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tra tutele differenziate e prospettive di riforma (che tardano) ad arrivare GUIDA ALLA LETTURA

di Fabio Fiorentin*

Questi brevi cenni non hanno altra pretesa che di fungere da ideale cornice introduttiva per aiutare a comprendere non soltanto la ragione per cui è emersa diffusamente la sensazione della necessità di dedicare una riflessione articolata e approfondita al tema dell’affettività in carcere, ma anche per meglio apprezzare lo spirito e il contenuto dei saggi che compongono ed arricchiscono la struttura di questo numero monotematico.

E allora: è bene ricordare che il tema della conservazione e, se possibile, dello sviluppo dell’affettività nel corso dell’esecuzione penale in detenzione è intimamente collegato al più ampio dibattito sulla tutela della dignità e dei diritti fondamentali delle persone detenute e internate e già questo riferimento basterebbe a giustificare quel surplus di attenzione su una tematica troppo spesso banalizzata (o peggio) anche, purtroppo, nel dibattito pubblico.

In questa prospettiva di valorizzazione e salvaguardia di una componente essenziale della personalità umana, i profili afferenti all’affettività, riguardata nelle sue articolate manifestazioni, era stata alla base di una delle più interessanti e innovative elaborazioni degli Stati generali dell’esecuzione penale, i cui lavori avevano riaffermato – declinandone altresì la relativa, possibile, codificazione normativa438 - l’affettività quale istanza fondamentale della popolazione detenuta e – come tale – meritevole di riconoscimento e di tutela nella consapevolezza della fragilità della situazione di chi si trova a vivere l’esperienza del carcere.

Sulla base di tale premessa, era stata sviluppata una serie di proposte e di riflessioni, che si incentravano su alcune ben precise guidelines, fondate sui princìpi costituzionali.

Anzitutto, il tema dell’affettività – se riguardato in una ottica di esecuzione della pena in vinculis – va declinato come diritto al mantenimento dei rapporti con il mondo delle relazioni affettive presenti all’esterno. Diritto, tuttavia, che a tutt’oggi fatica a essere riconosciuto come tale non solo dalla disciplina normativa ma anche dal giudice, soprattutto nell’accezione di tale espressione umana legata all’ambito della sessualità439.

* Magistrato di Sorveglianza di Venezia.

438 Cfr. G.GIOSTRA-P.BRONZO (a cura di), Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, 2017.

439 È, infatti, minoritaria la giurisprudenza dei magistrati di sorveglianza incline a un’interpretazione evolutiva della disciplina sui permessi, che consenta di applicare l’istituto dei permessi c.d. “di necessità” ex art. 30, comma 2, ord. penit., a situazioni della vita riconducibili a esigenze di natura affettiva (su tale profilo v. infra nel testo), mentre viene esclusa dal novero dei “diritti” legittimanti la concessione dei benefici penitenziari extramurari quello all’esercizio della affettività (e, a fortiori, della sessualità) di per sé considerata. Nella

Al netto di tale difficile riconoscimento, la garanzia della salvaguardia dei rapporti affettivi deve, anzitutto, passare per l’applicazione del principio della “territorialità della pena” inteso quale criterio primario di assegnazione dei detenuti e degli internati all’istituto più vicino alla famiglia senza che la condotta intramuraria possa avere influenza sull’eventuale istanza di trasferimento (con tendenziale divieto, quindi, dei c.d. “trasferimenti punitivi”, espressamente vietati, tra l’altro, dalla Circolare DAP in materia di trasferimenti dei detenuti del 26 febbraio 2014). Il profilo della allocazione della persona detenuta in luogo lontano dai suoi affetti si traduce, infatti, non soltanto in una sofferenza morale ulteriore rispetto a quella inevitabilmente connessa all’esperienza detentiva (sofferenza, per inciso, condivisa anche dai familiari e dai partners del detenuto) ma rende, altresì, molto più difficile predisporre un programma di trattamento che preveda, attraverso la somministrazione di benefici esterni al carcere, il graduale reinserimento sociale del ristretto (reinserimento che è – prima di tutto – ricollocazione nell’ambito territoriale di provenienza, qualora possibile e non inopportuno per la sussistenza di esigenze preventive), senza contare le oggettive maggiori difficoltà incontrate dal soggetto nei rapporti con il difensore. Benché l’evocato principio sia codificato a livello normativo (art. 42, ord.penit. e art. 83 Reg. es.) esso è molto spesso disatteso nella pratica per le esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria.

Strettamente connessa è la tematica dell’implementazione dei contatti con le figure di riferimento affettivo mediante i mezzi tecnologici. Da tempo sono in attuazione, infatti, “buone prassi” che utilizzano i collegamenti audio video con tecnologia digitale (Skype o altro) per i colloqui dei detenuti con i familiari. Si tratta di una possibilità certamente apprezzabile e meritevole di essere ulteriormente sviluppata e diffusa, purché non venga strumentalmente intesa quale mera compensazione della collocazione del detenuto in un istituto lontano dal suo centro di interesse affettivo.

Il tema in esame si intreccia, infine, con la grave problematica del sovraffollamento degli istituti penitenziari (nel momento in cui scriviamo, la capienza regolamentare degli istituti penitenziari è superata di quasi diecimila unità)440, che comporta il periodico ricorso al trasferimento di gruppi di detenuti da carceri sovraffollate appunto “per sfollamento”.

L’affettività delle persone ristrette in carcere riguarda, altresì, il profilo delicatissimo della ponderazione delle istanze collegate all’esercizio della pretesa punitiva dello Stato ed alle esigenze di difesa sociale con l’interesse del minore, figlio di madre o padre detenuti, a conservare e sviluppare il proprio rapporto con queste figure di riferimento. In questo caso, peraltro, non sembrano esservi dubbi sul fatto che ci troviamo in presenza di situazioni soggettive certamente qualificabili quali

giurisprudenza di merito, un orientamento ha ritenuto che, nonostante il rapporto di convivenza con il figlio del detenuto, quest’ultimo non potesse essere autorizzato ai colloqui con la “nuora di fatto” poiché il rapporto di convivenza si era instaurato successivamente all’arresto del soggetto e pertanto non si sarebbe potuto sviluppare quel rapporto di affectio che avrebbe giustificato l’effettuazione del colloquio (Mag. Sorv. Novara, ord. 4 aprile 2008, in http://www.personaedanno.it). In senso analogo, ritenendo non provato il presupposto della “convivenza”, poiché la compagna del detenuto aveva iniziato a vivere nell’appartamento già occupato dal ristretto soltanto qualche giorno dopo l’arresto del medesimo, cfr. Mag. Sorv. Reggio Emilia, ord. 21 settembre 2006, in http://www.personaedanno.it.

440 Secondo i dati reperibili sul sito del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, al 31.12.2018 i detenuti presenti negli istituti erano 59.655: 9.000 in più della capienza consentita.

diritto (artt. 29, 30 e 31 Cost.; art. 8 CEDU), che la stessa giurisprudenza suole qualificare, nelle proprie decisioni, nei termini di “superiore” o “preminente”441.

La dimensione affettiva ha trovato riconoscimento, inoltre, a livello di trattamento penitenziario attraverso l’estensione extra legem del disposto del comma 2, art. 30 ord. penit., che disciplina i permessi c.d. “di necessità” a fini appunto trattamentali, con concessione del beneficio anche per assolvere esigenze connesse alla dimensione affettiva (es. permessi per consentire al detenuto di partecipare a momenti fondamentali della vita dei familiari, come battesimi, lauree, matrimoni, ecc.), nella prospettiva già percorsa dal legislatore con l’introduzione degli artt. 21-bis e 21-ter della l. 354/75. Tale estensione percorsa in via interpretativa non ha, tuttavia, trovato unanime riconoscimento nella giurisprudenza di merito, che in prevalenza tende ad adottare una lettura strettamente aderente alla lettera della disposizione né, soprattutto, è stata recepita a livello normativo la proposta della Commissione ministeriale istituita presso il Ministero della giustizia nell’estate del 2017 con l’incarico di elaborare una proposta di riforma dell’Ordinamento penitenziario. Si trattava di introdurre il c.d. “permesso di affettività” ispirato ad alcune affermazioni di principio contenute nella sentenza n.301/2012 della Corte costituzionale che ricordava “una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nel già ricordato istituto dei permessi premio, previsto dall’art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria”442.

441 Cfr. “Regole Penitenziarie Europee” (versione 2006), Commento alla Regola n. 24. Le fonti europee (Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa n. 1340/97 – art. 6, comma 6; e dell’11.01.2006 – art. 24 comma 4; e Raccomandazione dd. 09.03.2004 del Parlamento europeo al Consiglio d’Europa) riconoscono al detenuto “il diritto ad una vita affettiva e sessuale, prevedendo misure e luoghi appositi”. La forzata astinenza sessuale può indurre – nella condizione di segregazione detentiva - comportamenti sessualmente svilenti e degradanti, minando la possibilità stessa di mantenere e sviluppare relazioni affettive di una certa pregnanza e solidità. Una tale situazione è suscettibile di integrare una grave violazione dei diritti inviolabili dell’uomo e determina trattamenti contrari al senso di umanità e degradanti, avuto anche riguardo al dictum della sentenza costituzionale n. 26/1999. Sotto tale profilo C.RENOLDI, La tutela del diritto all’affettività - I diritti dei detenuti tra amministrazione e giurisdizione, corso di formazione organizzato dal Consiglio Superiore della magistratura, Roma 19-20 novembre 2012, ravvisa una possibile lesione del principio di cui all’art. 32, Cost., << diritto alla salute in senso fisico, ma anche come benessere mentale e psicologico, messo a dura prova dal c.d. processo di prigionizzazione (D. Clemmer) con i suoi effetti di “disadattamento sessuale” (frustrazione del desiderio, sviluppo spesso disordinato dell’immaginario sessuale, sindromi morbose e devianze sessuali, con gli effetti particolarmente acuti di “aggressione psicologica al suo io” [M. Gresham]).>> La Convenzione EDU – in particolare, gli artt. 8, paragrafo 1, e 12 – non prescrivono, tuttavia, inderogabilmente agli Stati parte di consentire ai detenuti di avere rapporti sessuali all’interno degli istituti di pena, anche qualora si tratti di coppie coniugate (cfr. CEDU, sentenza 4 dicembre 2007, Dickson/Regno Unito).

442 Si tratta della sentenza costituzionale 11-19 dicembre 2012, n. 301, reperibile sul sito della Consulta in http://www.cortecostituzionale.it.

Concentrandosi sul profilo del trattamento intramurario dell’affettività, l’ordinanza di rimessione rilevava che l’accenno alla “particolare cura” delle relazioni familiari, contenuto nella legge di ordinamento penitenziario, art. 28, è ripreso e dettagliato, nel regolamento di esecuzione della legge medesima, all’art. 61, lett. b), D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, che consente, a determinate condizioni, il contatto diretto del detenuto con in propri familiari, oltre a più ampie “visite prolungate” che implichino “la possibilità di trascorrere insieme a coloro che sono ammessi ai colloqui, parte della giornata in appositi locali o all’aperto e di consumare un pasto insieme, fermo restando il controllo visivo del personale di sorveglianza.”

Ma – per usare le parole del rimettente – il “passo ulteriore, che non si vuole compiere” è quello di adottare tutte le predisposizioni necessarie affinché le “visite prolungate” alle quali fa riferimento l’art. 61, lett. b) del d.p.r. n. 230/2000 assumano la natura di vere e proprie conjugal visits, all’interno di una cornice logistica e ambientale ove siano garantite le necessarie condizioni di riservatezza per consentire un contatto intimo, anche di natura sessuale, tra i partners.

In questa prospettiva si erano mosse anche alcune proposte elaborate dagli Stati generali e dalla Commissione legislativa ministeriale, volte alla previsione della possibilità di svolgimento di visite prolungate dei familiari o delle persone legate al detenuto da rapporti affettivi, da fruirsi presso apposite “unità abitative” realizzate all’interno dell’istituto penitenziario e strutturate in modo tale da riprodurre, per quanto possibile, una dimensione di tipo domestico. Il nuovo istituto, già previsto in numerose legislazioni europee (ad es. in Spagna e in Francia) si collocava – nella proposta della Commissione ministeriale – nella direttrice della valorizzazione dei legami personali, prevedendo la possibilità di tali visite prolungate – sottratte al controllo visivo ed auditivo del personale di Polizia penitenziaria – ai soli congiunti (legati da vincolo matrimoniale o uniti civilmente ai sensi della legge n. 76 del 2016) o conviventi e alle persone legate al detenuto da una ‘affectio’ tendenzialmente stabile, attestata da una significativa continuità di colloqui (visivi e/o telefonici) o di corrispondenza epistolare e salva la sussistenza di elementi dai quali desumere il possibile utilizzo strumentale della visita (es. scambio di informazioni, passaggio di oggetti non consentiti). Le visite prolungate avrebbero dovuto essere scollegate da una logica di premialità o da limiti soggettivi (tranne l’eccezione imposta dalla legge delega per coloro che sono sottoposti al regime dell’art. 41-bis, l. 354/75).

Nonostante l’endorsement della Consulta e le sollecitazioni degli Stati generali, tuttavia, il legislatore delegato non ha raccolto la proposta della Commissione, lasciando inalterata la previsione dell’art. 30, comma 2, ord. penit. e rinunciando, quindi, ad affrontare un profilo del trattamento penitenziario che, in molte legislazioni europee – e non solo – ha già trovato compiuta regolamentazione, con varie modalità e limiti, con l’apertura alla possibilità per i detenuti di avere una vita affettiva e sessuale pur nell’ambito detentivo.

E però: si tratta di una prospettiva tecnicamente praticabile e non contrastante con le esigenze di sicurezza. Giova, al proposito, considerare che in ambito carcerario sono già presenti stringenti condizioni di sicurezza (a es. la perquisizione all’atto dell’ingresso delle persone ammesse ai colloqui). Inoltre le norme regolamentari già prevedono che i colloqui familiari avvengano, “per speciali motivi”, “in locale distinto” da quelli in cui si effettuano i colloqui ordinari (art. 37, comma 5, D.P.R. n. 230/2000), e, analogamente, nel caso di visite prolungate, “in appositi locali” (art. 61, ult. comma, lett. b), D.P.R. n. 230/2000). L’eliminazione del controllo continuo “a vista” qualora non ostino motivi di sicurezza consentirebbe, attraverso una opportuna diversa organizzazione logistica,

lo svolgimento dei colloqui vis à vis per favorire il mantenimento delle relazioni familiari e dei rapporti affettivi consolidati, in un’ottica di risocializzazione dei condannati e di prevenzione speciale.

L'esperienza ha, sotto tale profilo, dimostrato che la necessità costituzionale che la pena debba "tendere" a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Se la finalità rieducativa venisse limitata da ragioni meramente organizzative o di disponibilità finanziaria, rischierebbe, infatti, una grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto.

Le proposte di superamento dell’attuale assetto, tuttavia (per la cui realizzazione è necessaria una modifica normativa), non sono state raccolte dal legislatore delegato.

La possibilità di esprimere e coltivare l’affettività nella realtà carceraria deve anche fare i conti – nell’ordinamento penitenziario italiano – con il regime trattamentale differenziato sulla base del titolo del reato commesso. E’, infatti, noto che per gli imputati e i condannati per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis ord. penit., sussistono incisive limitazioni al numero di colloqui visivi e alla corrispondenza telefonica. Anche in questo caso, tuttavia, le indicazioni fornite al legislatore delegato per superare il “doppio binario penitenziario” quantomeno sotto il profilo del trattamento penitenziario strettamente inteso non sono state recepite in sede di attuazione della delega.

Sotto il profilo trattamentale, inoltre, sono state affacciate numerose proposte ispirate all’attenzione da riservare all’accoglienza dei minori che si recano al colloquio con i genitori detenuti e, in particolare, per l’allestimento di appositi “spazi bambini”, riservati ai piccoli visitatori e dotati di tavoli e materiale ludico e da disegno, nel solco di protocolli già siglati tra l’Amministrazione penitenziaria, l’Autorità Garante dell’Infanzia e le associazioni che si occupano della tutela dei minorenni, nonché per estendere la realizzazione, all’interno degli istituti, di apposite “aree verdi” da utilizzare per i colloqui familiari ove presenti dei minori. Dal punto di vista organizzativo, inoltre, molte proposte hanno auspicato l’articolazione dei colloqui nelle ore pomeridiane e nei giorni festivi, così da agevolare la presenza dei minori ai momenti di incontro con il genitore detenuto.

L’idea di implementazione delle forme di comunicazione attraverso le quali esercitare l’affettività è alla base delle proposte che sono attualmente in fase di studio e sviluppo per l’estensione delle “buone prassi” già presenti presso alcuni istituti che hanno attivato un servizio di posta elettronica utilizzabile dai detenuti. Nella stessa prospettiva, la legge delega n. 103/2017 di riforma dell’ordinamento penitenziario prevedeva l’implementazione «dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi […] per favorire le relazioni familiari», per generalizzare l’accesso della popolazione detenuta ai programmi di conversazione visiva, sonora e di messaggistica istantanea.

Anche la materia della corrispondenza telefonica è significativamente legata al tema del mantenimento delle relazioni affettive. In tale ottica, vi sono alcune proposte che – sulla scia di quanto già realizzato in alcuni ordinamenti europei (è di pochi giorni or sono la notizia che nelle camere detentive di un istituto penitenziario francese sono stati sistemati dei telefoni fissi per consentire ai detenuti una più libera comunicazione con i familiari all’esterno) – mirano a rendere meno difficoltosa tale forma di colloquio anche attraverso l’utilizzo dei telefoni “a scheda”.

Un profilo particolarmente delicato – che nemmeno le più recenti proposte di riforma hanno potuto toccare (stante il preciso divieto introdotto nella legge delega n. 103/2017) – riguarda la fruizione dell’affettività da parte dei detenuti e internati sottoposti allo speciale regime dell’art. 41-bis, ord. penit. In tale ambito, gli stringenti controlli e le misure di sicurezza adottate al fine di impedire il passaggio di comunicazioni, ordini e oggetti tra il detenuto e i familiari nel corso dei colloqui hanno dato luogo ad un frequente contenzioso, spesso esitato nella disapplicazione, da parte della magistratura di sorveglianza, della circolare ministeriale del 28/04/2014 nella parte in cui essa limita a dieci minuti la durata del colloquio senza vetro divisorio e in assenza di altri familiari, tra detenuti sottoposti al regime detentivo differenziato di cui all’art.41-bis ord.penit. e minori di anni dodici di età. Va segnalata, al proposito, una recente pronuncia della Cassazione che ha respinto il ricorso presentato dall’Amministrazione penitenziaria avverso una decisione del Tribunale di sorveglianza territoriale, che aveva ritenuto illegittimo, in assenza di specifica motivazione, la limitazione della durata del colloquio con modalità “senza vetro divisorio” tra il detenuto e il minore443.

La riforma dell’ordinamento penitenziario varata con i decreti legislativi n. 121/2018, 123/2018 e 124/2018444, ha introdotto alcune disposizioni migliorative in tema di affettività, pur accogliendo l’ampiezza delle modifiche che erano state proposte nell’articolato confezionato dalla Commissione legislativa ministeriale445.

Le pagine di questo Numero Speciale – frutto del contributo corale di voci autorevoli accanto a quelle di chi si accosta, con mente libera da condizionamenti, per la prima volta a questa delicata materia – si propongono, allora, di evidenziare le faglie più critiche di un profilo che da sempre è tra quelli più delicati e dolorosi per quanti vivono l’esperienza detentiva, di dare conto delle riflessioni che avevano accompagnato il percorso riformatore, a partire dagli Stati generali e dei lavori della Commissione legislativa ministeriale e di raccoglierne idealmente il testimone per proporre al legislatore di domani, intatte, quelle speranze e quelle ragioni che sono state, in larga parte, deluse e disattese dalla appena trascorsa stagione.

Buona lettura!

443 Cass. pen., Sez. I, 13 settembre 2018 (Cc 8 giugno 2018), n. 40762.

444 Si tratta dei decreti legislativi, tutti portanti la data del 2 ottobre 2018 e pubblicati nella G.U. del 26 ottobre dello stesso mese ed entrati in vigore il 10 novembre dello stesso anno, recanti, rispettivamente, disposizioni in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario minorile (d.lgs. 121/2018), dell’ordinamento penitenziario per gli adulti (d.lgs 123/2018), di vita detentiva e lavoro penitenziario (d.lgs. 124/2018).

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