nemici del paese; il Min. Cul. Pop. si riservò l’autorità di controllare tutto ciò che gli italiani

ascoltarono, videro o lessero in quegli anni.30

I "cavalli di battaglia” della stampa di quegli anni riguardarono temi e argomenti cari al Regime, come il mito della romanità, quello del giovanilismo dello stato fascista, il corporativismo, il dopolavoro, le bonifiche, le colonie, il progresso tecnologico, il ritorno alla terra, il turismo, i modelli urbanistici degli anni Trenta, la maternità e la famiglia.

30

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39 - In sequenza: Risultati delle incursioni fasciste in alcune sedi di giornali d’opposizione 1921; Rivista dell’arditismo milanese festeggia la conquista e la devastazione della sede del giornale socialista Avanti!; la glorificazione della figura del Duce sui giornali 1923.

Ciano iniziò la sua amministrazione creando un nuovo metodo di coordinamento tra stampa e autorità locali. Per distribuire e raccogliere le informazioni nelle provincie in maniera più efficiente, sette giornalisti dell’Ufficio Stampa furono dislocati, nel 1934, come addetti stampa nelle prefetture più importanti, e cioè Roma, Firenze, Milano, Torino, Bologna, Napoli e Palermo. Sebbene non ci fossero altri cambiamenti amministrativi nell’Ufficio Stampa, il periodo Ciano fu caratterizzato da una significativa estensione e proliferazione dei controlli già esistenti.

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40 Fra il 1934 e il 1935, il controllo politico della stampa e degli altri mezzi di cultura popolare fu meglio definito e istituzionalizzato da una serie di leggi e decreti, i quali aumentavano l’autorità e il potere del Sottosegretariato.

Sebbene queste misure riuscissero, in linea generale, a fare del corpo dei giornalisti un servitore fidato del fascismo, il regime non arrivò mai a esercitare sui giornalisti italiani un’autorità assoluta.

Verso la fine del settembre 1934, Mussolini istituì una nuova Direzione Generale per la Cinematografia e, in novembre, una Direzione Generale per il Turismo. Il mese seguente fu creata una commissione per la Vigilanza sulle Radiodiffusioni e, nell’aprile del 1935, un Ispettorato del Teatro. Questi settori, che prima erano di competenza dei ministeri degli Interni, delle Corporazioni e dell’Educazione Nazionale, passarono sotto la giurisdizione del nuovo Sottosegretario.

Questi sviluppi furono decisivi per l’avvenire della politica culturale del fascismo. Le nuove direzioni generali, rendendo possibile un maggiore inquadramento della cultura nazionale, avvicinarono il regime alla realizzazione delle ambizioni totalitarie.

Il riconoscimento della necessità di controllare i mezzi di comunicazione di massa dominò la politica culturale fascista per tutto il decennio seguente e la cultura popolare diventò il tema fondamentale di quella politica.

Per facilitare il lavoro, la Direzione Generale per i servizi di Propaganda fu suddivisa in quattro sezioni:

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41 1. una per la Propaganda Generale, dove era preparata e divisa la propaganda per

l’estero;

2. una Sezione Radio, la quale controllava i programmi per i paesi stranieri;

3. una Sezione per la propaganda artistica e Cinematografica, nella quale erano preparati e diramati film, documentari e mostre all’estero;

4. il NUPIE (Nuclei per la Propaganda Italiana all’Estero), incaricato della

produzione di propaganda anti-comunista.31

Con questa centralizzazione dei controlli sui mezzi di cultura e propaganda, il regime intese indirizzare la sua politica culturale in modo da armonizzare le varie attività del fascismo e da conformarle agli scopi dello Stato.

La funzione fondamentale del Ministero era così riassunta: tutto ciò che si presentava alle masse attraverso giornali, libri, radio, teatro e cinema doveva essere governato da un chiaro e sincero spirito fascista.

1.3. Cronologia: l’inizio della fine

A partire dal 1942 gli addetti all’ascolto scrissero rapporti sempre più allarmanti, il malcontento si trasformò in disperazione. Tutto il sistema cominciò ad essere messo in discussione, mentre da alcune relazioni cominciava ad emergere la nuova consapevolezza che le sofferenze erano il frutto della soppressione della libertà. Si soffriva perché si

31 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, Nuova Spada Editrice Roma,

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42 doveva subire una guerra imposta dal capriccio di un uomo a un popolo non più libero di decidere.

o Marzo 1943: la crescente rarefazione dei generi alimentari e il continuo aggravarsi delle condizioni di vita e di lavoro, uniti alle notizie del disastroso esito della campagna di Russia e delle sconfitte in Africa settentrionale, scatenarono una serie di scioperi in tutto il nord Italia.

o 10 Luglio 1943: ormai padroni dell’Africa settentrionale, gli angloamericani sbarcarono in Sicilia.

o 24-25 Luglio 1943: il Gran Consiglio del fascismo mise per la prima volta in minoranza Mussolini; tutti i poteri tornarono nelle mani del re. Vittorio Emanuele III nominò il Maresciallo Badoglio capo del nuovo governo. Mussolini venne destituito e arrestato.

o 26-28 Luglio 1943: Badoglio formò il nuovo governo e cercò di rassicurare i tedeschi proclamando che la guerra sarebbe continuata al fianco della Germania.

o 8 Settembre 1943: dopo lunghe trattative segrete, l’Italia s’impegnò a cessare le ostilità contro gli alleati e a porre fine alla collaborazione con i tedeschi, venne firmato l’armistizio.

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43 o 9 Settembre 1943: da Roma il re e il governo fuggirono a Brindisi; le guarnigioni italiane, prive di ordini superiori e abbandonate al loro destino, vennero facilmente disarmate dai tedeschi. Nacquero le prime bande partigiane.

o 23 Settembre 1943: Mussolini proclamò la volontà di riprendere la “suprema direzione del fascismo in Italia” e fondò la Repubblica fascista con capitale Salò. Accettò le imposizioni di Hitler e s’impegnò a pagare alla Germania un pesante contributo mensile per il mantenimento delle truppe tedesche in Italia.

o 13 Ottobre 1943: Pressato dagli alleati, il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania. All’Italia non venne però riconosciuto lo status di alleato ma quello inedito di “cobelligerante”, rimarcando così la sua condizione di Paese sconfitto.

o 4 Giugno 1944: gli alleati entrarono a Roma. Badoglio rassegnò le dimissioni da capo del governo; Bonomi venne incaricato di formare un nuovo governo di unità nazionale.

o 1 Luglio 1944: il Partito fascista repubblicano si militarizzò in funzione antipartigiana. Nacquero le brigate nere. Venne nominato segretario del partito Pavolini.

o 4 Febbraio 1945: Churchill, Roosevelt e Stalin s’incontrarono a Yalta per programmare la spartizione del mondo in zone d’influenza.

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44 o Aprile 1945: i partigiani cominciarono ad attaccare in tutte le città del Nord Italia. Mussolini, in fuga verso la Svizzera, venne catturato il 27 aprile a Dongo (Como) e fucilato il giorno seguente. Il 30 aprile Hitler si suicidò.

o 8 Maggio 1945: come previsto nel trattato di resa incondizionata, alle ore 23:01 le forze germaniche cessarono ogni attività bellica. Fu la fine della guerra in Europa.32

In poco tempo furono ricostruite le principali strutture di propaganda. Prima di ogni altro, il Ministero della Cultura Popolare, guidato da Mezzasoma, con sede a Venezia. Nel capoluogo veneto trovò posto anche l’istituto Luce, mentre a Como furono accolte le strutture radiofoniche.

Qui, naturalmente, essi rinacquero indeboliti, non più che pallido riflesso di ciò che erano solo un anno prima.

Come negli anni del regime, il Min. Cul. Pop. fu responsabile della propaganda: dai giornali ai libri, dai film ai documentari, dalla programmazione radiofonica alla produzione di manifesti e di cartoline. Ma tale attività di centralizzazione si scontrò con l’impossibilità di tenere sotto controllo le mille iniziative propagandistiche spontanee che nacquero in molti centri dell’Italia del nord e del centro. Gli arruolamenti nell’armata della RSI diminuirono sempre più, mentre accrebbero, le fila partigiane.

Se la propaganda scritta non poté esercitare un particolare effetto mobilitante, quella per immagini e per suoni recò con sé, almeno all’inizio, maggiori chance. Non si riuscì a

32

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45 ricostruire l’EIAR, ma in compenso nacquero tutta una serie di “radio nere” come Radio Falco, Radio Tevere, Radio Nord e Radio Soldato. Radio Tevere iniziò a trasmettere dopo la presa di Roma da parte degli anglo-americani, con l’intenzione di far credere all’esistenza di un’emittente clandestina nella capitale, in realtà essa aveva sede a Como. In queste trasmissioni si trovavano tutti i temi della propaganda scritta: il senso

dell’onore e la condanna dei “traditori badogliani” e del re, principali colpevoli della

drammatica situazione nella quale il paese si era venuto a trovare, la lotta contro gli “invasori” angloamericani, l’esaltazione dell’alleato tedesco. I temi della patria e la rivendicazione nazionale, l’onore militare, gli appelli all’arruolamento volontario rivolti ai giovani d’Italia, dove le uniche promesse erano una vita d’azione, l’esaltazione delle virtù personali nel combattimento, una carriera tutta da costruire sul campo e, per i più

indecisi, la possibilità di difendere i propri cari arruolandosi nei reparti contraerei. 33

I notiziari, in un primo momento, furono reticenti a parlare dei partigiani, mentre con il passare del tempo, li mostrarono alla stregua di banditi da cui la popolazione doveva guardarsi. Attendisti da un lato, sabotatori, partigiani, prigionieri evasi e chi li proteggeva, erano soggetti di una martellante ed impotente produzione di materiale propagandistico che sfruttava ogni occasione per mettere in guardia la popolazione dall’appoggiare qualsiasi forma di insubordinazione alle forze nazifasciste.

Per quanto riguarda il Cinema, nonostante l’Istituto LUCE fosse stato ricreato a Venezia, le difficoltà materiali erano immense: non si disponeva di materiale sufficiente per le

33

Fondazione L. Micheletti, L’immagine della RSI nella propaganda 1943-45, Nuove edizioni G.Mazzotta, Milano 1985, p.74

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46 riprese, i tecnici, numerosi all’inizio, disertarono poi nel corso del tempo, anche a causa del pericolo nell’effettuare le riprese in pieno territorio di guerra civile.

La sfera propagandistica nella quale la Repubblica di Salò lasciò maggiori tracce è quella del manifesto e, più in generale, della grafica. Manifesti da affiggere in ogni dove, le caserme, le strade della città e i luoghi pubblici. Manifesti in formato minore da lanciare dagli aerei e sotto forma di cartoline postali.

Di fronte a una situazione bellica sempre più precaria, la propaganda sul territorio della RSI annoverava tra i suoi temi principali l’irrisione delle forze avversarie. La propaganda quindi, si dedicò ad attaccare, uno per uno i nemici, rappresentati come ripugnanti venditori di fumo, ossessionati dalla brama di spartizione del mondo, e non si tralasciava di evidenziare i contrasti interni, nonché le differenti strutture sociali e ideologiche dei loro paesi.

I principali obiettivi furono gli anglo-americani, invasori (ironicamente definiti “liberatori”) e traditori del’occidente. Si cercava di sminuire le capacità militari e si metteva in guardia la popolazione italiana dal credere alla facile illusione che un appoggio alle truppe alleate potesse significare la fine delle ostilità.

Gli americani erano rappresentati esclusivamente dai neri, violentatori di donne, massacratori di popolazioni inermi, distruttori di città, barbari, disegnati con le fattezze di scimmie, un’America dominata da racconti terroristici e prospettive di schiavitù.

Gli inglesi erano i colpevoli delle sanzioni contro l’Italia, tiranni che recavano un’espressione ebete e una pipa in bocca.

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-Si tratta di due illustrazioni di Boccasile. Nella prima immagine troviamo un soldato americano con un fucile e una bottiglia in mano e un soldato inglese con la pipa che ridono; sovrasta la statua dell’imperatore Augusto. Nella seconda un sergente americano ghignante stringe la statua della Venere di Milo dopo averla valutata due dollari (1944).

I russi, comunisti, furono spesso rappresentati senza volto, lo stereotipo era quello dell’“orco cattivo” che ghermiva civili inermi e bambini: una mano enorme, con falce e martello disegnato sul polsino, cerca di mettere le mani sull’Italia, ma il pugnale fascista lo impedisce. La denuncia era rivolta soprattutto a smascherare le illusioni del “paradiso sovietico” dietro il quale si nascondeva la dittatura di Stalin, il capo sanguinario che

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