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U NA VALUTAZIONE DI SINTES

ITA * ITA FRA USA CAN GER POL RU BEL ARG BRA CIN SPA PB INDIA

2. C OMMERCIO INTERNAZIONALE E CRESCITA IN ITALIA

2.3. U NA VALUTAZIONE DI SINTES

Per un lungo periodo, dalla fine della seconda guerra mondiale fino alle crisi petrolifere degli anni Settanta, l’Italia è stata considerata un caso para- digmatico di una crescita trainata dalle esportazioni, che ha consentito al Paese di ridurre progressivamente il divario che la separava dai Paesi allora svilup- pati14, grazie allo sviluppo dell’industria manifatturiera e alle sue esportazioni, che, soprattutto negli anni Sessanta, hanno permesso di supplire a investimenti e consumi interni ridotti (Faini e Sapir, 2005). Tuttavia, negli anni Ottanta la situazione cambia radicalmente. Il divario di reddito con l’Europa si mantiene stabile fino all’inizio degli anni Novanta per poi ampliarsi nuovamente: il tasso di crescita dell’economia italiana, che negli anni Sessanta era stato mediamente oltre il 5% annuo, scende a meno dell’1,6% dopo il 1990 (e diviene nettamente inferiore all’1% se si considera il periodo successivo al 2000).

Le esportazioni, pur restando un elemento essenziale dello sviluppo, hanno smesso, salvo brevi periodi, di essere il motore della crescita: a partire dalla metà degli anni Novanta, i vantaggi comparati hanno ristagnato o sono regre- diti, il peso dell’Italia nel commercio mondiale si è contratto e la bilancia com- merciale è costantemente peggiorata. Va tuttavia sottolineato che il calo della quota di esportazioni non è in sé un elemento negativo, fornendo solo una vi- sione parziale in un mondo sempre più complesso, dove le strategie delle im- prese sono molto articolate e possono includere la delocalizzazione di fasi

15In altri termini, le economie di scala dinamiche renderebbero sempre più efficiente la produzione di beni in cui il Paese era inizialmente specializzato (De Benedictis, 2005): la dinamica della produttività spie- gherebbe pertanto la persistenza del modello di specializzazione iniziale, anche se la composizione quali- tativa delle produzioni cambia, migliorando sensibilmente (cfr. la teoria della differenziazione verticale e produttive o servizi all’estero per raggiungere nuovi mercati o per sfruttare eco- nomie di scala o tecnologie più avanzate o, ancora, semplicemente per ridurre i costi e restare competitive sui mercati internazionali (Giovannetti, 2012).

Secondo alcuni studiosi la perdita di peso dell’Italia è la manifestazione, in termini di commercio internazionale, della tesi del “declino” del nostro modello di sviluppo (Boeri et al., 2005; Baldwin et al., 2007) e della “anomalia” di un Paese industrializzato che persiste nella produzione di prodotti a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro (Di Maio e Tamagni, 2008; Vasta, 2010). Altri autori danno una lettura meno negativa delle performance commerciali ita- liane nell’ultimo trentennio indicando, da una parte, che la distribuzione dei van- taggi comparati si è modificata in alcune aree del Paese, come il Nord-ovest e il Mezzogiorno (De Benedictis, 2005), e, dall’altra, che esiste una tendenza alla specializzazione verso prodotti “tradizionali” di maggior qualità e a più alto con- tenuto di valore aggiunto15(Lanza e Quintieri, 2007), spesso all’interno di strut- ture distrettuali, come avvenuto fino alla recessione globale del 2009.

Di sicuro, se si confronta l’Italia con i suoi più immediati competitori – Germania, Francia e Spagna – è possibile notare «divergenti performance di crescita delle quattro economie [che] si possono attribuire in misura significa- tiva al diverso contributo delle esportazioni nette alla crescita del Pil (…): for- temente positivo per la Germania, decisamente deludente nel caso dell’Italia e della Francia, oscillante nel caso della Spagna» (Guerrieri e Esposito, 2012, p.39). Non c’è accordo circa le determinanti di queste performance per il no- stro Paese. Ci sono stati sicuramente fattori congiunturali negativi, come l’af- fievolirsi della domanda mondiale, l’aumento dei prezzi delle materie prime importate o variazioni sfavorevoli dei cambi, anche se è difficile immaginare che fattori congiunturali possano agire per un intero quindicennio. Bisogna guardare, quindi, anche ai problemi strutturali che caratterizzano il modello di sviluppo, in un certo senso “incompiuto”, dell’Italia (Gomellini e Pianta, 2007): la specializzazione geografica e settoriale, la staticità del modello di specia- lizzazione e, soprattutto, la bassa produttività rispetto ai principali concorrenti. La causa primaria della minor crescita è la bassa competitività italiana do- vuta a una crescita insufficiente della produttività (Antonelli et al., 2007). L’ef- fetto del differenziale di produttività tra l’Italia e i suoi competitori è stato meno avvertito finché poteva essere compensato dalle svalutazioni competitive e da una domanda estera sostenuta, ma con l’introduzione dell’euro e la crisi globale i nodi sono venuti al pettine. Oltre alla bassa produttività, anche il mo-

dello di specializzazione italiano, concentrato su settori “tradizionali” o “ma- turi”, più esposti alla concorrenza dei Paesi emergenti e caratterizzati da una dinamica della domanda mondiale più lenta rispetto a quella osservata nei set- tori che hanno trainato la crescita del commercio mondiale, ha contribuito alla perdita di competitività dell’Italia. In effetti, c’è somiglianza tra i vantaggi comparati italiani e quelli cinesi, indiani, brasiliani, mentre gli altri principali Paesi industriali, come Germania e Stati Uniti, sono sostanzialmente despe- cializzati nei settori a bassa intensità di capitale, tipici del made in Italy. Infine, la specializzazione geografica delle esportazioni italiane, che per quasi il 60% raggiungono mercati di Paesi europei che negli ultimi decenni sono cresciuti poco, penalizza l’Italia. In effetti, le merci italiane fanno fatica a raggiungere le aree più dinamiche dell’economia mondiale, come l’Asia meridionale e orientale e l’America Latina, a causa sia della ridotta dimensione delle imprese italiane, che delle carenze in alcuni servizi (come logistica, distribuzione, fi- nanza) essenziali nel promuovere l’internazionalizzazione.

A differenza di quanto avvenuto negli anni Cinquanta e Sessanta, negli ultimi quindici anni l’Italia non ha saputo cogliere le opportunità delle trasformazioni epocali in atto nel commercio internazionale e nell’organizzazione della produ- zione a livello mondiale, ma ne è rimasta sostanzialmente ai margini. Le nostre im- prese, per lo più caratterizzate da dimensioni medie e piccole, si sono poco internazionalizzate, non riuscendo a sfruttare i vantaggi dal lato dell’offerta di un accresciuto “spacchettamento” (unbundling, cfr. Baldwin, 2007) e una più spinta divisione internazionale del lavoro e le opportunità, dal lato della domanda, pro- venienti da mercati emergenti in rapidissima crescita. Inoltre, ha mantenuto il pro- prio modello di specializzazione, non adeguandosi al mutato scenario internazionale. Solo pochi settori hanno evidenziato un mutamento nel segno del- l’indicatore di vantaggio comparato, mentre gli altri Paesi europei hanno orientato la propria specializzazione verso produzioni a maggior contenuto di innovazione e a più alto valore aggiunto, abbandonando i settori “maturi” alle economie emer- genti con una maggiore dotazione di manodopera non specializzata. In questo quadro, l’adesione all’Unione monetaria europea e la perdita della leva del cam- bio quale strumento di competizione hanno determinato la caratteristica di gioco a somma zero del processo di unificazione monetaria, con effetti asimmetrici tra Germania da un lato e Italia (e Francia e, in misura minore, Spagna) dall’altro.

Da quanto detto, derivano alcune implicazioni di politica economica (Guer- rieri e Esposito, 2012), segnatamente la necessità di favorire la crescita di- mensionale, organizzativa e manageriale delle imprese, di effettuare interventi per il miglioramento del capitale umano, il rilancio delle attività di ricerca e svi- luppo e il trasferimento delle innovazioni e di procedere a una riforma della go- vernance europea che consenta di superare le caratteristiche di gioco a somma zero dell’attuale integrazione europea.

Nell’ambito di questo capitolo, Anna Carbone (Dipartimento Dafne-Agricoltura, Foreste, Natura, Ener- gia, Università della Tuscia) ha redatto i paragrafi 3.4, 3.5; Roberto Henke (Ricerche macroeconomiche e Figura 3.1 - Saldo del commercio agroalimentare dell’Italia (miliardi di dollari Usa)

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