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Nel quale si vede come Madonna Luna si dichiarasse nemica di Monsignor Rutilante

Nel documento Antonio Beltramelli. Gli uomini rossi. (pagine 129-151)

Gli anarchici, i poveri piccoli anarchici, avevano ve-duto, forse per la cinquantesima volta, il loro capo var-care la soglia della bolgia oscura onde, presi dal timore di condividerne la sorte, pensarono un mezzo di scam-po.

Era necessario in primo luogo ingraziarsi le autorità e il caso li aiutò.

Marcôn e Apulinèr amavano il vino e il vino è un fra-tello che bene consiglia.

Un giorno si trovavano a far siesta in una osteria su-burbana, allorchè udirono alle loro spalle parlare som-messamente; si volsero e videro il Cavalier Mostardo conversare con due figuri di ignota provenienza.

Il primo consiglio fu di non por mente [171] alle parole che giungevan loro, ma poi Marcôn sobbalzò, si battè una mano su la fronte e disse al compagno:

- Siamo salvi!

- Perchè? - chiese Apulinèr.

- Lascia fare. Vedrai.

Apulinèr, secondo le buone leggi della compagnia,

CAPITOLO XII.

Nel quale si vede come Madonna Luna si dichiarasse nemica di Monsignor Rutilante.

Gli anarchici, i poveri piccoli anarchici, avevano ve-duto, forse per la cinquantesima volta, il loro capo var-care la soglia della bolgia oscura onde, presi dal timore di condividerne la sorte, pensarono un mezzo di scam-po.

Era necessario in primo luogo ingraziarsi le autorità e il caso li aiutò.

Marcôn e Apulinèr amavano il vino e il vino è un fra-tello che bene consiglia.

Un giorno si trovavano a far siesta in una osteria su-burbana, allorchè udirono alle loro spalle parlare som-messamente; si volsero e videro il Cavalier Mostardo conversare con due figuri di ignota provenienza.

Il primo consiglio fu di non por mente [171] alle parole che giungevan loro, ma poi Marcôn sobbalzò, si battè una mano su la fronte e disse al compagno:

- Siamo salvi!

- Perchè? - chiese Apulinèr.

- Lascia fare. Vedrai.

Apulinèr, secondo le buone leggi della compagnia,

chinò il capo nè più domandò.

Marcôn disse forte:

- Cavalier Mostarde io potrei darvi buoni consigli.

- Tu! - rispose rivolgendosi il gigante e piegò il lab-bro a smorfia canzonatoria.

- Io!

- Bada ranocchio! - fece il Cavaliere avvicinandosi al tavolo di Marcôn. - Io son capace di mandare a gambe levate, te e tutta l'anarchia se intendi burlarmi!

- Voglio esservi utile. Posso darvi un grande consi-glio!

Marcôn amava l'enfasi; ma il Cavalier Mostardo lo afferrò a mezzo il petto e gli gridò:

- Parla e spicciati!

Al comando risoluto, l'anarchico, raumiliandosi, chie-se:

[172]

- Voi cercate Europa?

- Si.

- Europa è al Castello dei Lecci.

- Quando l'hai veduta?

- La settimana scorsa. Mi trovavo da Êrla per curarle una figlia ammalata di ânma cadù. Vidi Europa passare nel bosco.

- Con chi era?

- Con un giovanotto.

- L'hai riconosciuto?

- No. Però Êrla mi disse che al Castello c'era anche un prete.

chinò il capo nè più domandò.

Marcôn disse forte:

- Cavalier Mostarde io potrei darvi buoni consigli.

- Tu! - rispose rivolgendosi il gigante e piegò il lab-bro a smorfia canzonatoria.

- Io!

- Bada ranocchio! - fece il Cavaliere avvicinandosi al tavolo di Marcôn. - Io son capace di mandare a gambe levate, te e tutta l'anarchia se intendi burlarmi!

- Voglio esservi utile. Posso darvi un grande consi-glio!

Marcôn amava l'enfasi; ma il Cavalier Mostardo lo afferrò a mezzo il petto e gli gridò:

- Parla e spicciati!

Al comando risoluto, l'anarchico, raumiliandosi, chie-se:

[172]

- Voi cercate Europa?

- Si.

- Europa è al Castello dei Lecci.

- Quando l'hai veduta?

- La settimana scorsa. Mi trovavo da Êrla per curarle una figlia ammalata di ânma cadù. Vidi Europa passare nel bosco.

- Con chi era?

- Con un giovanotto.

- L'hai riconosciuto?

- No. Però Êrla mi disse che al Castello c'era anche un prete.

- L'hai veduto?

- No.

Passò una sosta in cui il Cavalier Mostardo si strinse la fronte fra le palme.

- Forse ci siamo! - disse poi. E, a breve ripresa, rivol-to a Marcôn:

- Tu verrai con me, scarafaggio. E bada, questo sia detto perchè la cosa non ti giunga nuova, se hai mentito ti appendo a una vite come una botta!

- Farete ciò che vi piacerà. Ciò che vi ho rivelato è verità.

- È lontano il Castello dei Lecci?

[173]

- Sessanta miglia vecchie. Quattro giorni di cammino.

Con un buon cavallo possiamo arrivarci in un giorno e mezzo.

- Allora andiamo. Mi aspetterai alla stalla di Frigòr.

- Come volete.

Partirono. Il Cavalier Mostardo comunicò la buona novella ai banchettanti, poi raggiunse Marcôn e si mise-ro in via verso l'antico castello sorgente fra le montagne selvose.

Alle scosse ritmiche e continue del barroccino, Mar-côn si addormentò mentre il Cavalier Mostardo, gli oc-chi fissi a l'orizzonte, tracciava ne l'aria grandi segni quasi sviluppasse mentalmente un suo piano strategico.

Poi scese la notte ed essi continuarono sotto la luna l'interminabile via.

Il Castello dei Lecci era, su l'alto Apennino, in luogo - L'hai veduto?

- No.

Passò una sosta in cui il Cavalier Mostardo si strinse la fronte fra le palme.

- Forse ci siamo! - disse poi. E, a breve ripresa, rivol-to a Marcôn:

- Tu verrai con me, scarafaggio. E bada, questo sia detto perchè la cosa non ti giunga nuova, se hai mentito ti appendo a una vite come una botta!

- Farete ciò che vi piacerà. Ciò che vi ho rivelato è verità.

- È lontano il Castello dei Lecci?

[173]

- Sessanta miglia vecchie. Quattro giorni di cammino.

Con un buon cavallo possiamo arrivarci in un giorno e mezzo.

- Allora andiamo. Mi aspetterai alla stalla di Frigòr.

- Come volete.

Partirono. Il Cavalier Mostardo comunicò la buona novella ai banchettanti, poi raggiunse Marcôn e si mise-ro in via verso l'antico castello sorgente fra le montagne selvose.

Alle scosse ritmiche e continue del barroccino, Mar-côn si addormentò mentre il Cavalier Mostardo, gli oc-chi fissi a l'orizzonte, tracciava ne l'aria grandi segni quasi sviluppasse mentalmente un suo piano strategico.

Poi scese la notte ed essi continuarono sotto la luna l'interminabile via.

Il Castello dei Lecci era, su l'alto Apennino, in luogo

diruto ed aspro. A prima vista pareva inaccessibile, per-duto lassù fra le sue rupi che scendevano a picco da grande altezza sul letto di un torrente sassoso e sconvol-to; però, nascosta fra le anfrattuosità, era una viottola la quale, svolgendosi tortuosamente, [174] guadagnava la cima di Monfùg. Il Castello dei Lecci apparteneva ai marchesi Barbigi ed era da lungo tempo disabitato. Ne era affidata la custodia alla vecchia Êrla che aveva inca-rico di aprirlo ai rarissimi visitatori; incainca-rico ch'ella non poteva disimpegnare perchè le gambe non le permette-vano di affrontar le numerose scale a chiocciola e gli sdrucciolevoli pavimenti dei sotterranei e che, con gio-vanil grazia, disimpegnava una figlia sua, la bella Gia-smîn che Marcôn aveva curato già dal lento languore che la consumava, in quelle azzurre solitudini dove non si udiva se non il muggir delle mandre e le grida che mandano i venti, passando nel loro viaggio vertiginoso.

Erla e Giasmîn vivevano in una casetta grigia ed era con loro un anziano: Vuriòl, zio della giovanetta.

Un giorno, su l'aprirsi di aprile, era giunto lassù il marchesino Fedele Barbigi e aveva dato ordine si appre-stassero nel castello alcune stanze perchè una coppia di giovani sposi avrebbe passato la primavera fra quelle montagne.

[175]

L'opera fu compita con gioia sì da Êrla come da Gia-smîn, perchè se l'una sperò nel guadagno, l'altra fu presa da viva curiosità giovanile e le riempì l'animo il pensie-ro di poter osservare da vicino, in sorridente stupore, ciò diruto ed aspro. A prima vista pareva inaccessibile, per-duto lassù fra le sue rupi che scendevano a picco da grande altezza sul letto di un torrente sassoso e sconvol-to; però, nascosta fra le anfrattuosità, era una viottola la quale, svolgendosi tortuosamente, [174] guadagnava la cima di Monfùg. Il Castello dei Lecci apparteneva ai marchesi Barbigi ed era da lungo tempo disabitato. Ne era affidata la custodia alla vecchia Êrla che aveva inca-rico di aprirlo ai rarissimi visitatori; incainca-rico ch'ella non poteva disimpegnare perchè le gambe non le permette-vano di affrontar le numerose scale a chiocciola e gli sdrucciolevoli pavimenti dei sotterranei e che, con gio-vanil grazia, disimpegnava una figlia sua, la bella Gia-smîn che Marcôn aveva curato già dal lento languore che la consumava, in quelle azzurre solitudini dove non si udiva se non il muggir delle mandre e le grida che mandano i venti, passando nel loro viaggio vertiginoso.

Erla e Giasmîn vivevano in una casetta grigia ed era con loro un anziano: Vuriòl, zio della giovanetta.

Un giorno, su l'aprirsi di aprile, era giunto lassù il marchesino Fedele Barbigi e aveva dato ordine si appre-stassero nel castello alcune stanze perchè una coppia di giovani sposi avrebbe passato la primavera fra quelle montagne.

[175]

L'opera fu compita con gioia sì da Êrla come da Gia-smîn, perchè se l'una sperò nel guadagno, l'altra fu presa da viva curiosità giovanile e le riempì l'animo il pensie-ro di poter osservare da vicino, in sorridente stupore, ciò

che aveva pensato talvolta a traverso qualche leggenda antica.

Poi una chiara mattina, tanto chiara che il lontano mare tutto si rivelava a l'orizzonte, pieno di scintillìi come una immensa corazza di metallo brunito che riper-cotesse il sole, il cane da guardia abbaiò con tale insi-stenza che Êrla e Giasmîn uscirono e si trovarono di fronte Europa e Didino.

- Sono loro gli sposi? - chiese sorridendo Erla.

I fuggitivi si guardarono negli occhi e Didino rispose:

- Sì.

- Allora si accomodino. Li aspettavamo. Ho preparato quattro stanze vicine alla torre di destra; vede? quella là.

Sono le migliori e ci si troveranno bene.

Vedendo poi che gli sposi novelli non rispondevano, pensò che l'oscura mole del [176] castello incutesse loro timore sicchè soggiunse:

- Oh! non ci sono gli spiriti, è vero Giasmîn? Non ci sono gli spiriti glielo assicuro. Io ho dormito sola, al tempo de la povera marchesa, (ero ancora ragazza e ne sono trascorsi degli anni!) ho dormito sola nella stanza dei quadri. Dicono, è vero, che nella notte si sente urlare e si vedono fantasmi su tutte le torri, ma non diano ascolto. Noi non abbiamo veduto niente, ed è un pezzo che si vive quassù.

Del resto - soggiunse - se hanno paura Vuriòl dormirà nel castello.

- Oh! non importa! - fece Didino punto sul vivo.

- Non importa! - sussurrò Europa.

che aveva pensato talvolta a traverso qualche leggenda antica.

Poi una chiara mattina, tanto chiara che il lontano mare tutto si rivelava a l'orizzonte, pieno di scintillìi come una immensa corazza di metallo brunito che riper-cotesse il sole, il cane da guardia abbaiò con tale insi-stenza che Êrla e Giasmîn uscirono e si trovarono di fronte Europa e Didino.

- Sono loro gli sposi? - chiese sorridendo Erla.

I fuggitivi si guardarono negli occhi e Didino rispose:

- Sì.

- Allora si accomodino. Li aspettavamo. Ho preparato quattro stanze vicine alla torre di destra; vede? quella là.

Sono le migliori e ci si troveranno bene.

Vedendo poi che gli sposi novelli non rispondevano, pensò che l'oscura mole del [176] castello incutesse loro timore sicchè soggiunse:

- Oh! non ci sono gli spiriti, è vero Giasmîn? Non ci sono gli spiriti glielo assicuro. Io ho dormito sola, al tempo de la povera marchesa, (ero ancora ragazza e ne sono trascorsi degli anni!) ho dormito sola nella stanza dei quadri. Dicono, è vero, che nella notte si sente urlare e si vedono fantasmi su tutte le torri, ma non diano ascolto. Noi non abbiamo veduto niente, ed è un pezzo che si vive quassù.

Del resto - soggiunse - se hanno paura Vuriòl dormirà nel castello.

- Oh! non importa! - fece Didino punto sul vivo.

- Non importa! - sussurrò Europa.

- Allora, Giasmîn, va a prendere le chiavi ed accom-pagna i signori nelle loro camere.

Giasmîn ch'era rimasta tutta compresa di ammirazio-ne e di gioia e s'era ferma a guardare senza batter ciglio, alla chiamata della madre si riscosse e andò e tornò in un battibaleno recando un gran mazzo di chiavi ruggino-se e dismisurate. Si fermò innanzi [177] a Didino o, con un bel sorriso della bocca rossa e dei piccoli denti perla-cei, chiese, piegando leggermente il capo ad invito:

- Vogliono venire?

- Eccoci - rispose Manso Liturgico, e si avviarono.

Dalla casupola di Êrla alla porta del castello, chiusa ora da enormi battenti che avevano sostituito le antiche saracinesche, correva una viottola mal selciata, fra due basse siepi di canne e lunga forse duecento metri, in sa-lita. Innanzi a l'entrata del castello era una spianata alla quale faceva corona una duplice fila di cipressi e di abe-ti.

Giasmîn corse innanzi. Scalza com'era, pareva uno scoiattolo per quelle balze; si affrettò ad aprire la gran porta grigia, tempestata di borchie rugginose come l'armatura di un gigante.

Introdusse la chiave, fece forza piegando la persona, girò gli ordigni ch'ebbero stridori acuti, sostò guardando se gli sposini giungevano, poi appoggiando le braccia e il torso, spinse la porta che cigolò e si dischiuse.

[178]

Ritta ora nel gran vano luminoso, con la sua bella co-rona di capelli rossi, attese gli adolescenti che salivano - Allora, Giasmîn, va a prendere le chiavi ed accom-pagna i signori nelle loro camere.

Giasmîn ch'era rimasta tutta compresa di ammirazio-ne e di gioia e s'era ferma a guardare senza batter ciglio, alla chiamata della madre si riscosse e andò e tornò in un battibaleno recando un gran mazzo di chiavi ruggino-se e dismisurate. Si fermò innanzi [177] a Didino o, con un bel sorriso della bocca rossa e dei piccoli denti perla-cei, chiese, piegando leggermente il capo ad invito:

- Vogliono venire?

- Eccoci - rispose Manso Liturgico, e si avviarono.

Dalla casupola di Êrla alla porta del castello, chiusa ora da enormi battenti che avevano sostituito le antiche saracinesche, correva una viottola mal selciata, fra due basse siepi di canne e lunga forse duecento metri, in sa-lita. Innanzi a l'entrata del castello era una spianata alla quale faceva corona una duplice fila di cipressi e di abe-ti.

Giasmîn corse innanzi. Scalza com'era, pareva uno scoiattolo per quelle balze; si affrettò ad aprire la gran porta grigia, tempestata di borchie rugginose come l'armatura di un gigante.

Introdusse la chiave, fece forza piegando la persona, girò gli ordigni ch'ebbero stridori acuti, sostò guardando se gli sposini giungevano, poi appoggiando le braccia e il torso, spinse la porta che cigolò e si dischiuse.

[178]

Ritta ora nel gran vano luminoso, con la sua bella co-rona di capelli rossi, attese gli adolescenti che salivano

l'erta.

Entrarono in un vasto cortile chiuso da un lato da una torre; negli altri tre lati correva un portico oscuro. Le mura si levavan diritte e grigie; rosse in alcuni punti, dove l'opera muraria era in mattoni. Percorsero un an-drone, chiuso da saracinesche; sbucarono in un cortiletto meno grande del primo; volsero a destra; salirono una scala a chiocciola e furono in una terrazzina.

- Dalla parte del mastio non si passa - disse Giasmîn rivolgendosi - perchè la scala è pericolosa.

Traversarono una grande stanza piena di feritoie e di spiombatoi, ridiscesero, videro un terzo cortile.

- Ma questo è un laberinto! - esclamò Didino.

- Siamo giunti! - rispose Giasmîn. - Poi, indicando con la mano: - Ecco la scala - riprese.

Sotto un arco a sesto acuto, adorno di quattro colon-nette appaiate, si intravide la [179] bella scala in marmo, ricca di eleganti balaustrate, della quale saliron due rami e furono innanzi ad una porta dorata che Giasmîn di-schiuse facilmente.

- Aspettino; apro le finestre - disse Giasmîn entrando.

Udiron nel buio lo stropiccìo dei piccoli piedi nudi, sul pavimento; giunse loro un senso di umidiccio e un tanfo di aria viziata poi un impeto di luce invase la sala, rive-stita di damasco verde e decorata da begli affreschi nel soffitto.

- Questa è la sala verde - disse Giasmîn. - Le loro stanze son per di qua.

E volse a destra.

l'erta.

Entrarono in un vasto cortile chiuso da un lato da una torre; negli altri tre lati correva un portico oscuro. Le mura si levavan diritte e grigie; rosse in alcuni punti, dove l'opera muraria era in mattoni. Percorsero un an-drone, chiuso da saracinesche; sbucarono in un cortiletto meno grande del primo; volsero a destra; salirono una scala a chiocciola e furono in una terrazzina.

- Dalla parte del mastio non si passa - disse Giasmîn rivolgendosi - perchè la scala è pericolosa.

Traversarono una grande stanza piena di feritoie e di spiombatoi, ridiscesero, videro un terzo cortile.

- Ma questo è un laberinto! - esclamò Didino.

- Siamo giunti! - rispose Giasmîn. - Poi, indicando con la mano: - Ecco la scala - riprese.

Sotto un arco a sesto acuto, adorno di quattro colon-nette appaiate, si intravide la [179] bella scala in marmo, ricca di eleganti balaustrate, della quale saliron due rami e furono innanzi ad una porta dorata che Giasmîn di-schiuse facilmente.

- Aspettino; apro le finestre - disse Giasmîn entrando.

Udiron nel buio lo stropiccìo dei piccoli piedi nudi, sul pavimento; giunse loro un senso di umidiccio e un tanfo di aria viziata poi un impeto di luce invase la sala, rive-stita di damasco verde e decorata da begli affreschi nel soffitto.

- Questa è la sala verde - disse Giasmîn. - Le loro stanze son per di qua.

E volse a destra.

Didino ed Europa guardavano maravigliati e intimori-ti la maestà severa del luogo e pareva loro li seguissero sguardi scrutatori e minacciosi.

Poi, come eran rimasti immobili, quasi vinti da parti-colar fascino suggestivo, Giasmîn li chiamò con allegra voce:

Si accomodino. Questa è la stanza da pranzo. -Guardarono. Era un enorme vano con zoccoli di legno alle pareti e decorazioni murali figuranti scene di caccia.

In [180] mezzo era posta una interminabile tavola di noce

alla quale avrebber potuto banchettare, senza trovarsi a disagio, i diecimila di Senofonte; tutt'intorno numerose poltrone dagli ampi bracciali, ricoperte di cuoio nera-stro, pareva attendessero gli eroi della gigantomachia.

Su la parete di fondo era un trofeo d'armi.

Due ampie finestre a sesto acuto, fiancheggiate da graziose colonnette, davano luce alla sala che aveva in sè una cupa severità e non predisponeva certo al buon umore.

- Mio Dio! - esclamò Europa stringendosi al braccio del compagno: - Questa è una caserma! Io non avrò mai appetito qua dentro.

- Veramente - rispose Didino - è un po' troppo grande per due; ma ci adatteremo.

- La nonna racconta - soggiunse Giasmîn - e dice cose di verità, ch'ella ha risaputo da' suoi vecchi antichi, che in questa sala mangiava il conte Leone co' suoi signori ed erano più di cento; e dice che i cuochi servivano vi-telli interi e pecore e agnelli arrostiti [181] e che si consu-Didino ed Europa guardavano maravigliati e intimori-ti la maestà severa del luogo e pareva loro li seguissero sguardi scrutatori e minacciosi.

Poi, come eran rimasti immobili, quasi vinti da parti-colar fascino suggestivo, Giasmîn li chiamò con allegra voce:

Si accomodino. Questa è la stanza da pranzo. -Guardarono. Era un enorme vano con zoccoli di legno alle pareti e decorazioni murali figuranti scene di caccia.

In [180] mezzo era posta una interminabile tavola di noce

alla quale avrebber potuto banchettare, senza trovarsi a disagio, i diecimila di Senofonte; tutt'intorno numerose poltrone dagli ampi bracciali, ricoperte di cuoio nera-stro, pareva attendessero gli eroi della gigantomachia.

Su la parete di fondo era un trofeo d'armi.

Due ampie finestre a sesto acuto, fiancheggiate da graziose colonnette, davano luce alla sala che aveva in sè una cupa severità e non predisponeva certo al buon

Due ampie finestre a sesto acuto, fiancheggiate da graziose colonnette, davano luce alla sala che aveva in sè una cupa severità e non predisponeva certo al buon

Nel documento Antonio Beltramelli. Gli uomini rossi. (pagine 129-151)