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UGUCCIONE DELLA FAGGIUOLA E CASTRUCCIO FINO ALLA

BATTAGLIA DI MONTECATINI

1310 - 1315

Firenze desidera affrontare i ghibellini della regione prima dell’arrivo di Arrigo, per evitare di essere sovrastata da forze preponderanti; appresta quindi un vero esercito di duemila cavalieri e molta fanteria; militano con i Fiorentini anche i Senesi1e i Verdi d’Arezzo, i guelfi fuorusciti.

L'8 giugno 1310 l'esercito muove da Firenze. Danneggia l'Aretino, ingaggia molte scaramucce e costruisce un battifolle sul poggio dell'Olmo, due miglia sopra Arezzo, intorno al quale si ingaggiano violente scaramucce per diverse settimane. Al battifolle viene dato il nome del protettore dei guelfi: San Barnaba, il santo della gloriosa giornata di Campaldino.

Buona prova di sé danno le mille lance che Borgo Sansepolcro ha mandato a servire Vanni Tarlati, contro i Fiorentini.2I guelfi di Città di Castello partecipano alla lotta dei Fiorentini e dei guelfi toscani contro Arezzo. Le loro truppe sono al battifolle eretto contro la città e stanno passando brutti momenti perché gli Aretini si difendono valorosamente e continuano ad assalire la postazione per abbatterla. Città di Castello chiede allora aiuto a Perugia, perché mandi rinforzi ai suoi soldati nel battifolle, ma Perugia è costretta a rifiutare perché tutte le sue forze sono impegnate contro Todi e Spoleto.3In breve: è guerra in tutto il Centro-Italia.

Intanto, il 20 giugno, arrivano a Pisa gli ambasciatori che l'imperatore ha inviato in Italia a preparare la sua discesa. Essi sono Luigi di Savoia, Filippo di Rathsanhausen, vescovo di Eichstatt, Gerardo di Wippigen, vescovo di Basilea, Bassiano dei Gaschi e il fuoruscito ghibellino di Pistoia, Simone Filippi de' Reali. Sono accolti con grandi onori dal conte Federico di Montefeltro, attualmente signore di Pisa. I Pisani offrono all'imperatore tende capaci di alloggiare diecimila

soldati, il loro valore ammonta a quattromila fiorini d'oro. La tenda dell'imperatore è un vero capolavoro: di seta, intessuta d'oro, ornata di pietre dure e sormontata dall'aquila imperiale.

Da Pisa, gli ambasciatori si recano a Lucca, poi a San Miniato e, finalmente, il 3 luglio, arrivano a Firenze. Appena giunti chiedono l'immediata cessazione delle ostilità ed il ritiro delle truppe che assediano Arezzo, permettendo così all'augusto Arrigo di decidere della pace e della guerra. Il momento è difficile, i messi dell’imperatore hanno posto Firenze con le spalle al muro, se ora il comune del giglio non volesse obbedire, si qualificherebbe come ribelle.

La concezione politica di Arrigo, del buono e leale imperatore, è insanabilmente superata e le sue pretese riguardo la Toscana inaccettabili. I suoi ambasciatori vogliono che secoli di espansione dei comuni siano cancellati con un colpo di trattato, come se fossero prede di secoli di rapina. Firenze dovrebbe restituire alla sovranità dell’Impero centocinquantotto castelli e sessanta comunità rurali, Lucca centotrentuno castelli e centosedici comunità rurali, Siena novantaquattro castelli e quattro comunità rurali. Firenze ed i suoi alleati semplicemente non sono in grado di accettare le imposizioni degli ambasciatori di Arrigo. Il comune che sorge sull’Arno trattiene il fiato: se la spedizione di Arrigo risultasse un trionfo, tutti i mercanti fiorentini sarebbero impediti nei loro traffici in tutto l’Impero e la rovina di Firenze sarebbe inevitabile. La difficile decisione che i priori di parte Nera debbono prendere è di quelle che segnano la sopravvivenza e il benessere futuro di una comunità, ed è resa appena un poco più praticabile solo dalla completa indigeribilità delle pretese del Lussemburghese.4 Betto Brunelleschi, incaricato di rispondere in consiglio agli ambasciatori, ha un sussulto di franchezza e pronuncia parole dure: «mai per niuno signore i Fiorentini inchinarono le corna»; ma i suoi colleghi, spaventati, il 12 luglio incaricano messer Ugolino Tornaquinci di indirizzare agli ambasciatori un discorso che attenui la cattiva impressione suscitata dalle orgogliose affermazioni di Betto.

Comunque, contano gli atti e meno le parole e il fatto è che Firenze non intende ritirare l’esercito, né accettare le proposte imperiali. Dopo il 12 luglio i messi di Arrigo si recano direttamente di fronte ad Arezzo a ripetere l'ordine, con lo stesso totale insuccesso, ma entrano in città rendendo impossibile ogni ulteriore attacco fiorentino.

Dopo la dipartita degli ambasciatori per Siena, la lotta prosegue per qualche giorno, per San Giovanni il comandante dell’esercito fiorentino fa correre un palio in scherno degli Aretini, poi il 25 luglio rientra a Firenze, lasciando il battifolle fortemente presidiato.5Il 18 luglio gli ambasciatori sono a Siena e qui, malgrado l’alleanza del comune con i Neri di Firenze, l’accoglienza è molto amichevole.6

Mentre la lotta infuria a di qua degli Appennini, anche al di sopra la guerra ruggisce. A febbraio del 1310 i Reggiani sono andati contro il castello di Salvaterra,

tenuto da messer Ariverio da Magreto, distruggendone le torri e rompendone le porte. Il 25 maggio Azzolino, Penarolo e Ugolino del Ferro da Sesso hanno aggredito Sasso da Canossa e Guglielmo Albrigoni, uccidendo questo e ferendo l'altro. I Fogliani i Manfredi e i Roberti, corsi alle case dei da Sesso, li catturano e li gettano in prigione. Il 30 luglio i da Sesso, riorganizzatisi, iniziano la guerriglia contro Reggio. I danni che, in periodo di raccolto, i da Sesso possono arrecare sono ottimi argomenti per intavolare trattative di pace; questa viene conclusa il 14 agosto, in casa di Passerino Bonacolsi, signore di Mantova, alla presenza di Alboino della Scala, signore di Verona e Giberto da Correggio, signore di Parma. I da Sesso comunque non si arrischiano a rientrare in città e rimangono nel loro munitissimo castello di San Faustino, poco sopra Rubiera.7

Alberto Scotti è incalzato dalla forza dei ghibellini fuorusciti, aiutati da Guido della Torre, che gli è nemico perché Scotti ha infranto la pace voluta dal Torriani. In luglio,8anche sapendo della discesa di Arrigo in Italia, si risolve a trattare il rientro

di Ubertino Lando, di Leone degli Arcelli e degli altri fuorusciti. Il 18 agosto rientrano in città i Fontana, gli Arcelli, i de Andito, i de Fulgosi, i Confalonieri, i de Cario, i Palastrelli, i della Porta e i Vicedomini. Sono una forza imponente, mille fanti e trecento cavalieri, tutti con lance con pennoncelli vermigli. Le armi fanno temere una sommossa e il podestà ordina che tutti depongano le armi. È però troppo tardi. Alberto Scotti, sgomento al vedere quanti siano e quanto forti i suoi avversari, accarezza l’idea di cercare riparo sicuro altrove; inoltre sospetta che i Fissiraga che tengono tutte le fortezze cittadine, teoricamente neutrali, siano in segreta intesa con i suoi avversari. La sua decisione non ha comunque molto tempo per maturare. Il giorno seguente i ghibellini rientrati fanno scoppiare una sommossa e mischie sanguinose hanno luogo in diverse parti della città: approfittando della tregua notturna, Alberto Scotti esce da Porta San Benedetto e ripara a Castell'Arquato e, dopo otto giorni, si impadronisce di Fiorenzuola e Rolando Scotti di Bobbio. Di qui, ricevuti rinforzi da Giberto da Correggio,9Alberto restituirà ai presenti signori di Piacenza, le molestie da lui patite.

Anche i Fissiraga lasciano le fortezze e la città in mano ai ghibellini. Al governo di Piacenza si installano Alberto Confalonieri, Bernabò Landi, Leone Arcelli, Bernardo Visconti, Riccardo Anguissola e Tedaldo de Cario, podestà e reggitori del comune.10

Il panorama politico di Arrigo è molto complesso: a parte i rissosi signori italiani, tre sono le potenze con cui deve fare i conti, la Chiesa, re Filippo di Francia, re Roberto di Napoli. Il papa, che sembra aiutarlo, potrebbe avere reale interesse in un'alleanza sincera con lui, in quanto un imperatore forte potrebbe garantire al pontefice un'uscita dalla soverchiante e soffocante influenza di Filippo il Bello. Ma Arrigo ha bisogno dell'amicizia di Filippo perché deve lasciare sguarnito il suo fragile impero nel suo viaggio in Italia e il sovrano francese potrebbe garantirgli la necessaria protezione. Inoltre, scendere in Italia, avendo per

avversario re Roberto, è, quanto meno, scomodo e pericoloso. Vi potrebbe essere materiale per assicurarsi l'alleanza di Roberto, mediante la cessione dell'Arelato (il regno di Arles), ma questo aumenterebbe la potenza dell'Angiò in Francia, a scapito del potere del re di Francia, inimicandogli così Filippo. Arrigo, nella sua lineare lealtà, decide di percorrere la strada dell'alleanza con Chiesa e Francia. Il 26 giugno gli incaricati di Arrigo hanno concluso un accordo con Filippo il Bello, ma lo sleale sovrano francese lo utilizzerà senza scrupoli per impadronirsi della città di Lione.11 In realtà, Filippo vuole l'indebolimento dell'impero per garantire il rafforzamento del proprio stato nazionale; rinsalda pertanto l'amicizia con il pontefice, rinunciando al processo contro Bonifacio VIII. Questa rinuncia in fondo è ben poca cosa, ma fa tirare un sospiro di sollievo a tutti quei cardinali che sono stati creati tali da Bonifacio, perché un processo a lui intentato potrebbe mettere in pericolo la loro nomina. Due Catalani, Caroccio, quegli che ha ucciso Corso Donati, e Guglielmo d'Eboli, proclamano che sono pronti a difendere in un giudizio di Dio, la causa di Bonifacio, contro chiunque. Questa conclusione della vicenda li priva dello scontro.12

Le cattive notizie che arrivano dai suoi ambasciatori in Toscana e l’aperta ribellione di Firenze, che non ha inviato i suoi ambasciatori alla corte imperiale, non hanno indotto il leale Arrigo a rivedere la sua decisione; all’inizio di ottobre il re dei Romani lascia l’Alsazia, passa per Berna e arriva a Losanna, nelle terre del cognato sabaudo; di qui, per Ginevra e la Savoia, attraversa le Alpi al passo del Moncenisio, innevato.13

Arrigo non può ignorare che una vasta alleanza si è costituita in Italia, per contrastare la sua venuta. In marzo, a Bologna, si è avuto un convegno preliminare dei guelfi di Toscana. Nella riunione si decide di fare alleanza per cinque anni, mettendo in campo un esercito di quattromila cavalieri. In maggio poi sono convenuti a Bologna anche i delegati dei guelfi del nord Italia, a loro volta alleati con i guelfi di Romagna. L’ostilità di re Roberto di Napoli non è certo un mistero, però sono in corso trattative segrete tra il sovrano angioino e il re dei Romani, per dare in moglie una figlia di Arrigo a Carlo di Calabria, primogenito di re Roberto e verosimilmente questo matrimonio trasformerebbe il re di Napoli in un alleato. Il leale Arrigo non può credere «neppure di fronte all’evidenza documentale, che Roberto, figlio di un onest’uomo quale Carlo II e del sangue di San Luigi, possa intrattenere segrete relazioni con i guelfi nel tempo stesso in cui persegue quelle vedute matrimoniali».14

Arrigo crede comunque di poter contare sull’alleanza di Clemente V, quello che lo ha scelto e che ne ha sollecitato la discesa in Italia. Grave errore: se i Fiorentini non hanno inviato ambasciatori alla corte imperiale, non hanno certo lesinato su quelli da inviare ad Avignone, né con i fiorini che stipano le loro borse.

Alla fine di novembre i delegati dei comuni guelfi di Toscana si sono messi in cammino verso la Francia, sono i rappresentanti di Perugia, Siena, Bologna, Lucca e Firenze.15Arrivati ad Avignone prima di Natale, vi soggiorneranno otto mesi, durante i quali eserciteranno continue pressioni sul debole e malato pontefice, trasformando la sua posizione da quella di sostenitore a quella di avversario di Arrigo.16

Tutta la parte guelfa d'Italia si è collegata per cercare di contrastare il passo all'imperatore: Firenze, Bologna, Lucca, Siena, Faenza, Cesena, Gubbio, Ancona, Perugia, Spoleto, Orvieto, Narni ed Orte. Con loro è ovviamente il re di Napoli. Siena ha stentato ad accettare la lega con Firenze, per il conflitto seguito alla conquista di Monte Croce, ma il timore per l'arrivo dell'imperatore consiglia di deporre, per ora, gli odi di campanile.17

In ottobre, il comune di Siena invia una scorta al cardinale Nicolò da Prato, che il papa ha incaricato di incoronare Arrigo. Sono cavalieri e balestrieri, che issano un gonfalone con la balzana di Siena e indossano una soprasberga con l’arme del comune. Il loro capitano è il conte Manente di Sarteano, che compie così l’ultima sua missione, infatti egli muore poco dopo a Siena e la condotta del padre viene trasferita al figlio conte Sozzo.18

Dopo la partenza di re Roberto da Firenze, la lega guelfa si riunisce a Castelfiorentino, riconsolida l'alleanza e invia ambasciatori a re Arrigo, con la richiesta di concedere la ratifica imperiale per tutti i diritti politici dei comuni guelfi toscani relativi allo stato di fatto dei territori. In pratica, i collegati chiedono che il sovrano riconosca che l'autorità dell'impero in Toscana è definitivamente tramontata e ne sigilli la fine. Un imperatore cinico e realista avrebbe accettato tranquillamente la richiesta, che è accompagnata da un'offerta di pace e dalla promessa di inviare cavalieri a scortare Arrigo verso la sua incoronazione a Roma. Ma Arrigo è un idealista e questo è il tratto che lo rende simpatico, anche se questa caratteristica porterà una scia di lutti e conflitti in Italia. Arrigo si sente investito della missione di ripristinare l'autorità dell'Impero, la giustizia e la podestà che derivano da lontano, da Roma, passando per i Franchi e gli Ottoni. Sfortunatamente per lui, i paladini di cui dispone sono pochi: non più di cinquemila uomini, anche se forti, valorosi ed abituati a battersi. L'ambasceria fiorentina, affidata al vescovo Antonio degli Orsi fallisce: ormai gli avversari di Arrigo sono palesi.19

A Milano viene l'arcivescovo di Costanza, che espone ornatamente come il re desideri esser incoronato con la corona ferrea. Guido della Torre vorrebbe opporsi, cerca alleati, convoca i signori guelfi della Lombardia, Filippone da Langosco, signore di Pavia, Antonio da Fissiraga, signore di Lodi, Guglielmo Cavalcabò, primo cittadino di Cremona, Simone degli Avvocati, primo cittadino di Vercelli. La discussione è lunga ed accesa, i pareri discordi. A parte Guido della Torre,

visceralmente avverso ad Arrigo, gli altri hanno posizioni più sfumate, tutti restii a volere che uno straniero si immischi nelle loro cose, tutti meno Filippone di Langosco che dice di riconoscersi vassallo dell’imperatore. Inutilmente Guglielmo Cavalcabò e Simone Avvocati cercano di fargli cambiare idea. Di fronte all’ostinata convinzione del signore di Pavia, alla fine prevale una linea morbida, attendista, che il re dei Romani venga e si spii cosa veramente voglia, poi si deciderà. Ma Guido no, proprio non vuole; profondamente turbato, si aggira per le stanze, borbotta da solo, determinato, anche se isolato, a resistere.20

Il conte Amedeo di Savoia si prepara ad accogliere l’imperatore che ritiene la strada del Piemonte la più sicura per scendere in Italia. Inforcato il suo cavallo, Amedeo si reca ad Avignone dal pontefice per raccoglierne dalla viva voce le intenzioni. Clemente, mentendo, gli dice che raggiungerà il re dei Romani a Pisa per accompagnarlo a Roma, dove lo incoronerà. Il buon Amedeo, tornato nei suoi possedimenti, trova Arrigo a Berna, con un gran seguito di principi, baroni e signori alemanni; lo scorta nel Vaud ed infine a Chambéry, dove gli riserva una solenne accoglienza. Poi, per il Moncenisio, l’esercito entra in Italia. Arrivati all’ingresso del marchesato di Susa, l’imperatore monta su un poggio, rimira la valle che si stende sotto di lui, vede l’Italia, si inginocchia e, levati gli occhi al cielo, pronuncia in latino: «O Signore Iddio, ti prego, guardami dalle lotte intestine e dalle perversità di questo paese d’Italia che vedo davanti a me!». Il conte Amedeo lo conforta e gli raccomanda, benevolmente ascoltato, di non prendere parte per nessuna delle fazioni.21Quando arriva a Susa, Arrigo ha con sé tremila cavalieri «in gran parte cavalieri valloni e il loro seguito, una banda armata in modo pesante e rinomata per il suo coraggio».22Egli è accompagnato dai suoi fratelli Waleran e Baldovino vescovo di Treviri, da suo cugino Tebaldo, vescovo di Liegi e conte di Bar, da Amedeo V di Savoia e Filippo di Savoia Acaia, dal duca di Brabante e dal Delfino Ugo d’Albon, conte del Faucigny. Il re dei Romani ha con sé anche la moglie Margherita di Brabante.

In Piemonte lo vanno ad onorare Teodoro di Monferrato, che il 31 ottobre fa il suo ingresso a Torino con trecento cavalieri armati, Filippone di Langosco, i vescovi e gli ambasciatori di molte città, tra cui Roma. Questi ultimi recano con sé trecento cavalieri e ottocento somieri e centosessanta domicelli. Tutti conducono gente armata che va ad ingrossare l'esercito imperiale. In tutto sono affluiti a Torino dodicimila cavalieri.23

Il 10 novembre (tre mesi dopo che vi è stato re Roberto) Arrigo viene ad Asti e vi fa rientrare i ghibellini. Ad Asti raggiungono la comitiva imperiale gli ambasciatori scaligeri Bomnesio dei Paganotti e Bailardino Nogarola.24Alla corte di Arrigo v'è un Milanese, Francesco da Garbagnate, «giovane egregio e non d'animo pigro».25 Questi è passato dai tranquilli studi a Padova alla corte dell'imperatore, dopo essersi inimicati i Torriani. La sua fervente fede ghibellina, la sua reputazione di giovane d'ingegno e la sua personalità gli permettono di diventare intimo di Arrigo. Francesco spiega al re dei Romani i complicati fatti di Lombardia e dice sempre un

gran bene di Matteo Visconti, descrivendolo come il più pio, il più onorato e saggio Lombardo.26Arrigo vuole incontrarlo e Matteo, avvertito da messi di Francesco da Garbagnate, arriva in incognito27 ad Asti. Qui viene riconosciuto e molto onorevolmente accolto dai ghibellini, che lo scortano dal re dei Romani. In particolare Riccardo Tizzoni di Vercelli gli dimostra grande rispetto. Il seguito da cui è scortato e l’ammirazione di cui è evidentemente oggetto produce una favorevole impressione ai cortigiani e personalmente al re.

Una scena madre si svolge alla presenza dell’imperatore: Filippone da Langosco volge le spalle al Visconti, Antonio Fissiraga lo accusa violentemente di essere il perturbatore della Lombardia. Le male parole dei potenti nemici scivolano addosso a Matteo, senza provocarlo. Egli oppone mansuetudine e prudenza all’intransigenza ed all’arroganza dei suoi nemici, atteggiamento che gli guadagna l’approvazione di Arrigo. Il re impone la pace e tutti debbono accettarla. Guido Torriani rifiuta di liberare i congiunti prigionieri.28 La stella di Matteo è in netta

ascesa. Il 4 dicembre Cassono della Torre, arcivescovo di Milano, stringe alleanza con Matteo.

Il 12 dicembre Arrigo lascia Asti e procede nel suo viaggio trionfale. Arrigo è stato informato che Guido della Torre gli è ostile. Non ha molta voglia di andare a Milano; in fondo sono ben sessant'anni che nessun imperatore viene in Italia e imporre a questi anarchici signori italiani un'autorità superiore è pur sempre una bella impresa. Chissà quanto ne valga la pena! Matteo Visconti lo rassicura, ma Arrigo gira intorno al problema, non solo metaforicamente: prima va a Casale, poi a Vercelli e a Novara. Ovunque porta pace e impone il rientro dei fuorusciti. Finalmente, diretto a Pavia, dove Filippone da Langosco l'attende, per consiglio di Matteo, varca il Ticino e, con un tempo inclemente, freddo e neve, si dirige verso Milano.29

Il Ticino viene passato a guado perché inconsuetamente povero d’acqua. La neve che cade pesante e fitta obbliga il corteo imperiale a far tappa a Magenta, a sole quindici miglia da Milano. La prima reazione dello spaventato Guido della Torre è di riunire alcuni mercenari per opporsi all’ingresso dell’imperatore a Milano, ma Filippone di Langosco lo consiglia di desistere dall’uso della forza e Guido, capitano di Milano a vita, si lascia malvolentieri convincere.30 Il giorno seguente il tempo è più sereno e Arrigo riprende il viaggio verso Milano; gli viene incontro il maresciallo che ha mandato avanti per preparare gli alloggi, che lo informa che Guido della Torre ha rifiutato di abbandonare il Palazzo del Comune e di licenziare mille mercenari. Arrigo reagisce con un editto immediato che ordina che tutti i Milanesi gli vengano incontro, disarmati. L'accoglienza festosa che accompagna Arrigo man mano che si avvicina alla città lo conforta. Per ultimo, proprio al limitare della città, gli viene incontro Guido della Torre: «L’ultimo di tutti fu Guido, che pur venne, ma come la serpe all’incanto. A forza e pieno di rabbia si riduceva davanti a un principe ch’egli non avea saputo né tener lontano come

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