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L’UOMO, MISURA DI TUTTE LE COSE?: attorno alla tragedia

L’analisi di una tragedia greca non può dirsi completa se non si comprendono, durante il lavoro di esegesi, anche elementi che si potrebbero – anche se la parola è tutt’altro che esatta – definire ‘extradrammatici’; ovvero, una serie di elementi del discorso poetico che non si risolvono nell’incontro dei personaggi e nelle loro relazioni, per quanto ne entrino spesso a far parte. E’ quanto costituisce quella che, con un fortunato prestito dagli studi moderni su Shakespeare, si usa definire l’imagery, e che con parola greca potrebbe essere definita kosmos: vale a dire, il mondo in cui si muovono i personaggi stessi, costituito e raffigurato dal ricorrere, lungo tutto l’arco del dramma, di certi motivi poetici, le cui forme di espressione variano da lunghe descrizioni nelle odi corali a brevi metafore durante i dialoghi. Nella tragedia, quest’analisi assume una particolare importanza, dato che quest’ultima è una forma di produzione letteraria che, al contrario di molte altre successive, dichiara sempre, nel proprio svolgersi, come le azioni compiute in scena dai personaggi trovino la propria vera dimensione drammatica inserendosi in un universo più vasto. Si potrebbe dire, con un’inevitabile ma in questo caso relativamente esatta approssimazione, che tutto il teatro tragico greco sia la storia, declinata in infiniti modi, di come le azioni umane infrangano o confermino il kosmos divino e naturale attorno a loro.279

Nelle due tragedie di cui ci occupiamo, in particolare, grande importanza assume il vero e proprio contrasto fra il kosmos e l’azione degli esseri umani che lo abitano. Abbiamo accennato più volte, nel corso della nostra precedente analisi, come gli sforzi dei protagonisti di mantenere una propria identità personale, ben chiara e stabilita, si scontrano tutti con l’amara disillusione di dover comparire, di dover essere, di fronte agli altri ciò che essi non vorrebbero, perché qualcosa li ha divorziati dall’universo che si erano costruiti per gettarli invece in braccio a un altro che non accettano, facendoli anzi diventare il contrario di quello che volevano essere. Abbiamo visto l’ambiguità dell’immagine del prato, per Ippolito immagine di purezza incontaminata, che però si contamina facilmente, nel delirio di Fedra, di allusioni erotiche che vi erano già implicite; così come abbiamo visto il rovesciamento completo che, nelle parole di Teseo, presiede al regime di vita di Ippolito, ribaltato da cima a fondo senza che ne siano però modificate le caratteristiche interne. Abbiamo anche detto che si può dire come Ippolito, nella seconda parte della tragedia,

279

Il che spiegherebbe la ragione dello scandalo suscitato dal teatro di Euripide, la cui opera pare non riconoscere pi la presenza di un kosmos: ma la tragedia di molti drammi di Euripide è proprio questa, il fatto che un kosmos che ancora si avverte come forte non sia più in grado di spiegare la realtà, a causa del mutamento dei tempi (l’azione dell’uomo).

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sostanzialmente ripeta la vicenda di Fedra, ripetendone l’amara esperienza nella rovina del suo sistema di vita. Nelle Trachinie, l’opposizione è meno esplicitamente descritta, ma è comunque notevole anche in questa tragedia il vero e proprio processo di ‘coazione a ripetere’ che coinvolge tutti i personaggi: Deianira si spaventa alla vista di Iole perché riconosce nella sua storia la propria vicenda di vita, Eracle si lamenta come una bestia perché esattamente da bestia si è comportato (tant’è che si lamenta che la malattia che lo distrugge lo prende ai fianchi, esattamente dove lui ha preso Nesso). In un certo senso, è come se in queste due tragedie non succedesse nulla di nuovo, come se lo stesso atto venisse ripetuto all’infinito in una spirale cui nessun personaggio riesce a sottrarsi, per quanti sforzi esso faccia. E il responsabile di questo cambiamento è una forza impersonale come l’eros, che ha agito secondo il modo in cui, nelle odi corali e in altri passi del dramma, funziona il kosmos stesso.

Gli dèi, poi, sono direttamente chiamati in causa, visto che ne sono i garanti e i custodi del funzionamento di questo kosmos. Per una volta, anzi, Euripide sembra essere più esplicito di Sofocle: nell’Ippolito, Afrodite interviene direttamente per ‘assicurarsi’ che la tragedia finisca come deve finire280, per correggere l’infrazione perpetrata da Ippolito al normale andamento del kosmos, e inesistente è l’opposizione di Artemide, in uno schema che è impossibile non ricordi, ai lettori/spettatori attenti, quello dell’Odissea rovesciato di segno. Nelle Trachinie, gli oracoli di Zeus sono presenti fin dall’inizio della tragedia, e man mano questa va avanti ogni personaggio li riutilizza per interpretare il cambiamento della situazione che ha appena visto avvenire. Inoltre, le odi corali sottolineano la presenza di Afrodite dietro a ciò che Eracle fa, in tal modo elevando la dea dell’amore a rango di ‘aiutante’ di Zeus, praktōr delle azioni attraverso cui si compie il destino dell’eroe (v. 861). Non è perciò un caso che, proprio alla fine delle Trachinie, sia situata la più esacerbata e diretta accusa alla divinità di tutto il teatro tragico, per bocca di Illo (vv. 1264-74):

αἴρετ’, ὀπαδοί, μεγάλην μὲν ἐμο τούτων θέμενοι συγγνωμοσύνην, μεγάλην δὲ θεῶν ἀγνωμοσύνην εἰδότες ἔργων τῶν πρασσομένων, οἳ φύσαντες κα κλῃζόμενοι 280

Inutile e dannoso tentare di considerare, come pure ha fatto molta critica, Afrodite e Artemide come raffigurazioni allegoriche di forze della natura o simili. Se c’è una cultura occidentale che ignora cosa sia fare dei propri dei figurazioni allegoriche, è proprio quella greca del V secolo.

120 πατέρες τοιαῦτ’ ἐφορῶσι πάθη. τὰ μὲν οὖν μέλλοντ’ οὐδε ς ἐφορᾷ, τὰ δὲ νῦν ἑστῶτ’ οἰκτρὰ μὲν ἡμῖν, αἰσχρὰ δ’ ἐκείνοις, χαλεπώτατα δ’ οὖν ἀνδρῶν πάντων τῷ τήνδ’ την ὑπέχοντι.

La cosa che più gli si avvicina è la rampogna di Anfitrione a Zeus nell’Eracle di Euripide, ma quella protesta sarà così caratterizzata dalla situazione personale del parlante da possedere neanche la metà di quest’amarissima constatazione, che invece funge quasi da sigillo della tragedia e non viene ribattuta da nessun invito alla moderazione (il Coro, anzi, è d’accordo con Illo nella notazione che è tutto opera di Zeus, v. 1278).

Gli dèi e il mondo, quindi: un insieme che avvolge e al tempo stesso si oppone ai drammi degli umani, un kosmos che si presenta ferramente dotato di proprie leggi e inequivocabilmente messo su un altro piano rispetto a quello delle vicende dei mortali, un piano di superiore inattingibilità, sordo e quasi muto, non fosse che per qualche sporadico messaggio che però i mortali rischiano di interpretare male (ancora una volta, il problema del logos, della comunicazione). Tale si presenta all’inizio dell’Ippolito, quando Afrodite orgogliosamente dichiara il proprio potere sull’universo degli esseri umani (vv. 1-6):

Πολλὴ μὲν ἐν βροτοῖσι κοὐκ ἀνώνυμος θεὰ κέκλημαι Κύπρις οὐρανοῦ τ’ ἔσω· ὅσοι τε Πόντου τερμόνων τ’ Ἀτλαντικῶν ναίουσιν εἴσω, φῶς ὁρῶντες ἡλίου, το ς μὲν σέβοντας τἀμὰ πρεσβεύω κράτη, σφάλλω δ’ ὅσοι φρονοῦσιν εἰς ἡμᾶς μέγα.

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La menzione dell’elemento acquatico, oltre a essere la prima presenza di quello che, come vedremo, lungo il dramma sarà l’elemento di Afrodite281, rinchiude tutta l’umanità nella morsa della dea, e stabilisce la regola principe dell’onore dovuto a tutte le divinità, cui il solo Ippolito viene meno. Allo stesso modo, nella parodo delle Trachinie, prima di invitare Deianira a sperare ricordando la legge universale del mutamento del bene e del male (seconda antistrofe, 122-31)282, il Coro traccia la ‘mappa’ di tutto l’orbe terracqueo, nel chiedersi dove mai Eracle potrebbe trovarsi (prima strofe, 94-102): ὃν αἰόλα ν ἐναριζομένα τίκτει κατευνάζει τε φλογιζόμενον, Ἅλιον Ἅλιον αἰτῶ τοῦτο, καρῦ αι τὸν Ἀλκμή- νας· πόθι μοι πόθι μοι ναίει ποτ’, ὦ λαμπρᾷ στεροπᾷ φλεγέθων; ἢ Ποντίας αὐλῶνας, ἢ δισσαῖσιν ἀπείροις κλιθείς; εἴπ’, ὦ κρατιστεύων κατ’ ὄμμα.

L’allargamento dell’ampiezza dei viaggi di Eracle a tutto il mondo conosciuto estende, per ovvio procedimento analogico, anche la legge dell’alternanza del bene e del male. Si potrebbe quasi suggerire che il Coro stia replicando alle prime parole dette da Deianira alla sua entrata in scena, quando quest’ultima aveva negato che, nel suo caso, valesse il logos arkaios dell’impossibilità di giudicare sfortunata o felice la vita di qualcuno prima della morte. Il contrasto, per quanto a distanza non ravvicinata, fra le due posizioni, fra quella personale e idiosincratica della regina e l’atteggiamento generalizzante del Coro, è indicativo della direttrice secondo cui si organizzerà la tragedia, lo scontro fra la personalità accentratrice di Deianira e il mondo esterno impossibile da

281

SEGAL 1965, 120-21. Peraltro HALLERAN 1991, 119: “nautical imagery is commonly applied to weddings.”

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controllare (tant’è che la donna risponderà con la similitudine del prato, in pratica riducendo l’ammonimento del Coro alla mancanza di preoccupazioni della donna non sposata).

Proprio l’acqua, fra tutti gli elementi naturali, è quello che più viene chiamato in causa, lungo le tragedie, per rappresentare il complesso del kosmos, l’elemento da cui tutto ha avuto origine (Talete), ma anche quello che più di tutti è sfuggente e ambiguo. Nell’Ippolito, essa si ritrova dappertutto, e ovunque essa ha sinistre risonanze.283 Essa delimita il territorio abitato dagli uomini entro cui si esercita il potere di Afrodite, come abbiamo detto, ma al tempo stesso entra dentro il prato di Ippolito grazie ad Aidōs che la usa per innaffiare (v. 77), così che sia possibile ritrovarla nel prato di piacere/purezza cui Fedra vorrebbe dirigersi nel delirio (vv. 207-11)284. E’ presso l’acqua che le donne del Coro, mentre lavano i panni, sentono parlare di Fedra e della sua malattia (121-30, prima strofe della parodo), e sempre nella parodo è dal mare che dovrebbero venire cattive notizie da Creta, una delle possibili cause del male di Fedra (vv. 155-60)285. Pontia è chiamata Afrodite da Fedra, nel momento in cui questa si chiede come le donne adultere possano sopportare di guardare in faccia i loro mariti (v. 415)286, e sulle onde del mare cammina la dea nel racconto della Nutrice (vv. 447-48).287 L’acqua domina nel secondo stasimo, quello della fuga immaginata dal Coro, cui si contrappone il viaggio fatale della nave che da Creta portava Fedra ad Atene: nell’acqua dell’Adriatico cadono le gocce d’ambra delle sorelle di Fetonte presso l’Eridano (vv. 735-41), il giardino delle Esperidi segna il confine dell’acqua e del mondo tout court, e in quel giardino le fonti non sono d’acqua, ma d’ambrosia (prima antistrofe, vv. 742-51), Fedra nella sua disgrazia farà metaforicamente naufragio (v. 769, Fedra è uperantlos, la sentina troppo piena che causa il naufragio della nave)288. Teseo, distrutto dal dolore per la morte di Fedra, vede di fronte a sé un mare di mali (pelagos kakōn) da cui sente di non poter più uscire (vv. 822-24), e vorrebbe cacciare il figlio al di là del mar Nero e delle colonne d’Eracle, cioè ancora una volta fuori dal mondo connotato ancora una volta come distesa d’acqua (vv. 1053-54)289. Ed è dal mare, l’elemento di

Poseidone, che esce il toro che uccide Ippolito, così che anche nella sequenza della morte del

283

SEGAL 1965: la sua analisi delle varie ricorrenze di quest’elemento è tuttora validissima.

284

TURATO 1974, 136-38 e poi 148, nota come l’acqua sia una degli elementi la cui presenza è più frequente in qualsiasi immagine edenica.

285 SEGAL 1965, 122-24; si ricordi anche che l’aspirazione al suicidio di Fedra viene descritta con una metafora

marinaresca, la prima di tante.

286

SEGAL 1965, 126.

287 E ai vv. 443-46, la sua azione distruttiva viene definita col verbo ruein, “irrompere”, come le onde del mare: SEGAL

1965, 127.

288

SEGAL 1965, 132-34.

123

giovane, come in quella di Fedra, domini l’elemento acquatico, l’elemento primordiale per eccellenza290.

Ma se l’acqua è collegata ad Afrodite, non mancano casi in cui è collegata anche ad Artemide, così da suggerire che le due dee, in apparenza incarnazione di realtà distinte e opposte (tant’è che Artemide viene da Ippolito definita ourania, e i suoi spazi del prato e della foresta vengono esplicitamente contrapposti a quelli terrestri e acquatici di Afrodite291), siano in realtà aspetti diversi ma complementari della stessa realtà.292 Con la personalità cretese di Dictinna, Artemide infatti cammina sulla palude e sulla spiaggia, vicino all’acqua (vv. 148-50, 228-31)293

: e dal momento che la divinità cretese era direttamente collegata al parto e alla generazione (come ricorda lo stesso Coro, dicendo che l’ha invocata al momento del parto), è impossibile non pensare che alcune proprietà di Afrodite come dea della generazione le debba possedere anche Artemide. I cavalli di Artemide si allenano poi, come abbiamo già detto, presso la spiaggia, così che non sarà una sorpresa che, per strigliare i cavalli, i servi dell’esiliato Ippolito si siano recati in riva al mare (v. 1173). La dea della caccia cui Ippolito è votato, pertanto, è lei per prima né indifferente né estranea al mistero della generazione, e quindi vicina all’eros, al dominio di Afrodite: ancora più chiara la follia di Ippolito di opporsi a una norma così universalmente riconosciuta da penetrare ovunque.294

Sempre l’acqua segna i momenti fondamentali delle Trachinie. Acheloo, cui Eracle sottrae Deianira, è un dio fluviale, capace di mutare forma come l’acqua che è il suo dominio. Abbiamo visto poco prima che funzione ha il mare nella parodo: anche Eracle, come Teseo, è immerso in un mare di sciagure, ma lui, il Coro assicura, è facile che ne venga fuori (vv. 112-21). Nesso è barcaiolo, ed è nel centro nel fiume che tenta lo stupro che ne segna la morte. Quando chiamano a raccolta gli abitanti della Malide, all’inizio del secondo stasimo, le donne di Trachis li chiamano abitanti presso luoghi determinati dalla vicinanza di acque particolari (prima strofe, vv. 633-37), e pregano che Eracle arrivi da oltre il mare (seconda antistrofe, vv. 655-60), dal Ceneo dove sta compiendo i sacrifici a Zeus da lui promessi. Quando Deianira rientra in casa diretta al suicidio, Illo prega che un vento propizio la conduca via dalla sua vista (vv. 815-16); e in termini di fonte e di sorgente è descritto il pianto di Deianira (vv. 848-50). L’immaginario acquatico non è certo il

290

SEGAL 1965, 142-44.

291 Ma solo all’inizio della tragedia, che vedrà, come ha ben evidenziato SEGAL 1965, una sorta di ‘appropriazione’ da

parte di Afrodite di tutti gli spazi fisici, inclusi il cielo e la terra.

292

SEGAL 1965, 121; FRISCHER 1970, 88: “the consistency of imagistic confluence in the Hippolytos […] is to be interpreted as unambiguosly indicating the similarity of the two goddesses”; GOFF 1990, 71, parla di una vera e propria sostituzione di Afrodite con Artemide alla fine della tragedia, in perfetta simmetria.

293

SEGAL 1965, 123-25.

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principale motivo poetico delle Trachinie, nondimeno è significativo che l’acqua segni tutti i momenti di pericolo, dubbio e angoscia della vita della donna, come se attraversarla, per la donna, significasse ogni volta confrontarsi con la sua peggiore paura, quella della mancanza di una forma e di un ordine, il ritorno del caos primordiale della violenza che l’oikos dovrebbe correggere, se solo Eracle non ne fosse così profondamente immerso.

Un altro motivo, collegato al mondo naturale, nelle Trachinie ha invece importanza capitale: quello della luce e delle tenebre, del contrasto fra ciò che si vede e ciò che invece resta sepolto, invisibile alla vista, avvolto nelle tenebre. E’ la notte, nelle parole di Deianira, il momento principe di tutte le angosce della donna sposata (vv. 29-30, 149-50, 175-77), cioè il momento di assenza della luce, che segna la sospensione della vita pubblica, quando è lasciata sola con le paure che il matrimonio e la maternità portano con sè295. Abbiamo visto che è al sole, che scaccia le tenebre della notte, che il Coro si rivolge all’inizio della parodo, perché dica loro dove si trova l’eroe (vd. supra, pp. 117- 18)296; nell’epodo della stessa ode, nel momento immediatamente prima dell’affermazione della regola dell’eterno cambio, affermerà anche che non dura in eterno per gli uomini la notte aiola (v. 132) – stesso aggettivo che Deianira ha usato per definire una delle tre forme di Acheloo, quella di serpente297 –, così che ancora una volta l’arrivo del sole si connoti come l’arrivo della chiarezza, della sicurezza e della gioia. Il Messaggero arriva per dire che presto Eracle apparirà (vv. 185-86):

τάχ’ ἐς δόμους σο ς τὸν πολύζηλον πόσιν ἥ ειν, φανέντα σ ν κράτει νικηφόρῳ.

Da questo momento in poi, il verbo phainomai, direttamente collegato alla luce, percorrerà tutte le apparizioni di Eracle, man mano che il destino dell’eroe e della donna si farà più chiaro. La chiarezza invocata dal Coro (e che ai vv. 291-92 le fanciulle sono convinte sia divenuta emphanēs per Deianira, manifesta e incontrovertibile), la conoscenza richiesta da Deianira, è arrivata, sì, ma sarà causa di morte. Lampra è, infatti, Iole nelle parole del Messaggero (v. 379) mentre svela l’inganno di Lica, aggettivo che da un lato è esplicitamente collegato all’ambito nuziale298

, ma dall’altro, con la sua evidente enfasi sulla ‘lucentezza’ della fanciulla, si ricollega alle fiamme della distruzione della sua patria, e continua la rivelazione della verità: adesso Iole non è più nascosta nel

295 Il che significa, come nota SEGAL 1977, 107-08, che la notte è anche il momento del cambiamento, l’attimo in cui il

corpo muta, in un intrecciarsi di morte e rinascita.

296

Notte che viene definita aiola, lo stesso aggettivo usato per descrivere Acheloo come serpente, e sulle cui risonanze sinistre parla molto bene WENDER 1974, 6, e che viene detto essere uccisa dal sole, SEGAL 1977, 107, quasi un’eco dell’azione stessa di Eracle, civilizzatore perché uccisore dei mostri ‘notturni’.

297

SEGAL 1977, 110.

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silenzio in cui la voleva mantenere Lica (che ammetterà di aver nascosto la verità, krupsomai, v. 474), la sua natura è stata rivelata, e assieme ad essa il segreto della lussuria bestiale di Eracle (al v. 433, è l’eros phaneis che spinge Eracle alla distruzione di Ecalia, nelle parole del Messaggero). Deianira ha visto la verità che Eracle intende sostituirla, toglierle il suo mondo, rimpiazzarla con un’altra la cui vicenda è speculare alla sua: non vi può essere contraccambio esplicito alla luce del sole, una difesa che possa apertamente contrastare la volontà dell’eroe. Perciò Deianira, cambiando tattica, decide di agire anche lei in segreto, rifugiarsi nella notte in cui è stata confinata e trarre da questa tenebra i mezzi per riconquistare il suo posto. Esce così di nascosto (lathrai, v. 533), tirando fuori dall’interno della casa, da un lebete dov’era nascosto (kekrummenon, v. 556; enkekleimenon, v. 579; vv. 685-90), il filtro di Nesso, dato a lei quand’era ancora solo una pais, un misto del sangue raggrumato del Centauro e della nera (melancholous, v. 573; melas, v. 717) bile dell’Idra: antichità e oscurità si fondono, e dall’interno dell’oikos risorge, richiamata a nuova vita e nuova forza, la bestia che Eracle pensava di aver distrutto. E nonostante Deianira sia una donna di buon carattere e di grande moralità, come abbiamo avuto modo di vedere, pronuncia a questo punto dice la frase che sarebbe bastata a farla condannare come pornē da ognii uomo greco (vv. 596-97):

μόνον παρ’ ὑμῶν εὖ στεγοίμεθ’· ὡς σκότῳ κἂν αἰσχρὰ πράσσῃς, οὔποτ’ αἰσχύνῃ πεσῇ.

E’ la sua decisione estrema, il momento in cui la notte di pianto di Deianira assume l’altro aspetto, quello della passione, e la minaccia che si aggirava nella casa diventa davvero operante: la bestia è sguinzagliata dalla passione esasperata di una donna, costretta dall’azione ‘luminosa’ del marito ad abbracciare anche la forma più oscuramente passionale della sua natura. Ha ragione Carawan299, nel ricordare che quest’atto rende Deianira colpevole agli occhi del pubblico: per quanto non volesse uccidere Eracle, ha compiuto l’atto del filtro in piena, cosciente e consapevole volontà.

E non è nemmeno un caso che la veste non debba essere mostrata alla luce del sole prima che Eracle non l’abbia indossata (vv. 604-09). Solo in tal modo il filtro potrà assolvere davvero la sua funzione, quella di mostrare (phanein, v. 612) l’eroe come una nuova specie di sacrificante. Il filtro porterà infatti alla luce l’altra essenza dell’eroe, quella bestiale, mostrerà come l’eroe civilizzatore sia in realtà soggetto alla stessa brutalità e violenza delle creature che ha sconfitto, in un vero e proprio contrappasso quasi dantesco. Ma il filtro rivelerà anche quella parte della natura di Deianira che essa voleva tenere nascosta, la sua passione, la sua gelosia, il suo desiderio (vv. 666-67,

299 CARAWAN 2000. Lo studioso ha però anche ragione nel puntualizzare come l’effettiva colpevolezza non

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phanesomai), separandola e divorziandola dalla sua immagine ‘ufficiale’ di donna assennata, fedele

e devota, così che tutta la sventura, l’irregolarità, l’interna frattura dell’oikos di Eracle venga finalmente alla luce. Nel terzo stasimo, il Coro, di fronte alla duplice sventura, potrà solo dire (vv. 850-51) che ἁ δ’ ἐρχομένα μοῖρα προφαίνει δολίαν κα μεγάλαν ταν, e poco dopo (vv. 860-61): ἁ δ’ ἀμφίπολος Κύπρις ναυδος φανερὰ τῶνδ’ ἐφάνη πράκτωρ.

La profezia dell’oracolo si è compiuta, il destino di morte e sventura degli sposi è stato rivelato, e la legge che il Coro aveva enunciato, quella dell’alternanza delle situazioni di vita, si è rivelata veritiera nella maniera più atroce.

Non a caso, Segal ha definito le Trachinie come un percorso dall’oscurità verso la luce, verso la

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