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INTRODUZIONE

di Patrizio Gonnella*

È strana la stagione che stiamo vivendo, probabilmente inimmaginabile solo qualche anno addietro. In tutti i settori della vita pubblica, e nel vasto campo delle libertà civili, niente si può più ritenere una conquista definitiva e acquisita. Tutto è potenzialmente modificabile. Tutto può essere messo in discussione.

La bilancia e la misura hanno, sin dalla tradizione classica, fatto parte dell’iconografia della giustizia. Dike aveva la bilancia in mano ed era rappresentata come una dea bendata. Doveva proteggere i tribunali, il luogo del giudizio e dell’esercizio della pratica della misura. In tempi in cui manca la misura, tutto conseguenzialmente può essere proposto e tutto è possibile.

Molto rapido è stato il passaggio di fase, che ha trovato impreparati giuristi, operatori della giustizia, cultori e attivisti dei diritti umani.

La questione carceraria, e ancora più specificamente quella del diritto alla sessualità e all’affettività dei detenuti, può essere analizzata e raccontata come paradigmatica per comprendere i tempi che stiamo vivendo. Ed è in questo contesto che vanno letti i saggi che seguono.

Fino a un anno fa ancora si sperava che fosse approvata una riforma organica dell’ordinamento penitenziario. Il clima politico e sociale era però, già agli inizi del 2018, oramai definitivamente cambiato rispetto al 2013, anno in cui l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano inviò un messaggio alle Camere per sollecitare una compiuta riforma del sistema penitenziario, oltre che un provvedimento di clemenza.

Le riflessioni presenti nella dottrina, i moniti della giurisprudenza, le elaborazioni presenti all’interno dei tavoli degli Stati Generali sull’esecuzione delle pene, sono tutte a un tratto finite drammaticamente fuori dall’attualità e dalla prospettiva riformatrice de jure condendo.

Alcuni temi sono diventati argomenti di sola riflessione dottrinale e non più di interesse del legislatore. Tra questi vi è quello della sessualità dei detenuti.

Va detto, però, che nell’autunno del 2018, in silenzio, quasi vergognandosene, il Governo ha approvato un piccolo pezzo di quella riforma, la quale è dunque definitivamente finita in Gazzetta Ufficiale. Ora è legge dello Stato.

Si intravede nelle norme oggi entrate in vigore, seppur in una forma non esplicita (ossia senza menzionare mai la parola ‘sesso’) e solo per i detenuti reclusi negli istituti penali per minorenni, una possibilità di essere autorizzati a visite riservate con persone a cui sono legati affettivamente in appositi locali interni al carcere. Sembra proprio che il legislatore si riferisca, va ribadito per

chiarezza per i soli ragazzi presenti negli istituti per i minorenni, a visite intime durante le quali sia consentito avere rapporti sessuali. Possibilità prevista dunque per i ragazzi e non per gli adulti. Anomala appare la discriminazione che forse potrà un giorno interessare la Corte costituzionale. Si pensi infatti a due ragazzi (di età simile ma non identica) entrambi arrestati per lo stesso fatto, e detenuti uno in un istituto penale per minorenni e l’altro in un carcere per adulti, ai quali spetterà un trattamento ‘sessuale’ diverso, pur essendo entrambi regolarmente sposati o addirittura essendo solo il secondo coniugato. In sintesi un minore potrà avere rapporti sessuali con la fidanzata e un detenuto adulto non potrà averli con la moglie. Bizzarra appare la scelta del legislatore.

La parola ‘sesso’, nonostante queste aperture verso i ragazzi, non è però entrata esplicitamente nell’ordinamento penitenziario, se non nelle norme di principio riguardanti i divieti di discriminazione.

Il diritto alla sessualità resta dunque un tabù da cui sarà difficile liberarsi in tempi brevi.

Un tabù rotto nei saggi pubblicati i quali hanno la forza di affrontare il tema del ‘sesso’ non autorizzato ai detenuti in modo diretto e senza auto-censure etiche o normative. Laddove il legislatore resta immobile, il pensiero degli studiosi si muove brillantemente e va fortunatamente avanti.

Nei saggi che seguono, considerati nella loro complessità e interezza, si prende atto della sessualità negata ai detenuti, ci si interroga intorno al diritto a possedere materiali pornografici e su quali siano i limiti etici a impedirne la diffusione nelle celle.

Si affrontano temi originali che collegano detenzione, disabilità e sessualità negata.

Viene raccontata un’esperienza (quella dei love givers) per capire se, in mancanza di pregiudizi, possa essere esportabile dalla libertà in carcere.

Ci si chiede se la cella sia un luogo pubblico o aperto al pubblico dove potere o non poter fare sesso. Si affrontano temi come quello della prostituzione maschile o dei sex toys.

Si guarda alle esperienze di altri Paesi con un lucido sguardo di comparazione e si propongono prospettazioni giuridiche costituzionalmente orientate.

Chissà se elaborazioni così raffinate possono aiutare la giurisprudenza ad andare oltre rispetto a enunciazioni che nel passato non hanno aiutato la prospettiva riformatrice.

Era il 2008 quando la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (con sentenza n. 3282/2008) aveva dichiarato che la consumazione di un matrimonio non poteva essere considerato un motivo necessario per ottenere un permesso ai sensi dell’articolo 30 dell’Ordinamento penitenziario. La Corte aveva infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un detenuto condannato all’ergastolo al quale era stato già negato dal magistrato di sorveglianza il permesso per motivi di necessità. Nel caso in questione il richiedente non poteva utilizzare il permesso premio (articolo

30-ter) perché non aveva ancora scontato una quantità sufficiente di pena. L’articolo 30 recita testualmente: “Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo. Analoghi permessi possono essere concessi eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità”. Prima della riforma Gozzini del 1986, che introdusse l’articolo 30-ter nella legge 354 del 1975, la magistratura di sorveglianza tendeva a includere la consumazione dei rapporti coniugali tra gli “eventi familiari di particolare gravità” così interpretando in modo estensivo e non necessariamente in chiave luttuosa il concetto di gravità. La Cassazione ha in quel lontano 2008 sostenuto invece che l’attività sessuale con il proprio

coniuge o convivente non costituisce un diritto. Tra gli eventi di particolare gravità, secondo i giudici supremi, non vi era il diritto ad avere rapporti sessuali. La Corte però non è andata oltre. È chiaro che il sesso praticato non ha per sua natura alcun carattere di eccezionalità. Ma la Corte non si è posto il problema di suggerire una pratica ordinaria di gestione in ambito interno al carcere. Così i detenuti non possono avere rapporti sessuali in galera, ma neanche fuori.

Un atteggiamento giurisprudenziale di questo tipo non aiuta la riformulazione dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario il quale prevede in modo espresso che i colloqui con i familiari debbano essere controllati visivamente. Ci fu un tentativo di revisionare la normativa in chiave liberale nel 2000. Infatti in sede di redazione del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario fu introdotta la norma che consentiva incontri riservati di natura affettiva. Il Consiglio di Stato bocciò preventivamente la norma affermando la sua inammissibilità. Sostenne infatti che un regolamento, seppur approvato con decreto del Presidente della Repubblica, non poteva contraddire una legge (il già citato articolo 18 dell’ordinamento penitenziario) che invece negava implicitamente tale possibilità.

Una questione, quella della sessualità in carcere, che mentre all’estero la si affronta in modo pragmatico – ovvero se ne fa solo una questione di spazi dove consentirla – da noi in Italia è ammantata di connotazioni moralistiche.

Contro le connotazioni moralistiche vanno letti i saggi che seguono.

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