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TUTELA AMMINISTRATIVA E GIURISDIZIONALE NELLA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIAL

SCORRETTE

1. I soggetti legittimati a promuovere le azioni di contrasto alle pratiche commerciali scorrette

La Direttiva in esame, alla luce di quanto esposto in precedenza, attribuisce quindi, ai legislatori nazionali, un significativo margine di manovra per quanto riguarda la scelta dei profili sanzionatori e rimediali141.

È stata infatti demandata al legislatore la predisposizione di mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali scorrette al fine di garantire l’osservanza delle disposizioni della Direttiva nell’interesse dei consumatori e degli utenti, nonchè la previsione di disposizioni giuridiche ai sensi delle quali i soggetti e le organizzazioni che vantino un interesse legittimo a contrastare pratiche commerciali scorrette, possano sottoporre tali pratiche al

141

In questo senso G. DE CRISTOFARO, La difficile attuazione della Direttiva 2005/29/Ce,

concernente le pratiche commerciali sleali nei rapporti fra imprese e consumatori: proposte e prospettive, in Contratto e Impresa/Europa, 2007.

giudizio di un’Autorità amministrativa competente o, in alternativa, intentare un’adeguata azione giudiziaria (art. 11 della Direttiva).

La Direttiva, tuttavia, non prende posizione quanto

all’individuazione dei soggetti portatori di un legittimo interesse a

promuovere le azioni opportune per contrastare le pratiche scorrette, in concorrenza o congiuntamente con gli organismi pubblici a ciò istituzionalmente preposti, demandando perciò tale compito ai legislatori nazionali.

Il legislatore italiano, in particolare, ha compiuto sino ad oggi una scelta molto chiara, nel senso di negare la legittimazione ai singoli consumatori-utenti i quali non si trovino in condizioni di vantare una posizione giuridica soggettiva tale da differenziarli rispetto a tutti gli

altri; né, d’altra parte, si può sostenere che la Direttiva imponga agli

Stati membri di pervenire ad un esito differente da questo142, in quanto la stessa non pregiudica i ricorsi individuali proposti da soggetti che sono stati lesi da una pratica commerciale scorretta, tanto che gli Stati membri potranno mantenere o introdurre limitazioni e divieti in materia di pratiche commerciali, motivati dalla tutela della salute e della sicurezza dei consumatori ed utenti nel loro territorio, ovunque

sia stabilito il professionista (ad esempio riguardo alcool, tabacchi o prodotti farmaceutici).

Riconoscere al singolo consumatore-utente un potere

indiscriminato di reazione ad una pratica commerciale scorretta che non abbia leso una sua posizione giuridica soggettiva, significa espandere oltre i confini consentiti la protezione costituzionale del diritto di azione, riconosciuto e costituzionalmente tutelato in quanto destinato a salvaguardare e a garantire «i diritti e gli interessi

legittimi» (secondo l’art. 24 Cost.), in quanto l’azione sperimentata si

fonda sulla pretesa sussistenza di una loro violazione.

Certamente sono categorie dogmatiche a cui, tuttavia, il costituente ha fatto esplicito riferimento riconoscendo in modo indiscriminato il potere di azione al consumatore-utente per violazione

di regole di condotta sul mercato da parte dell’imprenditore, nonchè il

correlativo dovere del giudice di intervenire. Tale riconoscimento indiscriminato, però, viola il principio di eguaglianza, almeno sino a quando non si riesca a dimostrare (e ciò non pare possibile) che la qualità di consumatore-utente, in sé e per sé considerata, costituisce un ostacolo di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la

libertà e l’eguaglianza, impedisce il pieno sviluppo della persona umana, secondo il disposto dell’art. 3, comma 2, Cost.

La categoria giuridica di consumatore-utente non attinge, tuttavia, né a presupposti di ordine sociale né a presupposti di ordine economico: la speciale protezione che può ricavare dalla disciplina

delle pratiche commerciali scorrette ha carattere puramente

incindentale, essendo fondata su ragioni di salvaguardia dell’equilibrio concorrenziale del mercato. Il consumatore-utente è, cioè, strumento e non fine della legislazione e la tutela di cui gode ha carattere riflesso e non diretto. Ciò viene dimostrato dallo stesso testo della Direttiva, ove si rammenta che il legislatore intende certamente contribuire al corretto funzionamento del mercato interno nonché al conseguimento di un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti, quindi

nell’ambito e in funzione del mercato stesso, con l’ovvia conseguenza

che la protezione derivi e si giustifichi incidentalmente quale conseguenza del corretto funzionamento del mercato143.

Arrivati a questo punto è d’uopo affermare che la pratica

commerciale scorretta deve essere combattuta proprio in quanto

143 Cfr. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-

ostacolo alla realizzazione e conservazione di un determinato

equilibrio di concorrenza nel mercato: la rimozione e l’eliminazione di

questo è compito che va riconosciuto primariamente a chi istituzionalmente vi è preposto. Colui o coloro che occasionalmente abbiano ricevuto un pregiudizio da una pratica commerciale scorretta già fruiscono, del resto, degli opportuni strumenti di reazione.

Quelle pratiche che intralciano la libera determinazione del consumatore-utente144 nella scelta se stipulare o no un contratto e nel

determinare quale contenuto giuridico attribuirgli, possono

comportare un danno risarcibile per chi lo subisce già attraverso la disciplina esistente, e non necessariamente soltanto in riferimento a quella sulla responsabilità precontrattuale.

Non di rado, tale protezione risulta rafforzata dal fatto che in molti casi, le condotte del professionista, analiticamente elencate

nell’Allegato I della Direttiva, possono integrare una fattispecie di

reato, già prevista e punita dalla legislazione penale (come la truffa, la

violenza privata, la minaccia o l’estorsione) e come tale, dunque, fonte

di danni risarcibili.

Esclusa la legittimazione dei singoli consumatori-utenti, per il legislatore diventa una scelta pressoché obbligata quella di affiancare agli organismi pubblici indipendenti nazionali, e alle organizzazioni riconosciute in altro Stato dell’Unione europea di cui al comma 2

dell’art. 139, c. cons., determinati enti privati cui riconosere la

legittimazione ad attivare il procedimento di repressione delle pratiche

commerciali scorrette dinnanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria, attraverso il procedimento disciplinato nell’art. 140, c. cons. Tali sono,

anzitutto, le associazioni di consumatori e utenti che abbiano

conseguito l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 137, c. cons., istituito

presso il Ministero delle attività produttive.

Vi è tuttavia da chiedersi se la legittimazione vada estesa anche alle associazioni di concorrenti, come la Direttiva mostra di voler consentire. In realtà, un simile potere viene riconosciuto alle

«associazioni professionali» già dall’art. 2601, c.c., quando gli

interessi della categoria professionale vengano pregiudicati da atti di concorrenza sleale, atti che tuttavia non coincidono e non possono perciò essere assimilati sic et simpliciter alle pratiche commerciali scorrette. Non coincidono perché essi devono essere «direttamente connessi» alla «promozione, vendita o fornitura» di un qualsivoglia

bene o servizio ai consumatori-utenti e devono essere posti in essere

prima, durante o successivamente all’insorgere di un rapporto

giuridico tra il consumatore-utente stesso e il professionista, dovendo in ogni modo, seppur non esclusivamente, risultare lesivi di interessi economici facenti capo al primo.

Si può optare, allora, per la soluzione di conservare il sistema esistente, tenendo conto che in ogni modo le associazioni professionali

possono, se lo ritengono opportuno, ricorrere all’Autorità

indipendente come, del resto, possono fare i singoli consumatori-

utenti: soltanto gli organismi di cui al citato comma 2 dell’art. 139, c.

cons., e le associazioni esponenziali degli interessi di consumatori e utenti potranno così conseguire dal giudice i provvedimenti con i quali venga ordinata la cessazione delle pratiche scorrette o il divieto di porle in essere se queste non siano ancora state realizzate, nonché i provvedimenti idonei a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate e la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani nazionali o locali, quando ciò possa contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate145.

145

In tema di pubblicità ingannevole è stato infatti ribadito che alle associazioni di consumatori e di utenti debba essere riconosciuto il potere di agire dinnanzi al giudice ordinario per ottenere la tutela in cessazione, ancorché sia loro consentito di rivolgersi in via alternativa all’organismo

2. Procedimento di repressione delle pratiche commerciali scorrette

davanti all’Autorità giudiziaria ordinaria

Per quanto riguarda il procedimento dinnanzi all’Autorità

giudiziaria ordinaria e, in particolare, la disciplina dei rimedi di tipo civilistico, si può chiaramente desumere che la Direttiva non menzioni alcuno dei rimedi esperibili dai singoli consumatori-utenti davanti al giudice ordinario146.

Solamente in applicazione degli articoli 139 e 140 del Codice del Consumo viene riconosciuta la legittimazione in capo alle associazioni dei consumatori e degli utenti a proporre azioni inibitorie volte a far cessare le pratiche scorrette, ma anche qui ci troviamo di fronte alla

amministrativo indipendente: Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7036 (ord.), in Foro It., 2006, I, p. 1713 ss.; in senso difforme vedi Trib. Torino, ord. 30 gennaio 2004, reperibile in extenso in Dvd

Juris data. La decisione del giudice di legittimità ricorda, tra l’altro, come il testo normativo in

materia – vigente pirma dell’entrata in vigore del Codice del Consumo (art. 7, comma 14, d.lgs. 1992, n. 74) – facesse espressamente richiamo all’art. 3 della l. 281/1998, ossia al procedimento

oggi regolato dall’art. 140, c. cons., per quanto riguardava la tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti. Il fatto che il testo dell’art. 26 del citato codice, dedicato alla disciplina

della tutela amministrativa e giurisdizionale contro la pubblicità ingannevole o comparativa illecita, non contenga più alcun rinvio espresso ai procedimenti inibitori collettivi a protezione dei consumatori e degli utenti, non può certamente indurre a opinare in senso contrario, sia perché non

pare che l’omissione sia da attribuire ad una scelta precisa operata dal codificatore del 2005, sia perché l’ampiezza del disposto del comma 1 dell’art. 140 è tale da ricomprendere in sé anche i

messaggi pubblicitari ingannevoli o quelli comparativi non consentiti: vi si prevede, infatti, che il giudice possa «inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti» e «adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate»

146 G. DE CRISTOFARO, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e

consumatori, cit., pag. 1112, ha definito il silenzio del legislatore sul punto addirittura

«assordante», ritenendo che «il silenzio mantenuto sul punto dalla nostra disciplina di recepimento lascia a dir poco perplessi, e non mancherà di creare delicati problemi agli interpreti, chiamati al difficile compito di coordinare le nuove regole con i precetti generali del Codice del Consumo (in primis gli artt. 2, 5, 39 e 143) e soprattutto del Codice Civile».

tutela collettiva dei consumatori-utenti e non alla tutela individuale di ciascun soggetto leso. Da qui si giungerebbe dunque a sostenere, come già avvenuto in tema di pubblicità ingannevole e comparativa, che i singoli consumatori-utenti non possano agire davanti al giudice ordinario a tutela dei propri interessi, dal momento che, salve le azioni

proposte dai concorrenti in materia di concorrenza sleale, l’AGCM

avrebbe giurisdizione esclusiva in tema di applicazione delle norme in questione147. Tale ultima conclusione, tuttavia, è stata dai più ritenuta da escludersi148, in primis perché sarebbe in contrasto con l’art. 24

della Costituzione nei limiti in cui i consumatori e gli utenti siano ritenuti portatori di un interesse giuridicamente rilevante leso dalle pratiche scorrette, e inoltre in quanto l’art. 19, comma 2, lett. a), c. cons., chiarisce che le norme del Titolo del Codice del Consumo in questione – tra le quali l’art. 27 – non pregiudicano l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale e in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia del contratto.

147Questa tesi è stata sostenuta dal Trib. Torino, ordinanze 19 dicembre 2003 e 23 gennaio 2004,

in Giur. It., 2005, pag. 1017 (con nota di Bertolino).

148

Nel senso della sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario avverso le ordinanze del Tribunale di Torino di cui alla nota precedente, si è pronunciata la Suprema Corte di Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7036.

Ebbene, nel testo del d.lgs. 146/2007 non si fa altro riferimento ai rimedi civilistici a favore del consumatore o utente danneggiato, salve le previsioni in tema di azioni collettive di cui all’art. 140-bis, comma 2, c. cons.149, le quali tuttavia hanno come obiettivo quello di creare un particolare strumento processuale, non quello di individuare un diritto sostanziale al risarcimento. Dando per riconosciuta la giurisdizione concorrente del giudice ordinario nel silenzio del legislatore, spetterà

adesso all’interprete individuare i rimedi sostanziali, facendo ricorso all’interpretazione delle norme generali del nostro ordinamento in

materia di contratto e di responsabilità civile e delle norme in questione del Codice del Consumo.

Il contratto stipulato con il consumatore-utente a seguito di una

pratica commerciale scorretta sarebbe nullo, ai sensi dell’art. 1418,

comma 1, c.c., per violazione di norme imperative. Si tratterebbe, in particolare, di una nullità cd. di protezione, disposta nell’interesse del consumatore-utente, sempre relativa e necessariamente parziale qualora il soggetto desiderasse mantenere in vita il contratto, anche se a condizioni diverse da quelle in concreto stipulate. In base a

149Tali previsioni sono state del resto introdotte dalla l. 24 dicembre 2007 n. 244, art. 2, commi

quest’ultima ricostruzione, la nullità virtuale del contratto trarrebbe la

propria origine dalla natura imperativa del divieto di pratiche commerciali scorrette, e il suo carattere di protezione deriverebbe dalla ratio di tutela del consumatore-utente sottesa alla stessa disciplina in questione; di conseguenza, andrebbe applicata, per analogia, la disciplina prevista dall’art. 36, c. cons. Altra ricostruzione, in antitesi rispetto alla prima, ha sottolineato come la nullità virtuale possa configurarsi solo nei casi in cui la norma imperativa sia in contrasto con il contenuto del negozio o con la sua struttura, non quando essa vieti un comportamento di una delle parti nella fase precontrattuale150. Questo perché solamente un vizio strutturale del negozio o il contrasto tra la norma imperativa e il regolamento contrattuale possono portare alla nullità virtuale, mentre la violazione di regole di condotta precontrattuali, a tutela degli

150 Cfr. G. Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, Giuffrè, 1993; in

giurisprudenza si vedano: Cass. Civ., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Giur. comm., 2008, 2, 344 (nota di Gobbo) e Cass. Civ., 29 settembre 2005, n. 19024, in Giust. civ. Mass., 2005, 7/8.

Quest’ultima ha affermato che «la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, ai sensi

dell'art. 1418, comma 1, c.c., postula che siffatta violazione attenga ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e quindi l'illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative per la formazione del contratto, ovvero nella sua esecuzione, non determina la nullità del contratto, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali sia in contrasto, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista anche in riferimento a detta ipotesi».

interessi di una parte, non può incidere sulla validità151. Ne consegue, in virtù di tale ricostruzione, che i contratti conclusi a seguito di una pratica commerciale scorretta devono ritenersi validi, dal momento che le norme dettate in materia vietano la condotta precontrattuale del professionista, volta ad influire sulla libertà negoziale del consumatore, non sul contenuto del contratto di per sé. È stato inoltre sostenuto, secondo una visione ancor più restrittiva, che la disciplina della nullità di protezione non potrebbe trovare applicazione, in quanto riservata unicamente ai casi in cui prevista espressamente per legge152. Di conseguenza, andrebbe applicata la disciplina codicistica generale della nullità la quale, tuttavia, non rappresenterebbe un

rimedio utile nell’interesse del consumatore-utente. Altri autori153

151 Salvo che la nullità non sia posta dal legislatore espressamente, il che rappresenterebbe,

secondo questa ricostruzione, una soluzione opportuna, soprattutto ove si inserisse nell’ambito di

una razionalizzazione del quadro dei rimedi civili azionabili a seguito della violazione di norme

sulla condotta all’interno del mercato. In questo modo verrebbero meno i dubbi dogmatici

connessi alla configurabilità – nel caso in questione – di una nullità di protezione virtuale e si eviterebbero i problemi legati ai profili risarcitori.

152Esclude la configurabilità della nullità virtuale la Cass. Civ., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n.

26725, la quale ha confermato quanto già affermato da Cass. Civ., Sez. I, 29 settembre 2005 n. 19024, in Giust. civ. Mass., 2005, 7/8. La Cassazione a Sezioni Unite ha affermato, richiamando espressamente la sentenza precedente del 2005, che «la violazione dei doveri di informazione del cliente che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove avvenga nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti», senza far riferimento alcuno ad ipotesi di nullità virtuale.

153

Per quanto riguarda la riconduzione ad equità del contratto in materia antitrust, si veda G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1999, I, p. 99 ss.; G. VETTORI, Buona fede e diritto europeo dei contratti, in Eur. dir. priv., 2002, p. 927, ha osservato

cercano una soluzione al problema ricorrendo al principio di equità contrattuale o alla necessità di tutelare la parte debole e di riequilibrare il contenuto negoziale. Pare indubbio come tale ultima impostazione non possa trovare accoglimento dal momento che nel nostro ordinamento non sussistono, allo stato, principi e regole idonei a fondare tale lettura. Superato il riferimento alla nullità, alcune parole

devono essere spese per l’istituto dell’annullabilità, che pare aver

riscosso maggior successo. Infatti, sembrerebbe prestarsi come «naturalmente più adeguato a risolvere problemi»154 in caso di scorrettezze nella fase di formazione negoziale a danno del consumatore-utente. Tuttavia, anche questa teoria, ovvero il ricorso

all’annullabilità, ha trovato autorevoli oppositori, i quali fanno perno

sulla tipicità dei vizi del consenso155. Tali autori sottolineano come

l’annullabilità del contratto per pratica commerciale scorretta

dovrebbe comunque essere ricostruita alla luce del dolo, violenza o errore della pratica posta in essere dal professionista: indubbio come,

che nella disciplina di origine comunitaria ciò che rileva non è lo squilibrio in sé, ma solo in quanto frutto di un abuso o di un contegno in mala fede.

154Cfr. C. GRANELLI, Le pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori: l’attuazione

della Direttiva 2005/29/Ce modifica il Codice del Consumo, in Obbl. e Contr., 2007, 10, p. 781 ss.

155 Cfr. G. DE CRISTOFARO, Le Pratiche commerciali nei rapporti fra professionisti e

consumatori, cit., pag. 1113. A sostegno, invece, della tesi dell’atipicità sostanziale dei vizi del consenso diretti all’annullabilità del contratto, si veda R. Sacco, Il consenso, in E. Gabrielli (a cura

mentre in alcuni casi tale sussunzione può risultare agevole, in altri casi può essere davvero difficoltosa, con conseguente impossibilità di

far ricorso all’annullamento. Senza voler analizzare tutte le ipotesi

possibili, si ricordi che il dolo e la violenza sono causa di annullabilità del contratto solo se intenzionali, ossia solamente se determinati comportamenti o dichiarazioni sono stati compiuti con l’intenzione di farlo; mentre le pratiche commerciali scorrette sono vietate a

prescindere dall’intenzionalità o meno del professionista, ossia a

prescindere sia dal fatto che il professionista avesse effettivamente

l’intenzione di porre in essere una pratica commerciale scorretta sia dal fatto che quest’ultimo fosse consapevole dell’antigiuridicità della

propria condotta. Così come il semplice mendacio non si vede opporre

l’annullamento del contratto per dolo, dal momento che è necessaria a

tal fine la predisposizione di apparenze e raggiri, mentre

l’affermazione del falso è senza dubbio sufficiente ad integrare una

pratica scorretta.

Di conseguenza, facendo salve le ipotesi nelle quali le pratiche commerciali scorrette integrano perfettamente gli estremi del dolo o

della violenza, l’annullamento non rappresenta uno strumento sempre

consumatori-utenti. A questo punto, pare che l’unica strada

percorribile possa essere quella di tipo risarcitorio, ed in particolare la responsabilità aquiliana ex art. 2043, c.c.156. Anche qui non mancano

le problematiche che l’interprete deve affrontare, prima fra tutte l’individuazione di un danno ingiusto. Secondo alcuni, che danno una lettura restrittiva dell’ingiustizia, secondo la quale l’articolo 2043,

c.c., sarebbe una norma di carattere secondario che presuppone la lesione di un diritto soggettivo individuato da una norma primaria157, si potrebbe negare la risarcibilità in via extracontrattuale dei danni patiti dai consumatori ed utenti vittime di pratiche commerciali scorrette, in quanto mancherebbe nel caso di specie la lesione di un

diritto soggettivo: in altre parole, si potrebbe giungere

all’affermazione che la semplice violazione del divieto non implica di

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