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Io sono venuto in contatto con Siza qui a Palermo Nicolin

insegnava a Palermo, intorno a lui gravitava un gruppo di persone e lavoravamo insieme, abbiamo lavorato insieme per sette o otto anni. Nel 1977 Alves Costa, Nuno Portas e Alvaro Siza fecero un giro delle Facoltà Italiane, per parlare dell'esperienza del Saal, e vennero a Palermo perchè Nicolin li conosceva e si era già interessato a questa esperienza. Li invitammo a Palermo e loro vennero con una mostra di disegni e di alcune foto documentarie che avevano fatto per illustrare l'esperienza di ricostruzione del Saal, sostanzialmente a Porto. Parlarono della loro esperienza, si fece un piccolo seminario, un piccolo convegno in Facoltà, e quindi quella fu l'occasione per la conoscenza. L'anno dopo Lotus aveva intenzione di fare un numero proprio sull'esperienza del Saal e Nicolin mi chiese di andare, nel '78. Lotus aveva un rapporto con la fotografia abbastanza strano, che si è andato precisando negli anni successivi, con la conoscenza di Ghirri, Chiaramonte e degli altri cinque o sei fotografi che lavorano normalmente per Lotus adesso. Conoscenza che ha segnato un cambiamento della rivista verso una cura dell'immagine molto diversa.

Con la fotografia mi sembra che avessero ancora un rapporto da illustrazione, come se la fotografia non fosse ancora un testo, fosse un'illustrazione necessaria di tanto in tanto a sostenere i testi. Anche se fin dal primo numero che dirige Nicolin c'è un servizio di Cresci: nei rapporti della rivista nel suo complesso la fotografia non è ancora un testo, però è un

oggetto che viene ospitato nella rivista, così come l'architettura, per cui se ne avvertono probabilmente già alcune connessioni.

In quell'occasione ho fotografato alcune cose in più, per esempio una delle case, credo che le foto più pubblicate della casa Cardoso, quella a Moledo, provengano da un rullo scattato sotto la pioggia. Poi la cosa che ha fatto crescere questa conoscenza è un'occasione che invece riguarda la Sicilia, perchè nell'80 organizzammo, sempre con l'Università, col gruppo di Nicolin, un laboratorio di progettazione nel Belice. Furono invitati alcuni architetti, tra cui Nicolin, Purini, Siza, Francesco Venezia, si avviarono questi laboratori e noi ci distribuimmo dentro ai laboratori. Io cominciai a lavorare nel laboratorio di Siza, e in un certo senso da allora questi rapporti non si sono più interrotti, uno dei temi del laboratorio è quello che è diventato il progetto di Salemi, con la piazza e quello che verrà adesso, quindi si è sviluppata una continuità. L'altro progetto del laboratorio è un lavoro molto soggettivo di Siza, a cui non si può dire che noi abbiamo partecipato in qualche modo, se non assistendo, o cercando di capire che cosa succedeva a lui nel vedere alcune cose, cercando di capire questo modo di rappresentarle, di raccontarle agli altri. L'argomento era le Cave di Cusa, quelle dei blocchi dei templi di Selinunte: le Cave di Cusa sono appunto le cave da cui sono stati estratti i materiali, preformati, e poi trasportati fino a Selinunte per la costruzione dei Templi.

Si sono interrotte, si dice per l'invasione cartaginese, interrotte di colpo. La cosa curiosa di queste cave è che sembra che il lavoro si sia interrotto ieri, perchè il paesaggio è abbastanza intatto: tutto quello che si vede è la cava, con la forma dei pezzi estratti, qualche volta addirittura con i pezzi estratti ancora attaccati al suolo, non ancora del tutto asportati, e con alcuni rocchi di colonne che sembrano rotolare nella campagna. Sono in posizioni dinamiche, come se stessero per essere spostati o se dovessero andare da qualche parte. E' come una visione fissa di una scena bloccata, ma a un momento che risale a duemila anni fa, è molto suggestiva. Questa cosa fu interessante, questo lo dico perchè serve a spiegare la maniera in cui mi misi a lavorare dopo, perchè in verità Siza su questo posto non fece nessun progetto. Fece semplicemente un progetto per vedere il posto. Alla fine il

progetto era costituito da una serie di disegni, di schizzi, che montammo insieme a una serie di planimetrie, con cui si spiegavano una serie di percorsi. Il primo era quello che c'era e che gli era capitato di fare il primo giorno, quindi non sapendo che percorso fare; il secondo era quello che aveva fatto trovandosi all'improvviso davanti a un ostacolo che era un corso d'acqua, che impediva di passare dalla campagna alla parete della cava; il terzo era quello che, avendo messo insieme gli elementi dell'uno e dell'altro, proponeva un itinerario: il più progettato di tutti. Per me la lezione più interessante di questa esperienza, fu esattamente quella.

Io non avevo mai visto l'architettura in questa maniera.

Col pensiero si possono imparare molte cose su qualunque azione: sul camminare, viaggiare e così via, ma molto difficilmente si farà qualcosa del camminare, del viaggiare, quindi dell'architettura. Ero in una situazione in cui sapevo molte cose sull'architettura, ma non dell'architettura, non dell'esperienza, la mia esperienza fino a quel momento era pensare all'architettura, e quindi progettarla pensando. E anche con la fotografia, devo dire, facevo una distinzione: io avevo un esercizio a guardare, però con una distinzione assolutamente banale, pensavo che la fotografia fosse per vedere e l'architettura per progettare. Devo dire che sono dei luoghi comuni contro cui combatto quotidianamente a scuola, lavorando con gli studenti: a volte veramente si rifiutano di vedere, perchè credono che non sia il loro lavoro, che non riguardi il loro lavoro in quel momento. Poi magari hanno talento, attitudine per vedere e la tengono da parte, non sanno cosa farsene. Quindi io ho avuto un lunghissimo periodo in cui, vivendo il luogo comune dei mestieri, delle attività diverse, separavo, e quindi avevo una grossa difficoltà sia a progettare che a fotografare.

L'architettura e la fotografia hanno tempi diversi, nel senso che la verifica dell'architettura è una verifica lenta, di tempi lunghi, non solo perchè la realizzazione a volte si fa molto tempo dopo, o non si fa per nulla: parlo di verifiche interne al progetto, che hanno tempi più lunghi. Mentre la fotografia ha insita questa idea dell'istantaneità, della possibilità di vedere subito, e quindi di fare marcia indietro. E'più veloce; ma anche questo è un luogo comune. All'emozione del

vedere e quindi provare a registrare quello che si vede, può seguire quasi immediatamente una forma di rappresentazione, di verifica.

Il lavoro su Siza mi è servito poi per rimettere insieme tutto, il disegno, la fotografia, l'architettura, per uscire anche dall'idea, dal pregiudizio che si trattasse di campi separati. Adesso io non ho nessun dubbio su questo, faccio l'architetto e mi piace, continuo a fotografare. Non potrei dire nemmeno che si tratti di uno strumento, nel senso che non riesco a separare, è un oggetto in sé, è una cosa in sé che mi può dare una gratificazione, anche separata.

Però mi serve anche, le due cose sono correlate.