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L’UOMO, QUESTO SCONOSCIUTO: Eracle e Ippolito, o dell’ambigua eccellenza

Tutta una tradizione di studi ed esegetici è sembrata, per lungo tempo, dimenticarsi che le due tragedie non si intitolano Fedra o Deianira; in altre parole, che i personaggi femminili ivi rappresentati, per quanto affascinanti e complessi, non esauriscono affatto in sé tutti gli aspetti della tragedia. Al contrario, anzi, come abbiamo visto in parte anche nei precedenti capitoli, nessuno dei due personaggi femminili avrebbe senso, se fosse staccato dal rapporto (o meglio, dal mancato rapporto) di opposizione con il suo partner maschile. Nel caso di Ippolito e Fedra, la situazione è stata ulteriormente peggiorata dalla presenza di una ricchissima tradizione di riadattamenti, che parte con Seneca e prosegue con Racine, Swinbourne, D’Annunzio e Cvetaeva, in cui spostare il focus drammatico dalla coppia al solo personaggio di Fedra era diventata la regola. In queste riproposizioni del mito (come anche nella Fedra di Sofocle, secondo l’ipotesi di Barrett166), la regina ateniese, pur nella diversità dei singoli approcci, acquista la posizione privilegiata di title

role, e la vicenda inquietante progetta da Euripide viene normalizzata nello schema ben noto della

‘moglie di Potifar’, pur preservando il carattere tormentato del personaggio di Euripide. Ma nello schema della ‘moglie di Potifar’ indirizzato al protagonismo di Fedra, è normale che Ippolito perda quasi ogni consistenza drammatica, e regredisca a semplice giovane di buoni costumi e moralità tradizionale, che respinge una matrona adultera: ove, infatti, il problema viene ad essere l’adulterio esplicitamente proposto, non c’è bisogno che il giovane in questione resti la figura castissima fino quasi alla sessuofobia creata da Euripide. Racine, in un passo della prefazione alla sua Phèdre, ci dimostra come questo possa diventare un problema:

Pour ce qui est du personnage d'Hippolyte, j'avais remarqué dans les Anciens qu'on reprochait à Euripide de l'avoir représenté comme un philosophe exempt de toute imperfection ; ce qui faisait que la mort de ce jeune prince causait beaucoup plus d'indignation que de pitié. J'ai cru lui devoir donner quelque faiblesse qui le rendrait un peu coupable envers son père, sans pourtant lui rien ôter de cette grandeur d'âme avec laquelle il épargne l'honneur de Phèdre, et se laisse opprimer sans l'accuser. J'appelle faiblesse la passion qu'il ressent malgré lui pour Aricie, qui est la fille et la soeur des ennemis mortels de son père.

E’ chiaro che l’ottica classicista del tragediografo francese non può essere estesa agli altri adattamenti teatrali del mito, che sono frutto di altra sensibilità poetiche, ma a tutte è comune la

166 BARRETT 1964, xxiii.

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‘normalizzazione’ di Ippolito, il suo riadattamento in un personaggio meno scioccante dell’originale euripideo, per dare invece spazio privilegiato a Fedra e alla sua lotta interiore contro la passione. Ma la tragedia di Euripide si chiama Ippolito, non Fedra, e con tutte le versioni successive della storia ha un’enorme differenza: la mancanza di ogni contatto fra i due protagonisti.167

Fedra e Ippolito non si parlano mai, non sono mai neanche in scena assieme, se non un’unica volta in cui, però, con tutta probabilità, Ippolito non la vede.168 Il che significa che, in Euripide, manca del tutto la proposta esplicita dell’adulterio, che non diventa mai una possibilità reale, ma resta solo un’idea terrificante da cui Fedra cerca di scappare. Perché, però, la cosa potesse funzionare a livello psicologico, un giovane di semplice moralità e buoni costumi non bastava: un personaggio simile, infatti, avrebbe infatti potuto comprendere il dilemma di Fedra, magari elogiarla per il suo atto, e questo avrebbe fatalmente diminuito la tensione tragica.

La complessità del personaggio di Ippolito, fortunatamente, è oggi un’idea accettata dalla maggior parte della critica, grazie a una fertile serie di studi che ha restituito alla sua figura tutti i tratti della personalità originaria. Qualche volta, a dire la verità, alcuni di questi studi si sono spinti un po’ troppo oltre, ad esempio quelli condotti tramite la psicanalisi, che hanno provato a riconoscere nel figlio dell’Amazzone tratti di qualche malattia mentale moderna169

. Non sono neanche mancati una serie tutta particolare di studi, i quali hanno tentato di ‘normalizzare’ Ippolito, scoprendo un interesse per il sesso normale dietro la superficie della castità perfetta: questi studi sono però da rigettare in toto. Tuttavia, la divisione maggiore nella tradizione degli studi sul personaggio è stata quella fra chi, sulla base di questi legami riconosciuti con la realtà del tempo, tende ad enfatizzare moralisticamente i lati abnormi del personaggio, quella che potrebbe essere considerata la sua

hybris puritana e sessuofoba,170 e chi invece contesta questa visione e tende invece ad affermare che i valori di Ippolito, per quanto senza dubbio paradossali e anormali rispetto alla mentalità del tempo, non rendono affatto il personaggio moralmente colpevole.171 Una simile divisione, peraltro,

167

ZEITLIN 1996, 221 (“the most striking feature of our drama is that it reaches its expected conclusion only through deviation and detour and above all, by means of one character acting as intermediary for the other”); peraltro c’è da dire che la studiosa insiste molto – e secondo me a ragione – sul fatto che “Phaedra, whether as a victim or agent, is only a means to another end” (222). Vd. anche PADUANO 2000, 3, sulla questione.

168

Le opinioni, in realtà, qui sarebbero state discordanti, ma al giorno d’oggi si è raggiunta una più o meno pacifica accettazione del fatto che Fedra non si muove dal palco durante la tirata misogina di Ippolito, che però non si rivolge mai a lei in prima persona.

169 RANKIN 1974; DEVEREUX, 1985. 170

Visione che risale a Wilamowitz e alla sua edizione della tragedia nel 1891, e che poi è continuata con Perrotta, Dodds, Conacher, e da lì a BARRETT 1964, commento ai vv. 79-81; SEGAL 1965, 117-69; SEGAL 1978, 129-48; PARKER 1983, 76; GARLAND 1990, 210.

171

G. E. DIMOCK JR., Euripides’ Hippolytos, or virtue rewarded, YCS 25 (1977), 239-58; D. KOVACS, The Heroic

Muse, London 1987, 26 ss; J. GRIFFIN, in Characterizations and Individuality in Greek Literature, ed. C. Pelling,

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non fa che confermare ai nostri occhi la natura di monstrum che Ippolito possiede, di uomo veramente fuori dalla norma, più che in grado di suscitare l’ira di Afrodite e la passione smisurata di Fedra.

E se Ippolito è un monstrum, Eracle lo è anche a maggior ragione, visto che lui, nelle Trachinie, affronta mostri veri e propri, e ha anche parecchie caratteristiche personali che li ricordano. Il che non ha mancato di causargli non pochi guai con gli studiosi che si sono interessati delle Trachinie, molti dei quali sono rimasti letteralmente scioccati dalla contrapposizione fra l’umanissima, patetica figura di Deianira, e la raffigurazione invece così selvaggia, egoista, rozza, dell’eroe per eccellenza della grecità172. E per quanto adesso non esistano più quelle posizioni critiche che, in base alla netta divisione del dramma in due parti, quella di Deianira e quella di Eracle, mettevano in dubbio l’autenticità della tragedia, ci è voluto molto tempo prima che i critici smettessero di dividersi in ‘accusatori’ e ‘difensori’ di Eracle, gli uni unanimi e decisi nel condannare l’eroe, gli altri invece presi nel tentativo di dimostrarne invece l’eccellenza nonostante i vistosi lati antipatici della raffigurazione dell’eroe.173

La raffigurazione di Eracle, nelle Trachinie, è in realtà sostanzialmente ambigua, come quella di Ippolito. L’eroe viene costantemente descritto dal Coro e dagli altri come il migliore degli uomini, l’uccisore di mostri, il protettore e difensore del genere umano, il figlio di Zeus e salvatore della Grecia, ma questa caratterizzazione, invece di escludere, come è stato presupposto a lungo, tratti negativi, finisce anzi per presupporli. L’eroe civilizzatore della Grecia è un essere a metà strada fra il mondo bestiale che combatte e quello civile che sorge grazie alla sua opera (per non parlare della sua nascita divina che lo rende persino triplice), caratterizzato da un’enorme dismisura in ogni lato della propria personalità. Ed è proprio questa sua ambiguità di fondo a spaventare Deianira, la quale non è in ansia per un uomo come i tanti, ma per un uomo cui gli dei hanno destinato un destino così particolare da negargli, però, con questo la stabilità da lei tanto desiderata (non a caso, Sofocle ha ambientato la vicenda delle Trachinie nella parte della vicenda dell’eroe vicina alla sua morte174).

172

SEGAL 1977, 101-03, riassume in modo conciso ed efficace questa lunga e travagliata storia critica. FUQUA 1980, 68, arriva a dire che Sofocle ha costruito Eracle come la perfetta antitesi di Deianira: nel suo articolo, però, egli riconosce pienamente e accetta la natura ambigua dell’eroismo greco, che (sono parole sue) non ha nulla a che vedere con la purezza richiesta dall’eroismo romanticamente inteso.

173

EASTERLING 1982, 5-6, fa i nomi di Kitto come esponente di punta della prima posizione, ed Etman come esponente di punta della seconda.

174 Con conseguente discussione degli studiosi se Sofocle intendesse, o meno, includere nel finale delle Trachinie

l’apoteosi di Eracle. Discussione che, a conti fatti, a me pare abbastanza inutile: che vi sia, o meno, non è essenziale alla tragedia, come afferma anche HOLT 1974, 2 (“this drama is not the glorious story of a demi-god, but a tragedy about human beings whom the gods forsake”).

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Eracle e Ippolito sono due monstra, due uomini particolari le cui azioni si estendono al di fuori della normale comunità umana, e in quanto tali si contrappongono alle più ‘normali’ Fedra e Deianira, due donne che invece tentano di rispettare, per quanto possibile, gli standard della convivenza umana apertamente violata dai loro partner. Anche per questo, è alla coppia maschile che è delegato, in un certo senso, il compito di inserire nella loro tragedia lo sfondo mitico che le è proprio, perché tramite il loro rifiuto (o semplicemente la loro scarsa pratica) della comunicazione con gli altri, essi sono per questo più vicini al mondo cosmico e divino che le si stende attorno, e che con le loro azioni essi incarnano (Eracle) oppure sfidano (Ippolito)175. E’ contro Ippolito che è diretta la vendetta di Afrodite, di cui Fedra è solo un nolente strumento176; e la rovina di Eracle sarà causata non solo dalla gelosia di Deianira, ma anche dalla vendetta di Nesso e dalla profezia di Zeus, che ha segnato la fine delle sue fatiche, cioè della sua vita.

La prima parte di questo studio esplorerà quindi le varie forme e i vari aspetti di questa ‘eccellenza’ dei due personaggi, tentando di stabilirne sia i lati positivi sia quelli negativi, strettamente legati l’uno all’altro e funzionali entrambi perché la tragedia abbia la conclusione che conosciamo. La seconda parte, invece, dedicherà attenzione pressoché esclusiva a un rapporto finora non preso in considerazione in questo studio, in quanto quasi del tutto esclusivo dei personaggi maschili: quello dei rapporti parentali, nella fattispecie tra padre e figlio. Sia Eracle sia Ippolito terminano il proprio percorso terreno morenti, nelle braccia l’uno del proprio figlio, l’altro del proprio padre, ed entrambi tentano in quell’ultimo istante di riallacciare con la persona che li assiste un legame in

extremis, così da lasciare in questo mondo una qualche forma di eredità della propria eccellenza,

almeno nel ricordo del proprio ghenos.

I.

QUALE ECCELLENZA?

Non sono molti i personaggi della tragedia greca, per cui la sola entrata in scena basti a scatenare la ricerca degli studiosi, nel tentativo di capire chiaramente con chi abbiamo a che fare. Ippolito è uno di questi: l’immagine che egli usa per descriversi e presentarsi, all’inizio della tragedia, è un’immagine le cui molteplici associazioni hanno attratto molta attenzione da parte della critica. E’ in effetti un’immagine ambigua, per certi versi anche internamente contraddittoria, ma soprattutto

175 Per quanto riguarda le Trachinie, è da notare che questa antitesi fra un eroe mitico e una donna normale è al centro

dell’analisi che ne fa FUQUA 1980, riprendendola da SEGAL 1977, 100: “Heracles never emerges entirely from the remote mythology and from the ancient powers of nature he vanquishes”. Nonostante non ne convida del tutto l’impostazione di fondo che “the Trachiniae is a dramatization in very explicit terms of the absolute and unconditional nature of heroism” (op. cit., 69), trovo la sua analisi molto interessante e piena di molti spunti esatti.

176

Posizione espressa con forza da ZEITLIN 1996, 261: “Hippolytos, who gives his name to the play, is the determining factor. He is the figure who, as the precision of tragic justice requie, needs (and gets) a plot made expressly for him.”

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così strettamente legata al carattere di chi ne parla, da fungere in un certo senso da biglietto da visita, in grado di chiarire e illuminare tutti gli aspetti del suo carattere, che poi il resto della tragedia provvederà a mettere in scena (vv. 73-81)177.

σο τόνδε πλεκτὸν στέφανον ἐ ἀκηράτου λειμῶνος, ὦ δέσποινα, κοσμήσας φέρω, ἔνθ’ οὔτε ποιμὴν ἀ ιοῖ φέρβειν βοτὰ οὔτ’ ἦλθέ πω σίδηρος, ἀλλ’ ἀκήρατον μέλισσα λειμῶν’ ἠρινὴ διέρχεται, Αἰδὼς δὲ ποταμίαισι κηπεύει δρόσοις, ὅσοις διδακτὸν μηδὲν ἀλλ’ ἐν τῆι φύσει τὸ σωφρονεῖν εἴληχεν ἐς τὰ πάντ’ ἀεί, τούτοις δρέπεσθαι, τοῖς κακοῖσι δ’ οὐ θέμις. ἀλλ’, ὦ φίλη δέσποινα, χρυσέας κόμης ἀνάδημα δέ αι χειρὸς εὐσεβοῦς πο. τέλος δὲ κάμψαιμ’ ὥσπερ ἠρ άμην βίου.

Il prato non è un elemento naturale neutro, nella tradizione culturale greca, riunisce anzi in sé due aspetti che più contraddittori fra loro non potrebbero essere. Da un lato, la simbologia della purezza che vi è sottintesa è lampante: è un luogo dove le greggi, vale a dire la natura addomesticata, non entrano a pascolare (v. 75), e dove il ferro, metallo per eccellenza della civilizzazione, non entra mai (v. 76), ma vi entrano invece le api (v. 77), ovvero uno degli animali casti per eccellenza nella storia della cultura greca (e infatti, è l’animale che Simonide usa come paragone per la buona moglie, silenziosa, operosa e casta178). In tal modo, questo luogo si connota come il luogo della

177

SEGAL 1965, 122: “This scene thus presents a symbolical enactment of Hippolytus’ whole way of life.”

178 Numerosi gli studi sull’ape come animale puro per eccellenza: per una bibliografia più estesa, vd. CAIRNS 1997, 60,

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natura incontaminata e vergine, non corrotta dalla civilizzazione,179 rientrando così in una tradizione poetica di luoghi “edenici”, ancora non toccati dalla mano dell’uomo (vd. Cheril fr. 1 Kinkel, Pherecr. 108 K, Aristoph. Av. 159, 238, 245-46, 1067, 1093, 1099).

Giustamente, a questo proposito, Turato parla di “ritorno all’età dell’oro”180

, notando come nel ritratto del prato siano presenti anche richiami esiodei, evidenti nel rifiuto del ferro, contrapposto invece all’oro (che, guarda caso, è il metallo della casa di Zeus, al v. 69, e poi quello della chioma di Artemide, v. 82, così da “incorniciare” il rifiuto del ferro). Ma non è questo il solo rimando ad Esiodo nel passo, né il più consistente: è la citazione di Aidōs che costituisce il maggior punto di vicinanza con il mito esiodeo delle età. Ippolito, affermando che è Aidōs il guardiano del prato,colui che lo innaffia con l’acqua di puri ruscelli, si riallaccia più o meno consciamente, per contrasto, a un dettaglio della descrizione esiodea dell’età del ferro, e cioè il fatto che in quest’età, dice il più arcaico poeta, Aidōs avrà abbandonato la terra (Hes. Op. 199-201), e con lui ogni legame di lealtà fondato sul giuramento e sulla giustizia (Hes. Op. 190-94), vale a dire ogni possibilità di affidarsi alla parola per avere garanzie certe di comunicazione con gli altri uomini. E la comunicazione verbale, la normale comunicazione con gli altri esseri umani, è esattamente quello che Ippolito tenta di fuggire e rigettare, perché convinto, come dirà lui stesso poco dopo, che la sophrosyne non si possa insegnare e sia un dono della physis (vv. 79-81).

Nessuna meraviglia che un luogo del genere venga a porsi anche come spazio sacrale181, spazio dedicato alla manifestazione degli dèi: a questo proposito, anzi, la precedente cultura greca presentava una ricca tradizione di prati e giardini sacri182, di solito destinati ai sacrifici, cioè quelle occasioni sociali in cui, stando al racconto di Esiodo, la comunità umana aveva modo di rinnovare la comunione almeno del cibo spezzata dalla storia dell’evoluzione della civiltà e dal passaggio delle varie età della vita dell’uomo. Ma l’utilizzo di questo spazio “divino” ai fini del sacrificio non è in sé necessario, perché il luogo naturale incontaminato assuma la valenza di spazio abitato dalla divinità, proprio per l’assenza di ogni traccia di presenza umana (Hymn. Merc. 72, Ibyc. 286 V, 4 P,

179

TURATO 1974, BREMER 1975, CAIRNS 1997.

180

TURATO 1974, 142-47; anche ZEITLIN 1996, 240, riconosce l’esistenza di simili richiami.

181 Nota infatti BARRETT 1964 che “the land sacred to a god seems commonly, and naturally, to have been taboo to

human use; prohibitions of the pasturing of animals, the felling or gathering of timber are common in inscriptions”.

182 A tutt’oggi, lo studio più completo ed esaustivo sul tema è quello di A. MOTTE, Prairies et Jardins de la Gréce antique, Ac. Roy. de Belg., 1973.

78

Soph. Tr. 200, Eur. Ion 116, Pherecyd. FGrH Jacoby 3 F16, per non parlare della ricchissima tradizione relativa al giardino delle Esperidi183).

Un luogo fisico e mentale di ritorno all’età dell’oro, di ricostruzione dell’originaria concordia uomo/natura/divinità, un luogo di innocenza, di purezza, da cui una speciale grazia divina ha escluso tutti coloro che sono indegni di avvicinarvisi: impossibile pensare una maniera migliore per Ippolito di presentare il proprio ideale di vita, e per proporsi quale il “più virtuoso degli uomini” (come si definirà al momento di lasciare Atene, v. 1100). A maggior ragione, peraltro, quando emerge che questa possibilità di entrare in tale prato è stata ‘ceduta’ come privilegio esclusivo a Ippolito: prima Afrodite ai vv. 17-19, ci dice che

χλωρὰν δ’ ἀν’ ὕλην παρθένωι ξυνὼν ἀε κυσ ν ταχείαις θῆρας ἐ αιρεῖ χθονός,

μείζω βροτείας προσπεσὼν ὁμιλίας, 184

poi Ippolito rincara la dose affermando, ai vv. 84-87, orgogliosamente che

μόνωι γάρ ἐστι τοῦτ’ ἐμοὶ γέρας βροτῶν•

σο κα ξύνειμι κα λόγοις ἀμείβομαι,

κλύων μὲν αὐδῆς, ὄμμα δ’ οὐχ ὁρῶν τὸ σόν.185

Impossibile non pensare a una presentazione più potente, roboante e orgogliosa di questa. Il figlio dell’Amazzone si erge di fronte a noi rinchiuso in una vera e propria armatura di castità, unico uomo in tutta Trezene a poter entrare in uno spazio che sembra riportare indietro la storia e il tempo, a quell’età edenica dell’oro in cui, stando al racconto di Esiodo, uomini e dèi vivevano fianco a fianco, non c’era bisogno di lavorare e si poteva stare a contatto con un genere umano che non incontrava difficoltà nel comunicare, perché Aidōs sorvegliava il mondo. Conveniamone: è impossibile non tributargli, fin da subito, una certa ammirazione, l’ammirazione di un uomo che è

183 Che non a caso sarà citato dal Coro, nell’ode di fuga, ai vv. 742, 750s., come luogo per fuggire dalla tragedia in

corso.

184 Dice molto bene DAVIES 2000, 57: “nowhere else in extant Greek tragedy do we find ourselves witnessing such an

intimate address to (or communing with) a deity on the part of a mortal who feels himself especially favore by that deity.”

185 Ritengo si possano tranquillamente ignorare i sottintesi erotici del verbo syneimi, o al massimo, come fa LONGO

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riuscito ad elevarsi lontano dalla vita di noi poveri mortali, verso un altro, più elevato, piano di esistenza.186 Una volta, però, superata questo primo momento di ammirazione, e questa superficiale impressione del prato come luogo dell’assoluta purezza, non si può non notare che questa stessa immagine porta con sé implicazioni problematiche che Ippolito, evidentemente, ignora.187

Tanto per cominciare, se la colpa di Ippolito è l’eccessiva castità, e il disprezzo per i riti di Afrodite (come ci dice la stessa dea, vv. 10-15), allora non si può non notare che il giovane ha scelto un po’ il luogo sbagliato dove esercitarla. Accanto all’immagine del prato come luogo incontaminato di purezza, la tradizione poetica greca ne conosce una altrettanto forte, in cui il prato è invece proprio il luogo erotico privilegiato, un’idea – suggerisce Bremer, riportando l’ipotesi di Motte188 – forse ripresa da una cultura non-greca, pre-indoeuropea, in cui il prato era il luogo privilegiato per la manifestazione della Potnia, la Signora della fecondità e della fertilità, e il suo matrimonio sacro, che dava origine alla vita189. Forse proprio da questo modello sacrale derivano le scene erotiche più celebri dell’epica arcaica, tutte ambientate in un prato: l’amplesso fra Zeus ed Era in cima all’Ida (Hom. Il. XIV, vv. 346-51, reiterazione della loro prima unione, come ricorda lo stesso Zeus190) e il ratto di Persefone, avvenuto mentre sta cogliendo dei fiori, proprio come Ippolito (Hymn. Hom.

Cer. 2-21 e 417-32)191. Ma c’è un prato anche a Ogigia, attorno alla grotta di Calipso (Od. V, 55 ss.), da cui Odisseo si tiene lontano per non cedere alla seduzione della dea192: è la prima attestazione del motivo in forma ‘umana’, ‘laica’, in cui il prato è un semplice locus eroticus, il luogo in cui godere del piacere sessuale. E’ in un prato che Saffo invoca Afrodite, un prato

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