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GIOVANNI DE MIN [?]

7. Ulisse assiste alla danza dei figli di Alcinoo

Penna, inchiostro bruno, acquerellature seppia, carta beige. 488 x 720 mm.

Sul verso a matita e penna sono riprese le due figure danzanti. Sempre sul retro del foglio, sulla banda cartacea lungo il margine inferiore, scritta a matita «Demin L. 250».

Stato di conservazione. Il foglio presenta alcune macchie e mancanze soprattutto nell’area superiore.

Sul verso, lungo i margini e in corrispondenza di piccoli strappi, sono state applicate delle bande cartacee di rinforzo.

Inv. 7356

Il foglio presenta sul verso un’annotazione a matita indicante il nome dell’artista [Giovanni] De Min. Nonostante sia stata apposta successivamente - imputabile a qualcuno che nel corso degli anni ebbe modo di maneggiare il disegno, forse proprio a seguito dell’intervento di rinforzo - l’iscrizione è credibile sulla base del confronto stilistico e tecnico con altri lavori del bellunese. Alcune correzioni attuate alle architetture, in particolare all’edificio in primo piano, come l’abbozzo di un terzo capitello e le modifiche all’angolo della gradinata d’accesso, sembrano supportare ulteriormente l’autografia. Non sono infatti interventi di un copista, bensı̀ pentimenti dell’artista che cerca di definire la scena. Soggetto e impianto compositivo sono evidenti richiami al bassorilievo canoviano della Danza dei figli di Alcinoo, facente parte della serie di gessi ispirati ai poemi omerici realizzati dall’artista di Possagno sul finire del XVIII secolo. La scena raffigurata da Canova, e qui ripresa da De Min, si riferisce al naufragio di Ulisse sull’isola di Scheria. Secondo il mito, dopo aver lasciato la terra di Calipso su una zattera, l’eroe è osteggiato da Poseidone e naufraga vinto dalla forza nemica del mare. Sulla spiaggia la giovane Nausicaa lo soccorre per accompagnarlo poi al cospetto del padre Alcinoo, re dei Feaci. Nelle descrizioni di Omero la terra di questo popolo appare come un luogo prospero ed ospitale, dove i

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giardini offrono frutti maturi tutto l’anno e la popolazione vive in armonia. Il sovrano accoglie benevolmente il naufrago con canti e danze. Durante il banchetto Ulisse cade in preda alla commozione nell’ascoltare le proprie gesta narrate da Demodoco, l’aedo cieco alla corte di Alcinoo. Alla fine dei festeggiamenti, una nave con marinai esperti salpa per ricondurre l’eroe ad Itaca. La ripresa quasi fedele dei personaggi canoviani rende indubbia la derivazione da tale modello. E# probabile che De Min abbia avuto modo di vedere direttamente una copia del bassorilievo oppure le incisioni realizzate da Tommaso Piroli e Vincenzo Comuccini e pubblicate nell’album dedicato all’Accademia delle Scienze e Belle Lettere di Padova da Antonio d’Este e Pietro Vitali. Nel nostro disegno il fulcro della rappresentazione è sempre la danza di Hailo e Laodamante, due dei figli maschi di Alcinoo. All’estrema destra siedono il re e la moglie Arete, mentre la giovane di profilo alle loro spalle è identificabile come la figlia Nausicaa. In piedi, accanto al gruppo, c’è Ulisse intento ad osservare il leggiadro spettacolo offerto dai due danzatori. Più in là, oltre la coppia di giovani, un vecchio barbuto suona la cetra: è il cantore Demodoco. All’estrema sinistra, la nave offerta a Ulisse per il suo rientro sembra già pronta a partire. Alla scena fa da sfondo un’ordinata veduta delineata da alture e palazzi. Rispetto all’esempio del Canova, in funzione della sua probabile trasposizione a fresco, la scena risulta arricchita dalla rappresentazione del paesaggio, del porto e da una moltitudine di abitanti-spettatori. Purtroppo tra le opere ad oggi ricondotte al bellunese, non è presente un’opera direttamente collegabile. Tuttavia la figura di Ulisse non è un caso isolato nella produzione dell’artista. Il personaggio è rappresentato - anche se in tutt’altro momento della propria odissea - nel padovano Palazzo Revedin, poi Rovelli. Quello proposto da De Min a Padova, non è l’apparentemente mite Ulisse del nostro disegno, ma un uomo irato e pronto a scacciare con la forza i potenziali usurpatori al trono.

Come testimonia lo stesso artista, nel 1814 De Min ricevette «con apposito Rescritto di S. M. il Re Gioacchino Murat» la nomina di «primo Pittore per le pitture da farsi nel R. Palazzo di Caserta». Come gli era stato comunicato dal console napoletano, il marchese Venuti, il re «assegnava una ragguardevolissima somma per compiere e decorare con pitture di buon fresco» la suddetta reggia (G. e L. Maggioni, 1994). Al palazzo non era stata immediatamente riconosciuta una particolare funzione rappresentativa. Solo in un secondo tempo, Murat aveva iniziato a promuovere la progettazione di un apparato decorativo da basarsi su un programma iconografico tessuto di riferimenti mitologici. Per l’approfondimento di questo argomento è interessante la trattazione di Ornella

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Scognamiglio (2008). Purtroppo l’evolversi delle vicende storiche portò ad un diverso esito. Con la disfatta napoleonica il ruolo di Gioacchino Murat venne meno e di conseguenza pure i suoi propositi di promozione artistica. Ma nello stesso anno dell’incarico a De Min il soggetto trovò un altro illustre interprete in Francesco Hayez. Egli raffigurò la vicenda mitologica ben tre volte tra il 1813 e il 1816, con la massima espressione nella grande tela dell’Ulisse alla corte di Alcinoo, commissionata sempre da Gioacchino Murat - anche se la Scognamiglio sulla base delle proprie ricerche d’archivio ha messo in dubbio una diretta scelta del soggetto da parte del regnante -, ma destinata alla reggia napoletana di Capodimonte. Considerati gli stretti rapporti tra i due artisti è possibile che De Min abbia avuto modo di vedere almeno una delle versioni di Hayez. Tuttavia, coincidenza o scelta intenzionale del re napoletano, l’incarico sembra suggerire un potenziale collegamento tra le due opere. E# possibile ipotizzare addirittura che le commissioni fossero tessere affini del più ampio programma decorativo a soggetto mitologico, voluto - ma non portato a termine - dall’allora re di Napoli per le due regge. Non è da escludere quindi che il foglio trevigiano possa risalire proprio al soggiorno romano. D'altronde all’epoca della possibile esecuzione, attorno al 1814, De Min era già ventottenne e, nonostante non vi siano molte testimonianze note del periodo trascorso a Roma - se si escludono i saggi inviati all’Accademia veneziana -, probabilmente già capace di imbastire una composizione cosı̀ articolata.

Un’ultima considerazione. Come per gran parte dei fogli della raccolta trevigiana, sembra molto difficile risalire a provenienza e modalità d’accesso alla raccolta, ma in questo caso si può quasi sicuramente propendere per un’acquisizione. L’iscrizione «Demin L. 250», riportata sul verso infatti indica, oltre alla probabile attribuzione, il valore d’acquisto del foglio. Se si considera che l’abate Luigi Bailo, il maggiore indiziato, ebbe durante gli anni di attività presso la biblioteca trevigiana contatti anche con la libreria «Lang», per l’appunto romana, la provenienza dall’area centro-meridionale della penisola sembra cosı̀ rafforzata. Seppur si ritenga verosimile l’attribuzione proposta, per completezza si segnalano alcuni disegni presentati da Giuliano Dal Mas nella sua monografia del bellunese Pietro Paoletti, allievo dello stesso De Min (Dal Mas, 1999, p. 157-158). Nonostante i dubbi attributivi manifestati dallo studioso, un raffronto con tali opere potrebbe offrire nuovi spunti per l’analisi di questo foglio trevigiano.

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