II. ESPERIENZE ARTISTICHE DI CONFINE
2.3 il trauma e l’abiezione
L‟arte degli anni Novanta, è caratterizzata da un vigoroso ritorno del reale.130 Hal
Foster sostiene che esistono due tipi di reale: il “reale osceno”, delle cose troppo vicine da essere rappresentate, relativo a cose che resistono al simbolico, in cui il corpo, danneggiato, malato, o morto è presentato come evidenza, e un reale della specificità con cui le opere sono pensate rispetto ai luoghi, e l'unico punto in cui questi due imperativi possono convergere è la fascinazione presente per il trauma. Quest‟ultimo risulta anzi essere la nozione più adatta a interpretare il presente dell‟arte. Le categorie del disgusto e dell‟abiezione rientrano prepotentemente nella riflessione estetica e il
cadavere ne costituisce l‟oggetto perturbante per eccellenza131
, il luogo «in cui terrore e abiezione, repulsione e attrazione si avvicinano e si confondono nell‟esperienza ambivalente e ancipite del disgusto».132
L‟attenzione degli artisti si concentra sugli aspetti più crudi e violenti della realtà, tematica legate alla morte e al sesso acquistano un valore predominante. Diversamente dal passato, non si tratta più di una rappresentazione veristica o verosimigliante ma di una ostensione diretta e priva di mediazioni simboliche di eventi che suscitano sgomento, ripugnanza. «Il luogo decisivo di questo realismo estremo diventa così l‟incontro tra l‟essere umano e la macchina, tra l‟organico e l‟inorganico, tra il naturale e l‟artificiale».133
La nozione di abietto ha grande diffusione in questi anni nell‟arte e nella critica. Secondo la definizione di Julia Kristeva, l‟abietto è ciò di cui mi devo liberare in modo da essere un io, una sostanza caricata psichicamente, spesso immaginaria, che si situa da qualche parte tra un soggetto e un oggetto, qualcosa di estraneo, ma allo stesso tempo intimo, atto a svelare la fragilità dei nostri limiti. L‟abiezione è una condizione nella quale la soggettività è messa in crisi e i significati collassano.134 «In un mondo dove l‟Altro è sprofondato, dichiara Julia Kristeva, lo scopo dell‟artista non è più di sublimare l‟abietto, di elevarlo, ma di scandagliarlo, di penetrare “l‟origine” senza fondo che è la rimozione originaria».135
Ne Il disagio della civiltà (1930) Freud afferma che la civiltà si fonda sulla rimozione del corpo basso, dell‟analità e dell‟olfattivo e sul privilegio del corpo eretto, della genitalità e della vista.136 «La bocca, l‟ano, il fallo non sono solo degli orifizi del corpo, ma le vie del suo contatto col mondo, vie consentite o interdette, percorse da un piacere riconosciuto o sospetto. […] Un mal-essere di questi organi è un‟impossibilità a essere, a esteriorizzarsi; è un disequilibrio dell‟esistenza, costretta a vivere nel proprio corpo la sua impossibilità o incapacità a progettarsi un mondo».137 L‟arte degli anni Novanta sembra pervasa di avvilimento e rigetto, confusione e spaesamento,
131 Cfr. H.Foster, cit, pp. 133-163 132
M.Perniola, L‟arte e la sua ombra, Einaudi, Torino, 2000, p.4
133 Ivi, p.5
134 J. Kristeva, trad.it. Poteri dell‟orrore. Saggio sull‟abiezione, ed. it., Spirali, Milano, 1981, p. 4 135 Ivi, p.20
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S. Freud, trad.it. Il Disagio della civiltà, in “Opere”, vol. X, Boringhieri, Torino, 1967-1993
sporcizia e deiezioni. Emergono detriti sociali e residui corporali. Gli artisti indagano condizioni e sostanze che si oppongono all‟ordine sociale costituito.
La tendenza escrementizia nell‟arte contemporanea potrebbe intendere un ribaltamento simbolico, un tentativo di rovesciare la concezione primaria della civiltà per annullare rimozione e sublimazione attraverso una rinnovata ostentazione dell‟anale e del fecale, che esprimono il primitivo, l‟ancestrale ricambio del corpo col mondo. Un fil rouge sottile attraversa l‟arte del XX secolo: dal macinino di caffè di Duchamp passa per la Merda d‟artista di Manzoni, ironica affermazione della soggettività del‟artista; dalle pratiche oltraggiose di Mike Kelley a quelle di Paul McCarty; da quelle maggiormente esistenziali di John Miller e Kiki Smith alla parodia brutale della Cloaca Turbo di Wim Delvoye.
Numerosi gli artisti che mettono in scena la regressione come espressione di protesta e di sfida, aspetto che assume caratteri particolarmente aggressivi nel lavoro di Paul Mc Carthy, artista che fin dagli anni Settanta si sofferma sulla patologia della trasgressione, attacca le figure convenzionali dell‟autorità maschile tramite maschere grottesche e costumi bizzarri. In Il mio dottore (1978), il protagonista maschile partorisce sanguinosamente dalla testa una bambola, una sorta di Zeus versione splatter da film dell‟orrore. Negli anni Ottanta e Novanta Mc Carthy espone come installazioni le tracce residuali delle sue performance - animali di pezza, bambole e arti artificiali, object trouvé che rifunzionalizza talvolta in macchine celibi che inscenano situazioni oltraggiose, ai limiti dell‟osceno. Lo stereotipo di base si spinge fino all‟esaltazione del grottesco: liberi accoppiamenti di figure sfidano tutti i confini tra le differenze - vecchio e giovane, umano e animale, persona e cosa - scompaginano i registri interpretativi, dissolvono le strutture identitarie. Paul McCarthy mette in scena conflitti e dilemmi di personaggi ibridi e oppressi da cliché che interpreta con l‟aiuto di maschere e travestimenti. Le sue azioni sono sempre a sfondo sessuale, messe in scena teatrali e drastiche di processi e atti in parte considerati tabù, come la nascita e la morte, il coito, la sodomia e la masturbazione. Spesso l‟artista viene paragonato agli esponenti dell‟Azionismo Viennese per l‟icasticità dell‟impatto e la brutalità delle situazioni, ma la sua strategia estetica in realtà non è interessata all‟autenticità delle sensazioni represse e a istanze psicoanalitiche, ma è incentrata sull‟impatto mediatico e sull‟incidenza delle strutture sociali sul comportamento individuale. L‟uso ossessivo
di materiale fluido come il ketchup o la maionese, sostituti pop dei fluidi corporali, è un segno della condizione alienata dell‟individuo americano. L‟analisi di McCarthy non parte quindi dalle scaturigini dell‟inconscio ma dai simulacri della vita normale, si nutre di Hollywood, di serie televisive e dei fumetti, di Bmovie e Disneyland; elementi diversi che confluiscono in una visione riflettente le dinamiche dei rapporti sociali per sottometterli a una simbolica devastante, tragicomica e di compiaciuto cattivo gusto. Una poetica eversiva e irriverente che torna in Mike Kelley, con il quale McCarthy realizza numerose collaborazioni come Heidi (1992), dove l‟elvetica, stereotipata famiglie strappalacrime cede il passo a un Bmovie dell‟orrore americano. Kelley dispiega capovolgimenti carnevaleschi dei personaggi e inversioni dei ruoli soprattutto in riferimento alle convenzioni sociali e ai bagagli culturali; è molto attento alle connessioni tra l‟oppressione sociale e la sublimazione artistica, tra le gerarchie all‟interno delle classi e i valori all‟interno della cultura.
Se la fascinazione per l‟inorganico nell‟opera d Cindy Sherman prevede la presenza costante, ingombrante del corpo umano e una perenne auto-rappresentazione dell‟artista, diversamente nell‟opera di Robert Gober il corpo diviene presenza invisibile, negato, presente solo per frammenti, allusioni, tracce sparse che rivelano le esperienze inquietanti delle realtà comuni.
Il corpo si offre come frammento, ostensione di ciò che è abietto, ab-iectum e quindi messo da parte, nascosto, disprezzato. L‟artista allestisce la scena caricandola di rimandi fisici e psicologici, lascia degli indizi, le prove di una presenza passata e transitoria che rimanda una atmosfera un po‟angosciata da scenario quotidiano americano. La sospensione di una presenza percepibile ma non visibile, un ambiente emotivo creato di volta in volta dall‟incontro perturbante con un oggetto. Gober recupera e ricostruisce maniacalmente tutti gli oggetti che presenta: una sediolina di plastica, un pacco di fazzoletti di carta, un lavandino, una bacinella, una bottiglia di gin. Dai muri sbucano gambe e braccia oltre a grandi lavandini bianchi che rimandano atmosfere ospedaliere, valigie con dentro acquari, torsi metà donna e metà uomo, cesti di frutta con dentro fucili: tutto un mondo mai macabro, mai effettivamente violento, mai gratuito, che gira e racconta una visione spiazzante e crudele di un mondo allucinato, incongruo, richiama sovente i rapporti intricati tra esperienza estetica, desiderio sessuale e morte, si interessa alla memoria e al trauma. I suoi tableaux
evocano situazioni enigmatiche più che eventi reali, immettono in uno spazio ambiguo: «proprio mentre interroga le ragioni del desiderio, Gober considera anche la natura della perdita. In effetti rielabora l‟estetica surrealista del desiderio, fortemente eterosessuale, in un‟arte della melanconia e del lutto, qui con una sfumatura omosessuale, un‟arte di perdita e sopravvivenza nell‟età dell‟Aids».138
Questi artisti sviluppano una ricerca tesa alla «ripetizione dell‟esperienza traumatica», in cui l‟arte diventa un luogo dove trovare la memoria o la fantasia e qualche volta come accesso simbolico a un evento, nel quale l‟opera diventa un luogo dove si può tentare un «trattamento o un esorcismo».139 In Kiki Smith la poetica della traccia organica, del residuo teratologico, sono trattati in maniera altamente simbolica, sospesa tra sublimazione e pulsioni dell‟inconscio, tra figurativo e astratto, tra asciuttezza espressiva e seduzione della materia, tra maschile e femminile, aggressione e passività. «A volte creo immagini dure, dichiara l‟artista, ma per me sono tentativi di sopravvivenza. Sono una persona molto ottimista e parte del mio lavoro riflette questa volontà di sopravvivere».140 Costante nel suo lavoro è l‟attenzione sul corpo: un corpo smembrato, lacerato, mostrato nelle sue parti più nascoste. L‟artista utilizza spesso materiali malleabili per ricordare la materia di cui siamo fatti, la difficoltà di tenere i fluidi corporali sotto controllo, la deperibilità della carne: «nella fisicità dei materiali si trova e si costruisce il significato dell‟opera d‟arte […] la cera, la carte e il vetro sono semitrasparenti, traslucidi, la luce li attraversa, hanno proprietà simili alla pelle. Questi materiali danno l‟impressione di essere un materiale vivo, il che è importante nel mio lavoro».141 Come la Bourgeois, Smith evoca spesso i traumi del rapporto tra madre e figlio, rievoca le proprie paure e le formalizza per esorcizzarle. In questo senso l‟opera di Smith diviene introiezione catartica del reale, luogo dell'esperienza, sede del ricordo. L‟artista spesso realizza residui teratologici del corpo umano, realizza colature di organi e ossa, come cuori, uteri, bacini, costole, in diversi materiali. Intestino (1992) ad esempio, è una linea raggrumata in bronzo, lunga quanto un vero intestino, distesa inerte sul pavimento. Una pulsione mortifera attraversa il lavoro dell‟artista, spesso la
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Y.A. Bois, B. Buchloh, H.Foster, R. Krauss, trad.it. Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo,
Postmodernismo, cit., p.646
139 Ivi, p.645
140 K.Gregos, L‟arte rimanda a ciò che è assente, in “Contemporanee. Percorsi, lavori e poietiche delle artiste
dagli anni Ottanta a oggi” a cura di E. De Cecco e G. Romano, Costa&Nolan, Ancona-Milano, 2000, p.151
perdita delle interiora è metaforizzata come perdita del sé e si concentra sul corpo materno, come in Favola (1992), figura femminile nuda carponi che trascina una lunga escrescenza formata da viscere sparse. Il tema della mutazione si intravvede in Pozza di sangue (1992): una bambina malformata, realizzata in un bronzo rossastro che ne enfatizza la drammaticità, è bloccata in posizione fetale e apparentemente tranquilla, ma nasconde sul retro una inquietante spina dorsale formata da una doppia fila di ossa sporgenti che somigliano vagamente a denti.