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Parigi, a cavallo della metà del Seicento, era una città che accoglieva quasi quattrocentomila abitanti. I suoi edifici si erano adattati, nei secoli, al corso della Senna, dispiegandosi sulle due rive. Le strette rues medievali sembravano averli costretti a stringersi e puntare i tetti verso il cielo. I luoghi del potere, come ad approfittare della spaziosità concessa, si erano invece distesi sul tessuto cittadino, nelle vesti di residenze, palazzi, chiese, piazze e giardini126. Chi vi giungesse per la prima volta, avrebbe dovuto rimanere inevitabilmente sperso: nel cuore un «natio borgo», mentre davanti agli occhi si spalancava la metropoli. Il racconto del sacerdote bolognese, Sebastiano Locatelli, si offre come spontaneo omaggio alla città, meta del suo viaggio:

All’ora di pranzo ci vedessimo in faccia a Parigi, città, salvo Roma, stimata la più bella, e più di Roma dieci volte popolata. Poco prima di scoprirla, m’ero gloriato col compagno di essere mai caduto in cavallo in così lungo viaggio, cosa di che non poteva gloriarsi lui, ma poco dopo ciò detto mi cadde il cavallo sotto, perché forse facessi più conveniente saluto a quella bella spalliera d’un million di case e di sì alti palazzi, cupole e molini da vento che in quantità intorno a Parigi girano127.

Il confronto con la madrepatria, che quella visione d’insieme poteva suscitare, era naturale per un qualsiasi viaggiatore che arrivasse a Parigi, a qualsiasi categoria sociale appartenesse, fosse mercante o principe. Il viaggiatore ʽitalianoʼ però, a differenza di altri dalla diversa provenienza, approdava - ne fosse consapevole o meno - a un lido politicamente e culturalmente ben ancorato a quello da cui era salpato. Le due regine medicee, Caterina e Maria128, avevano importato in Francia, a partire dal secondo

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Nella Francia del Cinque e Seicento, governata da un re ʽcristianissimoʼ che obbedisce solo alle leggi di Dio e della natura, si possono ben considerare luoghi del potere temporale anche le chiese. I tentativi di conciliazione e le guerre di religione conclusesi con la promulgazione da parte di Enrico IV dell’editto di Nantes (1598) avrebbero infatti modificato solo temporaneamente l’assetto del regno. Con l’editto di Alès, la presa de La Rochelle (1628) e la revoca definitiva dell’editto di Nantes (Editto di Fontainebleau,1685), già nella pratica disatteso, ogni politica di tolleranza verso gli ugonotti avrebbe lasciato il posto ad un regno cattolico, ad una religione di stato e ad un Re la cui sovranità era un diritto divino. Inoltre, finanziamenti ed elargizioni reali alle chiese si aggiungevano alle celebrazioni di battesimi, matrimoni e funerali di esponenti della casa regnante. Un esempio, fra i tanti, di come gli episodi della vita del sovrano potessero entrare nella vita religiosa è quello del gennaio 1687: per festeggiare la recuperata salute di Luigi XIV, tutte le chiese parigine fecero a gara nel rendere grazie a Dio con Te deum e messe in musica. Per quest’ultimo episodio cfr. DE LA GORCE 2002, pp. 341-345.

127 LOCATELLI 1990, p. 194.

128 Caterina de’ Medici (Firenze, 13 aprile 1519 - Blois, 5 gennaio 1589), figlia di Lorenzo de’ Medici, duca

di Urbino e moglie nel 1533 del futuro Enrico II. Più volte reggente, cercò un accordo politico con gli ugonotti (i quali però furono massacrati nella notte di S. Bartolomeo il 24 agosto 1572) e una politica matrimoniale di pacificazione europea organizzando le nozze delle figlie Elisabetta con Filippo II di Spagna (1559) e di Margherita con Enrico III di Navarra (1572). Alla morte di quest’ultima (1599) Enrico, divenuto nel frattempo Re di Francia (1589) sposò nel 1600 Maria de’ Medici (Firenze, 26 aprile 1573 – Colonia, 3

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Cinquecento, il modello di governo fiorentino, che si serviva di architettura e spettacolarità per sottolineare la magnificenza della casa regnante. La città veniva allestita e trasformata in occasione degli eventi politico-dinastici129. La figura del sovrano, novello Ercole130, era celebrata, promossa e divinizzata attraverso la rappresentazione artistica e spettacolare e grazie agli artigiani provenienti dalla penisola. Un ricco bagaglio di competenze tecniche giungeva in Francia in seguito al trasferimento di professionisti dalle corti italiane. Apparatori, fuochisti, ingegneri, macchinisti, decoratori, idraulici, pittori, scultori ed architetti venivano invitati dalla corte francese. A Parigi, la loro sapienza artistica e artigianale serviva a valorizzare occasioni e simboli del potere: matrimoni, funerali, entrate in città o ancora palazzi e castelli. La loro avanzata maestria artistica e tecnologica, messa a servizio di un programma di propaganda reale, doveva celebrare la grandezza del re. Che ordinasse la costruzione di una nuova residenza, che chiedesse un ciclo pittorico sulla propria vita131, che elargisse spettacoli per un pubblico di corte selezionato o ʽcittadinoʼ 132, il sovrano ostentava sempre la ricchezza del proprio regno fino ad ammettere l’intera città a partecipare, almeno ufficialmente, della munificenza reale. Ricompensava e proteggeva talenti ed opere. Sul modello fiorentino dell’epoca di Lorenzo il Magnifico e del Rinascimento italiano più in generale, il sovrano possedeva ciò che offriva133.

luglio 1642), figlia di Francesco I, granduca di Toscana e di Giovanna d’Austria. Dopo l’assassinio del marito (1610), Maria portò avanti una politica filo-spagnola e filo-cattolica. Promosse il matrimonio del figlio Luigi con Anna d’Austria e della figlia Elisabetta col futuro Filippo IV di Spagna. In rotta col figlio, abbandonò la Francia e non vi poté più tornare.

129 Sul tema della politica di rappresentazione e autocelebrazione medicea si rimanda a MAMONE 2003a ed in

particolare per quanto concerne l’influenza del modello di spettacolarità fiorentino in Europa al capitolo Il lascito europeo (pp. 169-192). Su Maria de’ Medici cfr. inoltre MAMONE 1987.

130 Il mito di Ercole, uomo divinizzato dalle proprie gesta, è uno dei più sfruttati nel programma encomiastico

ed auto-propagandistico dei principi d’Europa (cfr. MAMONE 2003a, pp. 81-105).

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Si veda ad esempio la costruzione del Palais du Luxembourg che ebbe come prototipo il fiorentino Palazzo Pitti o tra le opere d’arte, il ciclo rubensiano per Maria de’ Medici. Cfr. sempre MAMONE 1987.

132 Come scrive a questo proposito Siro Ferrone, il proliferare, tra la metà del Cinquecento e l’inizio del

Seicento delle sale teatrali, se da un lato è la risposta al netto aumento demografico delle capitali europee, dall’altro: «l’autorizzazione ad una libera vendita dello spettacolo in spazi esterni alle corti, relativamente autonomi, significa ammettere, implicitamente, la liceità, l’utilità o la necessità del teatro come “spia” di un mondo basso e disordinato» (FERRONE 2011a, p. 52).

133 Se gli attori che recitavano a corte erano spesso gli stessi che operavano, dalla fine del Cinquecento, negli

stanzoni cittadini, accessibili per un pubblico pagante, ciò non comportava, in questi ultimi casi, l’esclusione dei mecenati dal sistema di organizzazione teatrale. Affidandosi a dei protettori che li tutelassero, li premiassero e li finanziassero con anticipi o rimborsi durante le tournées, gli attori ne portavano la bandiera ed erano ad essi obbligati. La gestione delle stanze pubbliche, come il Teatro di Baldracca a Firenze era infatti spesso curata, direttamente o attraverso magistrature, dalla famiglia al potere (nel caso fiorentino, la Dogana e il granduca, appunto). Inoltre, anche nei molti casi in cui l’incasso era devoluto per opere di beneficenza, la corona poteva intervenire strategicamente. È il caso ad esempio di Maria de’ Medici che pagò l’affitto ai Confrères de la Passion per permettere alla compagnia degli italiani di recitare all’Hôtel de Bourgogne, controllando, in tal modo, l’intero sistema teatrale cittadino. Cfr. MAMONE 1987, p. 253.

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Tra gli italiani chiamati a corte, non potevano mancare gli attori. La tournée del 1600, con il richiestissimo Tristano Martinelli134, creatore di Arlecchino, era stata voluta dagli sposi Enrico IV e Maria de’ Medici e si inseriva in una serie di viaggi che diverse compagnie italiane intrapresero, prima e dopo quella data. Dagli anni settanta del Cinquecento, oltrepassarono le Alpi: la compagnia di Zan Ganassa, i Gelosi, gli Accesi, i Confidenti e i Fedeli135. Nel corso dei decenni, queste troupes contribuirono alla nascita del gusto e del repertorio italiano in Francia, influenzarono la tipologia e l’organizzazione di diverse sale teatrali e crearono il retroterra ideale per le compagnie che sarebbero giunte in seguito136. Difatti, se gli eventi traumatici che caratterizzarono gli anni trenta del Seicento137, uniti alla morte o al ritiro dalle scene dei principali protagonisti138, rallentarono le spedizioni e l’attività teatrale, nuove generazioni di comici, cantanti, musicisti e ballerini sarebbero giunte ad innestarsi sull’eredità lasciata dai loro predecessori in Arte, nutrendosene ed alimentandola. Quelle precedenti il sacco di Mantova erano state tournées di compagnie già esistenti, le cui fila venivano tirate da almeno due forze in campo (la corona francese e i protettori italiani), a cui si aggiungevano necessità e sogni di attori e capocomici. Nella prima metà del Seicento, la domanda di queste trasferte da parte della corona francese e l’offerta italiana più o meno si equilibravano. Col tempo invece le compagnie destinate all’esportazione del teatro italiano cominciarono ad essere messe insieme esclusivamente in funzione della piazza francese139 e i viaggi persero parte del loro carattere istintivo e costitutivo. I comici italiani, come alla deriva su quei lidi, si

134 Tristano Martinelli (Marcaria, 1557 - Mantova, 1630). Comico, acrobata, funambolo, capocomico,

inventore della maschera di Arlecchino. Attivo in Italia, nelle Fiandre, a Londra, a Parigi e a Madrid. Su di lui e sulla tournée del 1600, si veda FERRONE 2006, 2011a e 2014.

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Un ottimo panorama su queste compagnie, sugli attori, i viaggi e le opere si trova in FERRONE 2014.

136 Le compagnie professionistiche italiane tra Cinque e Seicento erano organizzate e strutturate sulla base di

ruoli e parti. Proponevano un teatro all’improvviso, ovvero una drammaturgia incentrata sul canovaccio. Il repertorio comprendeva commedia, tragedia, opera regia, pastorali etc. In Francia, gli attori italiani si trovarono a dover adattare e semplificare le proposte spettacolari per renderle più comprensibili per un pubblico diverso culturalmente e linguisticamente. Vennero ben presto apprezzati nel genere comico che finì per essere il più richiesto dagli spettatori francesi che gelosamente vollero conservare il diritto del teatro alto (tragico) agli autori e attori nazionali.

137 Tra gli eventi che più scoraggiarono le tournées ci furono le guerre di successione di Mantova e del

Monferrato, col sacco del 1630. Oltre alle ovvie difficoltà di vita e di mobilità che si crearono. Questi conflitti coinvolgevano la casa dei Gonzaga, privando le formazioni professionistiche di uno dei maggiori protettori e finanziatori.

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Al triennio 1623-1625 risale l’ultima spedizione dei Fedeli di Giovan Battista Andreini. Il padre Francesco, capocomico dei Gelosi assieme alla moglie Isabella (morta nel 1604), muore nel 1624 (così come Flaminio Scala, capo dei Confidenti); la prima moglie di Giovan Battista, Virginia Ramponi, nel 1631. Tra i comici Accesi, Tristano Martinelli, preceduto di molto dal fratello Drusiano (ante 1606), morirà a Mantova nel 1630, mentre Pier Maria Cecchini passerà a miglior vita nel 1641.

139 Sempre più spesso, nel corso del Seicento e come si vedrà più dettagliatamente, le compagnie spedite in

Francia sono messe insieme per tale scopo. Esse sono solo in parte preesistenti, più spesso nascono da trattative che riguardano un gruppo di attori legati a determinati protettori o l’aggiunta di coppie e singoli.

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sistemarono in Francia, scelsero cioè quella destinazione dove un tempo arrivavano per creare curiosità, meraviglia, sconcerto. Disfecero il bagaglio e dettero l’impressione di essere lì da sempre e di poterci rimanere per sempre140. Si trasformarono in realtà addomesticate, conosciute, frequentate e pressoché stabili sul territorio. Al di là delle diverse sale in cui si esibirono, rappresentavano una piccola roccaforte italiana a Parigi che il decreto regio del 1697, fatalmente, abbatté.

Andando per ordine, si considerino quei viaggi che, dopo la fase di stallo degli anni ’30 del Seicento, furono intrapresi da una nuova generazione di comici. Gli organizzatori si avvalsero, almeno in parte e almeno all’inizio, delle abitudini e pratiche in uso, prima di loro, presso le compagnie cinquecentesche. Le trattative avevano durata variabile e si svolgevano generalmente tra attori, protettori ed intermediari. Della corrispondenza tra comici ben poco è giunto sino a noi. Più cospicua è quella tra gli attori e le famiglie al potere i cui archivi hanno in parte conservato gli scambi epistolari141. Questi potevano avvenire direttamente o tramite magistrature, segretari ed esponenti della nobiltà locale. Oltre al re di Francia, al granduca di Toscana o al principe di Parma e agli altri signori e principi italiani, la trattativa poteva coinvolgere mecenati e funzionari dal diverso profilo142 che, secondo piani e modalità differenti, intervenivano nella preparazione delle maggiori tournées. Se da un lato infatti gli attori potevano sentirsi liberi, viaggiando, dalla sudditanza ad un’unica corte, dall’altro non potevano fare a meno di protettori in Italia e all’estero. Alla partenza dovevano avere denaro e lettere patenti che consentivano loro di muoversi attraverso gli Stati143.

140 Il viaggio è un tratto distintivo della commedia dell’Arte. Le spedizioni degli attori provocano uno scarto,

una frattura (drammaturgica, performativa, linguistica, culturale) allorquando si propongono come ʽdiversiʼ, portatori di un altro mondo ad un pubblico non abituato e col quale si misurano. Messi alla prova dalle incertezze e dai rischi dello stesso migrare, portano sulla scena la loro biografia di ʽstranieriʼ. Ad ogni viaggio, rinnovano la speranza di essere tollerati ed accolti, ma anche di sorprendere, comunicare ed emozionare. La stabilità e la stanzialità degli italiani in Francia non comporterà il blocco assoluto degli spostamenti attoriali, ma certamente li limiterà. Saranno i singoli a tornare in patria quasi sempre per motivi di tipo finanziario, come la gestione di beni mobili e immobili. Sul tema del viaggio si rimanda al capitolo L’invenzione viaggiante, in FERRONE 2011a, pp. 3-51.

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Alcune delle più ricche raccolte a questo proposito sono: Comici dell’arte. Corrispondenze 1993; MONALDINI 2001; MAMONE 2003b; MAMONE 2013.

142 I principi medicei, ad esempio, oltre al granduca: i fratelli Giovan Carlo, Mattias e Leopoldo o ancora il

marchese Ferdinando Cospi che da Bologna informava la corte toscana degli spostamenti dei comici. Sulla corrispondenza si rimanda ad ALESSANDRI 2000, MAMONE 2003b, MAMONE 2013. Si veda inoltre il ruolo delle famiglie Bentivoglio e Colonna in MONALDINI 2001.

143 Nelle corrispondenze per l’organizzazione delle trasferte, appaiono formule come «conforme il solito» che

rimandano ad una consuetudine nel portare avanti le trattative. Le compagnie avevano bisogno di soldi per mettersi in viaggio e per pagare i mezzi di trasporto su cui viaggiavano (barche, muli, cavalli, carrocci), ma

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In Italia si preferivano calendari e piazze sicure, senza però che si arrivasse a riproporre, a distanza ravvicinata, la stessa compagnia e gli stessi spettacoli al medesimo pubblico. Per la Francia si privilegiavano gli itinerari collaudati che preparavano e tutelavano dai fattori di rischio del viaggio: clima, conformazione del territorio, incidenti, assalti, furti, sequestri, guerre, malattie ed altro144. Le trasferte sfruttavano le vie di terra e di acqua. Al nord, gli attori seguivano un itinerario che attraversava l’Italia orizzontalmente, in parte servendosi del Po e dei suoi affluenti. Bologna era la città in cui attori e compagnie sostavano durante la quaresima, per curare interessi e preparare la stagione successiva. Da questa città, raggiungevano poi Ferrara, Parma o Modena ed eventualmente Mantova o Venezia. In generale, per arrivare in Francia era necessario toccare Milano e Torino per avviarsi verso Lione e continuare poi fino a Parigi. Gli attori potevano scegliere però anche un altro tipo di percorso, verticale, che dallo Stato Pontificio (a volte in nave da Civitavecchia) o dal granducato di Toscana (Firenze, Pisa, Lucca) li conduceva poi, per mare, da Livorno fino a Genova e da lì verso nord. A volte, potevano approfittare del ʽpassaggioʼ di ufficiali o diplomatici145.

Gli spostamenti nella penisola e in Europa erano così organizzati in modo da costituire un sistema assodato, avanzato e competitivo. Inoltre, i vincoli di parentela che legavano le varie corti straniere e nostrane facilitavano i negoziati. Quando i viaggi in Francia ripresero, quindi, tutte le parti in gioco sapevano come muoversi e cosa chiedere. Si veda, a tal proposito, la lettera di Tommaso Venturini inviata da Firenze, il 28 gennaio 1640, a destinatario sconosciuto in Ferrara:

Com’è noto a Vostra Signoria la compagnia del signor Valerio comico, che oggi si ritrova in Parigi, ha finito le loro fatiche ed opere delle loro commedie. Ora, avendosi a provvedere quella corona d’altra compagnia, dall’Illustrissimo signor Luigi Hessellino [Louis Hesselin], al quale si aspetta la protezione di voi altri

molto spesso il grosso del pagamento arrivava come rimborso una volta che il gruppo era giunto a Lione. I lasciapassare venivano forniti dalle cancellerie, come ad esempio quella spagnola di Milano, sulla base di una lettera patente. In essi, si indicava l’elenco dei componenti o più spesso, come nel caso dei salvacondotti, si nominava soltanto il capo della compagnia.

144 Gli attori si muovevano generalmente sulla base di una memoria collettiva ormai sedimentata di

generazione in generazione e di famiglia in famiglia. Si inoltravano per itinerari conosciuti, non necessariamente, ma i più agili, ad esempio evitando gli Appennini. Poteva capitare che gli attori subissero il sequestro delle «robbe» al passaggio dalla dogana. Anche le malattie o i parti potevano rivelarsi fatali. Si pensi alla morte di parto di Isabella Andreini, avvenuta nel 1604, di rientro da Lione.

145 Un esempio, a tal proposito, risale al 1646 quando alcuni musici dovranno partire per la Francia con

l’occasione del rientro di un’armata navale. Cfr. la lettera di Giovanni Bentivoglio a Cornelio Bentivoglio, Fontainebleau 29 settembre 1646, in MONALDINI 2001, n. 14, pp. 5-6. Sempre in una lettera appartenente a queste trattative e risalente al 20 ottobre 1646, Elpidio Benedetti, che si occupava di alcuni musici di Roma, aggiunge: «potendosi inviare sopra l’armata ricorreremo come si ordina al mezo di Monsù Brachet; et in altro caso vi inviaranno a Livorno dove non mancaranno occasioni di passaggi» (cfr. Ivi, la lettera n. 20, p. 8).

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comici, come carica sua, mi viene scritto che io sia con Vostra Signoria, credendo egli, che Lei dimori qui in Firenze. Ma perché Vostra Signoria si ritrova costì in Ferrara, non posso far quell’ufitio che da lui mi è ordinato, che sarebbe di abboccarmi con Vostra Signoria, esortandola ad andare a suo tempo in Parigi con la compagnia; che di presente ha però giudicata da questo Signore squisita per quella occasione, e se pure avesse per concetto di migliorarla, di aver occhio di condurre seco Zanni ridicoli, che faccino delle cascate; amando e gustando quelli a quelli Signori più d’ogn’altra cosa coteste cascate. Io, che ho in pratica per la lunga servitù con questo Signore, credo il tutto che da lui mi è detto, e mi duole di non poter mostrare a Vostra Signoria la lettera che egli mi scrive, la quale tratta dell’utile e conto che è messo a cotesto Valerio l’aver fatto questo viaggio, avendoli lui dato, come Tesauriere di Camera di quella Corona, scudi 2000 e secondo, come per una lettera si può vedere sempre, gli altri regali. Se in ogni caso Vostra Signoria facesse tale risoluzione di andare, io son qua per procurarli il passaporto come è solito farsi; e se poi Vostra Signoria avesse altra difficoltà, Vostra Signoria me ne dia avviso, sì come m’accenna il detto Signore. Ed ancora vorrebbe che ella scrivesse al Re di suo pugno, mostrando essergli cosa grata l’andare a servirlo (se però Vostra Signoria fusse del tutto resoluto di andare). Prego Vostra Signoria dirmi perciò il suo parere, affine che io possa satisfare al debito mio con questo Signore al quale professo vivergli servitore devoto […]146.

Questa lettera rivela che il ritorno degli italiani in Francia avvenne almeno tra 1639 e 1640. Come vi si legge infatti, la compagnia di Valerio vi si trovava nel gennaio del 1640, pronta per rientrare in patria dopo aver servito sua maestà. In base ai documenti e alle tempistiche che regolavano abitualmente stagioni e trasferte147, i comici dovevano essere arrivati a Parigi già per l’estate dell’anno precedente, in modo da impegnarsi in «fatiche ed opere delle loro commedie». L’organizzazione e la protezione degli attori italiani spettava al sovrintendente Louis Hesselin148 il quale, si deduce, si era rivolto a Venturini per trovare una compagnia che giungesse in sostituzione della ʽdimissionariaʼ. Come garanzia, quest’ultimo ricordava all’ignoto destinatario149, la ricompensa e i doni guadagnati dai comici150; lo assicurava sulla faccenda del passaporto che avrebbe potuto

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Lettera di Tommaso Venturini a destinatario sconosciuto in Ferrara, Firenze 28 gennaio 1639 ab incarnatione [1640], in Biblioteca comunale Saffi di Forlì, Fondo Piancastelli, Comici italiani, secc. XVII- XVIII, trascritta in FABRIS 1999, n. 1006, pp. 469-470.

147 In generale, la partenza dei comici avveniva in primavera col favore della stagione. I comici arrivavano

quindi ad inizio estate e potevano esibirsi anche per tutta la stagione invernale, ripartendo per l’Italia all’inizio dell’anno successivo. Cfr. FERRONE 1989, pp. 45-62 e FERRONE 2011a, pp. 3-51.

148 Louis Treslou Cauchon detto Hesselin (1602-1662), signore di Condé, maestro di camera di Luigi XIII e

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