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VARIAZIONI CICLICHE E STORIA ECONOMICA NEL PENSIERO DI JOSEPH A. SCHUMPETER

Joseph A. Schumpeter : Business cycles. Mac Graw-Hill, New York, 1939. Due voi. in 8° di XVI-1095 pp. Prezzo 10 dollari.

1. — La più recente opera di Joseph A. Schumpeter dedicata ai cicli d’affari apporta un contributo vigoroso agli studi di teoria e storia economica. Il titolo, puro e semplice, dei due volumi di cui l’opera consta, non dà un’idea adeguata del loro contenuto quanto mai ricco e vario; un po’ più può illuminare il sot­ totitolo Analisi teorica, storica e statistica del processo capitalistico, atto, se non altro,

a rivelarci uno dei criteri direttivi a cui 1’ A. si attiene.

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Nel progresso tecnico lo Schumpeter ravvisa l'essenza dell’impresa capita­ listica; nel meccanismo ciclico l'eterno forgiarsi, e riforgiarsi, della sua struttura, che prelude a variazioni ulteriori: l’evoluzione economica, attuale e in fieri, gli appare parte integrante del sistema scientifico dell'economia, è qui palese una delle fonti prime del suo pensiero, per altro sempre indipendente e originale anche là ove più specificatamente si riattacca alla tradizione della scuola storica e alle sue derivazioni ortodosse ed eterodosse. A tale sua tendenza si può pure collegare l’idea, più volte affermata, condivisa da altri autori moderni delle più diverse correnti, che l'ipotesi di un'astratta organizzazione socialistica valga meglio dell'ipotesi di un'organizzazione capitalistica (non sempre ben chiarita) a porre in rilievo l’essenza più fondamentale e durevole dei fenomeni economici (vedi, ad esempio, le pp. I l i , 142-143, 497, 770 n. 1), il che, lo si noti per incidenza, contribuisce a spiegare, tra l’altro, alcuni particolari dell'impostazione schumpe- teriana dei problemi della moneta (1), dell'interesse e della speculazione. Si ag­ giunga ch’egli accoglie pure il punto di vista, a cui assurse per altra via E. Bohm- Bawerk, che adduce sostanzialmente a negare al capitale, qual è comunemente inteso, la qualifica di fattore di produzione (p. 129). È essenzialmente un con­ cetto contabile.

Rientrano in quest'ordine di idee alcuni quadri d’ambiente che 1’ A. ab­ bozza, alternando spunti teorici e giudizi concreti : si vedano, ad esempio, i cenni sull'epoca «borghese» (pp. 305, 311). Superate alcune precedenti esitazioni, egli accoglie come comoda se pur forse inadeguata (p. 695) l’ipotesi dell’esistenza d’una stretta relazione tra evoluzione economica e sviluppi sociali, culturali e po­ litici dell’ambiente. Frequenti, in tutto il corso dell'opera, sono gli accenni al tipo di « uomo » e al tipo di « cultura » (2) che il capitalismo ha creato (vedi, ad esempio, p. 495). Nonostante le sue deficienze, la ipotesi è dì per sé pre­ ziosa: più di ogni altra ha contribuito alla costituzione della scienza della storia economica ed ha suo luogo tra le altre, specie quand’è sapientemente maneggiata, al di fuori d ’ogni gretto aprioristico formalismo, da uomini del valore e della duttilità di Schumpeter.

Particolarmente degne di nota, a questo proposito, le conclusioni ultime del­ l’opera, imperniate attorno all'idea che il capitalismo, specie nelle sue forme più evolute, promuova lo sviluppo, se non altro prò tempore, di tendenze ostili al suo normale funzionamento (vedi, in ¡specie, le pp. 699 e 1038). Idea plausibile per chi pensi che in assenza di progressi ulteriori il capitalismo non possa soprav­ vivere (p. 1033) (3). Concetti analoghi, se ben ricordo, ebbe a svolgere tra di

( 1) L'A. preannuncia la pubblicazione d'un volume in argomento : elenca, in modo necessariamente un po’ apodittico, alcuni dei principali caposaldi della propria trattazione

(vedi, in ¡specie, le pp. 544-548).

(2) Da cui, per altro, v'è ora una spiccata tendenza ad allontanarsi.

(3) Le previsioni dell'A. meritano d'essere ricordate: « Capitalism and its civilization may be decaying shading off into something else, or tottering toward a violent death. The

writer persónally thinks they are » (p. 908). Affermazione questa per vero un po' vaga potendo

sorgere dubbi sul significato che nel contesto ha l'espressione a capitalismo ». Lo Schumpeter non insiste su tale tesi, che, al pari di altre ch'egli enuncia incidentalmente per fini analoghi (ad esempio, in materia demografica), è .frutto più d’intuito che di vero e proprio ragio­ namento.

noi M. Pantaleoni nei suoi corsi di lezioni tuttora imperfettamente noti. Lo Schum­ peter li svolge indipendentemente con grande ricchezza di sviluppi, con partico­ lare riferimento alle condizioni politiche e sociali degli Stati Uniti, dell'Inghil­ terra e della Germania, che sono le sole nazioni ch'egli considera ex professo in tutto il corso della trattazione.

2. — Se non fosse del timore di suscitare nell’animo del lettore associa­ zioni fallaci, direi, tanto per indicare un punto di riferimento chiaro per gli stu­ diosi di economia, che i punti di vista su accennati risentono, qua e là, l'influenza di alcune tesi marxistiche, da cui per altro l'autore si diparte in altre parti della trattazione. In qualche tratto l'influenza può dirsi prevalentemente ricardiana, specie là dove si generalizza per certi fini la legge dei rendimenti decrescenti (che si ar­ resta o inverte solo ad opera del provvido saltuario intervento dell’imprenditore) o si tratta dell’arduo tema della disoccupazione, collegata, nella sua genesi e nei suoi caratteri, ad alcune peculiarità della nostra organizzazione economica, o si con­ cepisce classicamente l'interesse quale parte integrante del profitto. Accanto a tale influenza, e variamente combinata con essa, assai sensibile e più esplicita, appare in più punti l'influenza walrasiana (vedi appresso i §§ 3 e 4).

Tutto lo schema elaborato dall'autore è basato, oltre che su una netta distin­ zione tra statica e dinamica, sul presupposto, più volte chiarito, dell'esistenza di una multiforme decisa tendenza all'eqtiHibrio (nel senso strettamente teorico dell'espres­ sione), la quale si concreta nelle più diverse situazioni, anche là dove a tutta prima è meno avvertita, in appositi meccanismi equilibratori e riequilibratori (4). La por­ tata, teorica e storica, dell’ipotesi di libera concorrenza appare all’autore assai più ampia, fin che sussista il capitalismo con le sue tipiche caratteristiche, di quanto ap­ paia a molti economisti contemporanei: al di là di alcune apparenze esteriori o contingenti, varie, numerose situazioni di concorrenza imperfetta si risolvono pra­ ticamente in situazioni di concorrenza perfetta o quasi (pp. 64-65, 496, 775).

Walrasiana, nella sua essenza, è pure, nei suoi lineamenti più generali, la di­ stinzione di massima tra problemi attinenti alla formazione del risparmio e problemi attinenti al saggio d'interesse (vedi, in ¡specie, le pp. 74-84), distinzione affermata e svolta tra di noi indipendentemente dal Del Vecchio. Walrasiano, del pari, è il concetto di livello dei prezzi considerato nella sua essenza teorica e nella sua con­ sistenza effettiva indipendentemente dai procedimenti statistici, a cui si può far ri­ corso per determinarlo in concreto (pp. 452 e segg.). Non è cioè, a differenza d'altri concetti, una pura creazione della tecnica statistica: sistema dei prezzi (relativi) e livello dei prezzi (assoluti) sono due concetti autonomi se pur interferenti. Impli­ citamente walrasiane, infine, le critiche a Keynes e ad Harrod per la loro visione meno comprensiva e più grezza ad un tempo di quella dell’equilibrio generale, a cui vien sostituito un equilibrio di masse isolate di forze sommate tra di loro (vedi, ad esempio, le pp. 43-44, ove si discorre dell ’aggregative equilibrìum).

(4) A dire il vero, l’A. ricorda esplicitamente la possibilità, considerata — egli osserva (p. 48 nota) — per primo da M. Pantaleoni, di allontanamenti indefiniti dalla situazione di equilibrio: a tali eventualità egli attribuisce però, nel complesso, un'importanza

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Per lo Schumpeter le singole teorie non sono, per altro, che singoli punti di vista, più o meno atti, a seconda dei casi, a chiarire la realtà o certi suoi aspetti par­ ticolari. È questa — si osservi — un'idea tipica della scuola marshalliana (Keynes compreso), com’è stato spesso ribadito anche di recente. Da tale scuola l’A. è ta­ lora meno lontano di quanto ritiene (5), com'è anche provato dalla frequente con­ cordanza di vedute col Robertson. L'atteggiamento dello studioso, egli ricorda, è simile, in certo modo, a quello dell'uomo d'affari, che nella propria sfera d'azione tende di continuo a distinguere il normale dall’anormale,, i fattori esterni di varia­ zione dai fattori interni, i sintomi più profondi delle condizioni delle imprese e dell’ambiente in cui operano da quelli più appariscenti, i sincroni dagli asincroni, gli essenziali dagli accidentali, ecc. Ciò premesso, l’A. chiarisce, specie nel secondo capitolo, il grande ausilio che può derivare dalla conoscenza di una concezione netta e comprensiva quale la walrasiana, in ragione, se non altro, della luce che irradia sui concetti di statica e dinamica, di equilibrio e meccanismi equilibratori e riequi­ libratori, di attriti — di cui alcuni possono essere utili ad un punto di vista eco­ nomico (p. 51) — , vischiosità, indeterminatezza logica, ecc., ecc. : la sua insistenza sui vari punti, eccellente dal punto di vista didattico, è spiegata dal desiderio di evitare equivoci (assai frequenti nel nostro campo), non che dai fini di divulgazione in parte perseguiti dall’opera, che non è dedicata esclusivamente agli studiosi di professione e vuole giovare all'intelligenza dei problemi del giorno. Dal punto di vista della trattazione successiva particolarmente degno di nota il concetto, am­ piamente utilizzato (vedi appresso § 4), di prossimità all’equilibrio o zona di equi­ librio (neigbborboods of equilibrium) (pp. 71, 149-150, 157, 173): è usato, non nel senso rigoroso dell’economia pura e della teoria della traslazione delle imposte, ma in un senso più generico, tale da potersi adattare grosso modo alle applicazioni concrete perseguite con unicità di criterio nella parte storica, le quali, tanto per in­ tenderci, possono essere paragonate, sebbene vertano di preferenza su di un piano del tutto diverso, a quelle tentate tra di noi dal Bresciani Turroni e dal Cabiati.

Oltre un certo punto l’apparato delle distinzioni teoriche, che l’A. tratta con cauta perizia, incontra, per altro, difficoltà crescenti anche se si attenua il rigore delle ipotesi : ben lungi dall'essere « puro », il nostro sistema economico, risultato esso stesso di cause eterogenee o che almeno appaiono tali in prima approssimazione (cfr. cap. I, B e C), è in uno stato continuo di transizione verso un quid diverso; non si presta ad essere adeguatamente compreso nei termini d’un coerente modello logico astratto, che necessariamente riflette un numero limitato di tendenze (vedi, ad esempio, p. 11). Una prevalenza decisa di pochi sindacati oligopolistici, un vero e proprio avvento, di cui non mancano indici, di un « capitalismo trustificato » (6) potrebbero porre in serio pericolo tutti gli schemi elaborati ponendo un termine alla loro, sia pur parziale, secolare validità (pp. 96-97 e 145). Il che, se bene inter­ preto il pensiero dell’autore, non ne infirma però del tutto la validità fin che la nuova ipotetica situazione non si sia realizzata appieno. Osserva, a buon diritto,

(5) La stessa osservazione vale per l'altro noto e meno rigoroso divulgatore di Walras: G. Cassel, imitato fra noi dal compianto Porri.

(6) S’applica qui lo schema dell'oligopolio da non confondersi con quello della con­ correnza imperfetta in senso stretto.

l'A. che un esame attento della sua opera vale a risolvere molte apparenti contrad­ dizioni. Nulla ci dice però di esplicito sulle fluttuazioni in regime socialistico, che qualche suo cenno in via analogica, fatto per altro prevalentemente per fini didat­ tici, pare equiparare, in linea di massima, alle fluttuazioni del regime capitalistico sempre che noti vengano meno alcuni moventi psicologici. Altri suoi cenni suscitano qualche dubbio.

3. — Il deus ex machina delle fluttuazioni cicliche, oltre che di ogni processo evolutivo (di cui le fluttuazioni non sono che un aspetto particolare), è per lo Schum­ peter l’imprenditore. Assente dallo schema statico, nel dinamico è la figura premi­ nente. Promuove la produzione di merci (vecchie o nuove) con metodi nuovi: le innovazioni, che pone in essere non van confuse con le invenzioni, sue od altrui, le quali ultime, comunque escogitate, appaiono sempre storicamente e logicamente indipendenti dalle loro eventuali, spesso assai ritardate realizzazioni concrete. L'imprenditore dà impieghi nuovi ai fattori di produzione e con ciò stesso dà loro nuova vita : non si limita cioè semplicemente a « combinarli » variandone la quan­ tità assoluta e relativa. Son spesso uomini nuovi che creano organismi nuovi. Varia ne è l'origine e vari i risultati ultimi. Lo stato od altri enti pubblici fungono talora essi da imprenditori, com’è sovente accaduto in Germania nelle più diverse epoche. L’ascesa, che la loro opera intermittente promuove, si realizza irregolarmente con alcune delle caratteristiche proprie di isolate situazioni di concorrenza imperfetta, ripercuotendosi via via, in vario modo, sui diversi elementi del sistema. I rapporti reciproci si modificano secondo criteri nuovi. Il materiale storico raccolto dall’A. per illustrare il proprio assunto è imponente: merita tutta l'attenzione anche di chi non sia disposto a sottoscriverne tutte le affermazioni. Degna di nota la grandissima elasticità del concetto di « innovazione » che è illustrato per più vie. Occorre tener sempre presente lo speciale ristretto significato attribuito all’espressione « impren­ ditore ».

L’ innovazione iniziale suscita varie reazioni, che si concretano in parte in vera e propria opposizione, diretta e indiretta, e in parte in tentativi, razionali e irrazio­ nali, di imitazione nello stesso settore o in settori collegati. Più innovazioni sono così poste in essere. Ondate successive di imprenditori appaiono sul mercato: se appaiono troppo celermente in vista delle nuove prospettive di profitto create dal rivolgimento iniziale, come tende sempre più ad accadere (specie negli Stati Uniti) nella nostra epoca, in cui cosi diffuso e vigile è il culto della razionalizzazione e tanto intense e sistematiche sono le ricerche tecnologiche, si può avere una fase di ascesa senza profitti (prontamente eliminati, o prevenuti, dalla troppo celere siste­ matica concorrenza od anche da un’eventuale attività da parte di enti pubblici che miri allo stesso scopo). L’iniziale situazione dì concorrenza imperfetta tende ad es­ sere eliminata.

La creazione del credito (7) occorrente al raggiungimento degli scopi perse­ guiti ha un’importanza essenziale per l’imprenditore, specie se si prescinde, come

(7) Opportunamente l’A. evita la fallace tartassata espressione di «risparmio forzato»

(p. 112 nota). ^

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in un primo tempo fa l’autore, che si attiene al metodo delle approssimazioni suc­ cessive, dalle altre possibili forme di finanziamento, la cui varia mutevole impor­ tanza concreta è di poi valutata grosso snodo nella parte storica. Ne sono analizzate le varie forme, bancarie ed extrabancarie; in tal campo interessa segnatamente sapere se gli scopi perseguiti sono ragionevoli o meno. La figura ideale del banchiere è sagacemente illustrata. Non si può capire l'evoluzione capitalistica se ci si arresta ad una concezione puramente meccanica del credito. L’A. non ignora, per altro, i pericoli di eccessivi finanziamenti a base puramente, o prevalentemente, creditizia, quale che sia l’impiego a lunga scadenza a cui sono destinati-, pur rigettando per ragioni prevalentemente metodologiche (di cui, a dire il vero, non si avverte sempre la rilevanza) l’impostazione wickselliana, modificata da vari autori moderni, del saggio «naturale» d ’interesse contrapposto al saggio di mercato (p. 127), l’A. non trascura, specie nella parte storica, i problemi trattati, talvolta un po’ apodittica­ mente, dagli economisti di tale tendenza: ammette esplicitamente, come eventualità possibili in certe situazioni, gli inconvenienti lamentati dall’Hayek e dal Machlup (vedi le note apposte alle pp. 296, 333, 345, 603, 812, non che le pp. 605, 634- 637 e 814). L'aderenza allo schema walrasiano rivela assai bene per quali vie uno squilibrio parziale può trasformarsi in uno squilibrio generale. Tra i vari spunti, che si possono connettere a questa parte della trattazione, degno di nota quello re­ lativo a John Law quale figura tipica di imprenditore fuorviato dai suoi veri pro­ positi più essenziali da esigenze politiche (pp. 250-252). Anche il nostro Ferrara fu indulgente con Law, di cui apprezzava l’opera teorica (tuttora, se non erro, poco nota): nel credito più che l’elemento autonomo perturbatore, presente là dove, in definitiva, manca 1’« equivalente », egli ravvisava l’elemento meglio atto a prevenire squilibri. Si tratta però di sapere che si debba intendere per squilibrio, il che è un po’ arduo se si abbandona del tutto l’ipotesi statica e la concorrenza perfetta: a questo proposito si può ricordare, tra l’altro, un’osservazione dello Schumpeter, per cui quanto più un sistema ha carattere progressivo tanto maggiore è la quota d ’im­ pianti inutilizzata (excess capacity) apprestata in vista di sviluppi ulteriori, e varia­ mente commista ad impianti vecchi (p. 803), sì che l’apparente squilibrio è in certo senso solo apparente, così come il conseguimento di un « optimum » economico a lungo andare può implicare la rinuncia a tale massimo per i singoli sottoperiodi.

4. — La concezione dell’A. è precisata, come già ebbi ad accennare, attra­ verso approssimazioni successive, volte a porne in rilievo la coerenza logica e l’ac­ cordo con i fatti. La storia non giova soltanto a confermare la teoria (come ebbe a sostenere tra noi G. Prato con un certo apriorismo più grave di quello proprio del materialismo storico, che solo la sua finezza scientifica sapeva riscattare): giova pure ad elaborarla ulteriormente. Elaborazione particolarmente opportuna dato il ca­ rattere storico di alcuni presupposti della teoria schumpeteriana, la cui validità ver­ rebbe meno, a detta dello stesso autore (vedi sopra § 2), nell’ipotesi di un deciso avvento del « capitalismo trustificato ». Nel corso delle successive approssimazioni sono inserite varie spiegazioni del ciclo dovute a diversi economisti, a cui, nel com­ plesso, sia pur con le debite riserve, viene attribuita un’importanza subordinata. Tale classificazione ragionata, la si accolga o meno, è interessante di per sé come

tentativo di sistemazione della materia fatta su di una base diversa da quella a cui s'è attenuto il Mitchell, la cui analisi è assai meno penetrante.

a) Fasi: due sono le fasi cicliche distinte inizialmente: prosperìty e re­ cession, fase di allontanamento dall'equilibrio la prima, che potremo dire gene­ ricamente di ascesa, di avviamento ad un nuovo equilibrio la seconda, la quale implica un assestamento spontaneo del sistema, un rallentamento potremmo dire, esaurite che sieno, almeno prò tempore, le forze che hanno addotto, con un processo endogeno, alla sua trasformazione (che è sempre, si ricordi, strutturale e ciclica ad un tempo). La prima non è necessariamente una fase di vera e propria prosperità, di benessere diffuso nel senso comune dell’espressione : spesso, specie se inizialmente non v'erano rilevanti fenomeni di disoccupazione, è un periodo di sacrifici, di rinun- cie, di lotte che solo più tardi potranno avere compenso adeguato (prosperìty wìtbout tveljare). La seconda non è necessariamente una fase di minor benessere: si fan sentire le ripercussioni delle realizzazioni, attuali e potenziali, della fase pre­ cedente ad essa intimamente collegata. Può aumentare col tempo la copia dei beni diretti disponibili, che inizialmente può aver subito qualche riduzione. Le due fasi si completano a vicenda: costituiscono quella che ¡’A. considera, non senza un certo formalismo aprioristico, « onda primaria ». è, per cosi dire, un processo fisio­ logico : a tal processo fanno implicitamente riferimento i politici liberisti. Non v’ha modo né ragione d’impedire l’ineluttabile « recession ». L’intensità di una fase è collegata all’intensità dell’altra.

A sì fatta « onda » raffigurata da detto schema iniziale se ne sovrappone nor­ malmente, ma non necessariamente, un’altra. £ effetto degli sviluppi della specula­ zione e del credito, non che di altre forze che van di pari passo con tali sviluppi, sì che ad un’ascesa più prolungata, e qualitativamente diversa, di quanto comporti detto schema, isolatamente considerato, succede una discesa precipitosa, che implica improvvisa revisione dei valori e liquidazione « anormale », che trascina il sistema al di là della zona di equilibrio senza che spesso possa vedersi a qual punto esso si potrà arrestare. E questa la depression (8), o crisi in senso stretto, o « avvita­ mento » com’anche fu detta, a cui si contrappone la recovery o revival, la ripresa diremmo noi, la quale nella concezione schumpeteriana è considerata quarta fase a sé stante, ben distinta, di carattere correttivo, che adduce al raggiungimento della zona di equilibrio, che il gioco vizioso, e capzioso, della crisi aveva fatto ol­ trepassare deprimendo progressivamente irrazionalmente tutti gli elementi del si­ stema. Al pari della « recession », la « recovery » è stimolata, almeno in parte, dal­ l’azione di forze « spontanee » a cui l’A. accenna : la considerazione dei meccanismi riequilibratori ha sempre una parte preminente nel suo schema, di cui costituisce, per cosi dire, il primo piano. Nulla però ci assicura che tali forze, da considerarsi da un punto di vista prevalentemente storico, sieno di per sé sufficienti a superare la crisi, come accade invece, a dire dell’A., per la « recession » pura. Di proposito l’A. si astiene dal suggerire provvedimenti di politica economica (tutt’al più dice

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